Antigone l’ha definito «il più grande attacco alla libertà di protesta della storia repubblicana». Ora, con la firma del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e con la pubblicazione del testo in Gazzetta ufficiale, dal 12 aprile il decreto Sicurezza è entrato a tutti gli effetti in vigore. Non sono bastati gli appelli di associazioni, società civile e organizzazioni internazionali, le proteste di piazza e gli emendamenti delle opposizioni a fermare la deriva securitaria del governo. Che anzi ha scelto di forzare la mano e, per superare le lungaggini dell’iter parlamentare, ha scelto di trasformare un disegno di legge (che avrebbe dovuto fare un terzo ritorno in Parlamento, alla Camera dei deputati, per problemi di coperture finanziarie) in un decreto che verrà blindato in sede di conversione in legge entro 60 giorni.

Almeno 14 nuovi reati

«Secondo i miei calcoli si introducono 14 nuovi reati, che si aggiungo ai tanti inasprimenti di pena», spiega l’avvocato Roberto Lamacchia, presidente di Giuristi democratici. Numeri che, tra l’altro, si scontrano con le parole del ministro della Giustizia Carlo Nordio che, qualche giorno fa in Senato, ha detto che l’aumento di detenuti non deriva dai nuovi provvedimenti adottati dalla maggioranza di governo. «L’affermazione è totalmente infondata perché l’introduzione di reati necessariamente comporta l’apertura di procedimenti che si possono concludere con pene che comportino la carcerazione – continua Lamacchia – e questo inevitabilmente, insieme all’inasprimento di pene, comporterà un numero di detenzioni superiore a quello attuale».

Lo strumento scelto, il decreto-legge, non è poi meno problematico: «Se l’ormai ex ddl Sicurezza era in discussione da più di un anno, viene da chiedersi quali siano i motivi di necessità e urgenza. Se c’erano già allora, si sarebbe dovuto operare da subito col decreto legge; al contrario, se non esistevano non sono sicuramente sopravvenuti nel frattempo», sottolinea il presidente di Giuristi democratici. E poi ci sono i contenuti, racchiusi in 38 articoli, che ricalcano in gran parte le misure del ddl Sicurezza, integrate recependo alcuni rilievi arrivati dal Quirinale: ecco quali sono (e in cosa sono cambiati rispetto al testo originario) i provvedimenti entrati da poco in vigore.

Blocchi stradali, occupazioni e grandi opere

Con il nuovo decreto sicurezza, così come previsto dall’originario ddl, il blocco stradale, fino a ieri illecito amministrativo, diventa un reato a sé punito con un mese di carcere e una multa fino a 300 euro. Ma se il blocco «è commesso da più persone riunite», come sempre avviene in questi casi, la pena può salire «da sei mesi a due anni»: una norma che, come per altri articoli, è cucita ad hoc per colpire forme di proteste come quelle degli ecoattivisti di Ultima generazione o Extinction Rebellion ma che avrà l’effetto di reprimere anche altre forme di lotta, come per esempio i picchetti dei lavoratori.

Viene poi introdotto il reato di «lesioni personali ai danni di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni o del servizio», con la reclusione da due a cinque anni che può aumentare nel caso di lesioni «gravi o gravissime». In questo caso potrà poi scattare l’arresto in flagranza, se avviene durante manifestazioni pubbliche. Nasce anche la nuova fattispecie di «occupazione arbitraria di immobili destinati a domicilio altrui» punita con la reclusione da due a sette anni. Si prevede poi il carcere da sei mesi a un anno e mezzo e una multa di 3mila euro in caso di deturpamento o imbrattamento di «beni mobili e immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche» (con un aumento di pena fino a tre anni e una sanzioni fino a 12 mila euro in caso di recidiva).

Diverse aggravanti

Ci sono poi tutta una serie di aggravanti che colpiranno le manifestazioni. C’è quella che punisce «la violenza o la minaccia» se è «commessa al fine di impedire la realizzazione di infrastrutture destinate all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici»,  (nel testo originario si parlava solo di «opera pubblica» o «infrastruttura strategica»): non a caso questa norma è stata subito ribattezzata «anti no-Ponte sullo Stretto e no-Tav». È prevista poi un’aggravante del già esistente reato di «violenza o minaccia» e di «resistenza a pubblico ufficiale» nel caso in cui l’azione sia compiuta contro un agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza. In questo caso, con le pene che possono salire fino alla metà, il massimo edittale potrebbe arrivare fino a sette anni.

«Colpire la parte debole della cittadinanza»

«Pene per le quali – aveva spiegato a Domani l’avvocato Cesare Antetomaso – c’è il rischio di non poter accedere a misure alternative e per cui, potenzialmente, sarà anche concesso di compiere intercettazioni telefoniche». Spesso, continuava l’avvocato, alcune forme di resistenza passiva vengono già interpretate come «resistenza a pubblico ufficiale»: «Ora il terreno diventa labile. Anche a livello di percezione, i funzionari di polizia potranno pensare che un determinato comportamento possa essere sanzionato, per esempio se mi incollo pacificamente a un palo».

«L’intento è chiaramente quello di andare a colpire la parte debole della cittadinanza e, soprattutto, quella forma di dissenso che si sviluppa nei confronti, in particolare, delle principali opere pubbliche attualmente allo studio – prosegue il presidente di Giuristi democratici Lamacchia –. È evidentissimo che il tentativo è quello di bloccare, impedire o ritardare gli effetti di iniziative di dissenso politico. Invece di andare a ricercare soluzioni sul piano del confronto dialettico, si preferisce scegliere quel meccanismo chiamato “panpenalismo”o “ipercriminalizzazione” che va a colpire determinati soggetti, in questo caso gli attivisti, gli occupanti, a cui poi sotto altri profili si aggiungono i migranti, i rom, eccetera».

Diritto alle armi

 

In questo video Nello Trocchia analizza il cosiddetto “diritto alle armi” contenuto nel decreto, cioè la norma che consente alle forze dell’ordine di portare in giro armi comuni, diverse da quelle di ordinanza, senza denunciarle.

Rivolta nelle carceri e nei Cpr

Una delle disposizioni più criticate, e per cui sono stati in parte accolti i rilievi provenienti dal Quirinale, è la nascita del reato di «rivolta all’interno di un istituto penitenziario» che punisce, con pene da uno a cinque anni, «chiunque, all’interno di un istituto penitenziario, partecipa ad una rivolta mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza, commessi da tre o più persone riunite». Qui il Colle è intervenuto chiedendo di specificare il nucleo delle condotte di resistenza, circoscrivendole agli «ordini per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza». La resistenza, si legge nel testo del decreto, può essere anche «passiva» (la norma è stata per questo ribattezzata «anti-Ghandi»).

Ma «la rivolta violenta è già punita – aveva spiegato a Domani Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone –. Anche qui si vuole dare un segnale simbolico per come sono andate le cose negli ultimi mesi. Ma chi protestava lo ha fatto perché chiedeva qualcosa e aveva bisogno di un ascolto». In Italia, con 62.153 detenuti su una capienza effettiva di circa 47 mila posti, il sovraffollamento carcerario è superiore al 132 per cento. «Davanti a queste condizioni il governo criminalizza anche la resistenza. Potrà essere perseguito anche lo sciopero della fame?». Il nuovo reato viene esteso anche ai Cpr, dove spesso i migranti vivono in condizioni disumane ma dove si sa poco di quel che succede all’interno. Con il grande paradosso che i Cpr vengono equiparati agli istituti penitenziari nel caso di nuovi reati, senza però che a questi centri di detenzione amministrativa vengano estese le “garanzie” costituzionalmente previste per i luoghi di privazione della libertà personale.

Carcere per madri con figli al seguito

Altra disposizione criticata, e su cui è intervenuto il Quirinale, era quella relativa al carcere per le madri con figli al seguito. La detenzione, nel caso di una donna incinta o madre di un bambino con meno di un anno di età, deve essere obbligatoriamente rimandata. Con il testo originario, il governo voleva trasformare questa obbligatorietà in scelta facoltativa. Ora, con il decreto approvato il 4 aprile e pubblicato in Gazzetta ufficiale l’11, il rinvio della pena rimane facoltativo ma deve comunque avvenire nei cosiddetti Istituti a custodia attenuata per madri (Icam) dove, secondo i dati del ministero della Giustizia aggiornati al 31 marzo del 2025, c’erano 15 detenute con altrettanti figli al seguito. Il dl Sicurezza introduce anche l’obbligo per il governo di presentare al Parlamento, entro il 31 ottobre di ogni anno, una relazione sulla gestione delle misure cautelari e delle pene emesse nei confronti delle detenute madri.

Una norma «inutile e dannosa», l’aveva definita Paolo Siani, ex parlamentare Pd che nella scorsa legislatura aveva presentato una proposta di legge per vietare la custodia cautelare in carcere per le detenute madri con figli di età inferiore ai sei anni e, in parallelo, di privilegiare le case famiglia come luoghi alternativi ma più adatto in cui scontare la pena. «Quando il governo dice che non mette le donne in carcere ma negli Icam, come se fosse una cosa molto diversa, dimostra che non ne ha mai visitato uno perché è comunque un carcere», aveva sottolineato a Domani. Anche qui, l’intento è chiaro: colpire le borseggiatrici di etnia rom che, secondo una certa narrazione, mettono al mondo bambini proprio per evitare di finire in carcere. «La narrazione che viene fatta presenta questa disposizione per colpire le borseggiatrici rom che stanno nelle metropolitane, ma la verità è che costituiscono una piccola percentuale del problema. La soluzione del governo è il carcere, ma quello che più mi fa inorridire è che non si pensi minimamente al bambino».

Tutela legale e bodycam per le forze dell’ordine

Un elemento entrato ex novo nel decreto, e che non era presente nell’originario disegno di legge, è la tutela legale per le forze dell’ordine, per i vigili del fuoco e per le forze armate indagati o imputati per fatti connessi alle attività di servizio. Il dibattito era nato dopo che a capodanno, in provincia di Rimini, un maresciallo dei carabinieri era finito indagato dopo aver sparato e ucciso un uomo che aveva accoltellato quattro persone. Il ministro della Difesa Guido Crosetto è tornato sul tema, dopo che l’11 aprile ad Atena Lucana (Sa) un militare dell’Arma ha sparato a un ladro in fuga. Al carabiniere, ha scritto Crosetto su X, «è stata sequestrata la pistola d’ordinanza e la procura ha instaurato un procedimento penale per eccesso colposo in legittima difesa (…). Questa vicenda, uguale a centinaia di altre, evidenzia ancora una volta la necessità di una norma che tuteli il personale delle forze di polizia dall’automatismo della sottoposizione a procedimento penale in caso di uso legittimo delle armi o della forza».

Per il ministro, probabilmente, si sarebbe dovuto fare di più – far venir meno, per le forze dell’ordine e per alcuni reati, l’obbligatorietà dell’azione penale prevista dalla nostra Costituzione – ma alla fine il governo non ha scelto (per ora) la strada dello scudo penale ma della tutela legale, che consiste in una copertura fino a 10mila euro per le spese legali in ciascuna fase del procedimento e nel venir meno dell’automatismo della sospensione dal servizio (prima di eventuale condanna definitiva). Le forze dell’ordine potranno poi scegliere (ma non saranno obbligate, come invece chiesto da varie organizzazioni) di indossare bodycam durante il servizio.

Servizi segreti e terrorismo

Dal decreto Sicurezza è saltata – e anche qui, probabilmente, lo “zampino” è del Quirinale – un’altra delle misure più contestate, quella che obbligata le pubbliche amministrazioni, le università o gli enti di ricerca a collaborare con i servizi segreti e cedere informazioni e dati in proprio possesso per motivi di sicurezza nazionale e in deroga alle leggi sulla privacy. Resta invece la norma che autorizza gli agenti dell'intelligence a partecipare e dirigere associazioni sovversive e terroristiche e a prendere parte ad associazioni mafiose.

Al primo articolo viene poi inserito il nuovo reato di «detenzione di materiale con finalità di terrorismo». Chiunque, si legge nel testo, «consapevolmente si procura o detiene materiale contenente istruzioni sulla preparazione o sull’uso di congegni bellici (…), di armi da fuoco o di altre armi o di sostanze chimiche o batteriologiche nocive o pericolose, nonché su ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, con finalità di terrorismo, anche se rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale, è punito con la reclusione da due a sei anni». Viene prevista una pena detentiva, da sei mesi a quattro anni, anche per chi diffonde o pubblicizza questo materiale con ogni mezzo, anche online.

Sim per migranti e cannabis light

E poi è stata eliminata quella che per molti era «una norma di pura cattiveria»: il divieto di acquistare Sim telefonica in assenza di permesso di soggiorno. Una misura che avrebbe impedito a molte persone di comunicare tra loro e con la propria famiglia. Basta pensare ai tantissimi minori non accompagnati che ogni anno arrivano in Italia e che, secondo i dati del ministero del Lavoro, sono oltre 20mila (ma più di 100 mila sono quelli sbarcati sule nostre coste negli ultimi 10 anni). Con la nuova riformulazione del testo, per acquistare una scheda telefonica basterà un qualsiasi documento d’identità.

C’è anche il capitolo sulla cannabis light, con il decreto che vieta l’importazione, la cessione, la lavorazione, la commercializzazione e la spedizione delle infiorescenze della canapa sativa. L'articolo 18 del decreto sicurezza consente ora la produzione di infiorescenze contenenti Cbd solo se destinate al "florovivaismo professionale”. Il rischio, più che concreto, è quello di mandare in fumo 10mila posti di lavoro e distruggere una filiera che vale oltre 500 milioni di euro (dell’impatto sull’intero settore, dalla coltivazione alla distribuzione al dettaglio, ne avevamo parlato qui).

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