Uomini di tutte le età si confrontano nel gruppo di condivisione romano di Maschile Plurale. Il movimento fa anche attività pubblica che consiste nel fare formazione nelle scuole, nel collaborare con centri antiviolenza, nel partecipare e organizzare incontri per sensibilizzare sui temi della maschilità e delle relazioni tra uomini e donne. Le loro storie
Su una strada lunga e silenziosa del quartiere romano di Testaccio c’è una porta chiusa con un lucchetto dorato, con le grate e una cassetta delle lettere in ferro battuto. È qui davanti che si danno appuntamento i partecipanti di “Maschile in gioco”, il gruppo di condivisione romano di Maschile Plurale. Un’associazione «impegnata nel promuovere una cultura che superi il patriarcato e una società liberata dal maschilismo e dal sessismo» si legge sul sito. «La vera questione oggi non è quella femminile, è quella maschile» spiega Nino, pugliese d'origine, romano d’adozione, partecipante del gruppo dal 2015, mentre apre il lucchetto.
Per due martedì al mese, una decina di uomini si incontra nella stanza di Testaccio, impegnandosi a pagare un affitto. Il fatto di non riunirsi al bar o a casa è una scelta: «Le riunioni sono una dimensione sicura dove possiamo aprirci liberamente. In casa si altera l'equilibrio di poteri; il proprietario ha delle incombenze rispetto agli altri, ma noi vogliamo essere tutti sullo stesso piano» spiega Nino.
L’esperienza è rivolta agli uomini, ma è stato possibile organizzare un incontro “misto”. Alessio ha 61 anni, ha origini calabresi, è un insegnante di scuola superiore e frequenta il gruppo da un anno, da quando si è trasferito a Roma da Milano. Spiega che «essere tra uomini è una modalità specifica del gruppo». I cerchi di parola possono essere misti, aperti sia a uomini sia a donne, o separati, riservati agli uni o alle altre.
«La cosa importante per me è che, in questi diversi set, la differenza dei nostri corpi e delle nostre soggettività modifica anche il linguaggio, gli scambi di parola. Bisogna sapere che il discorso non è mai neutro e in base a questo scegliere le modalità, vanno bene tutte pur di essere consapevoli delle loro differenze».
Storie e silenzi
Oggi qualcuno ha portato della pizza da stuzzicare. Ci sediamo in cerchio attorno a un tavolo, con un pc aperto per il collegamento da casa. Dalle 20 alle 22 ognuno racconta le proprie esperienze, non si affrontano concetti astratti, oppure si resta in silenzio. Parliamo a turno, le voci non si sovrappongono. Non c’è qualcuno deputato a scegliere un argomento, introdurlo o gestire le interazioni.
«Bisogna distinguere la nostra pratica da una che diventa terapia analitica, al limite autogestita. Noi ci diciamo di parlare, di ascoltare senza atteggiamenti giudicanti», spiega Alberto, 75 anni, giornalista e partecipante da almeno dieci anni. Oltre ai componenti abituali, oggi ce ne sono tre nuovi.
Accedono alla riunione liberamente: «Si contatta qualcuno e si viene invitati al giorno fissato. Se c’è interesse si continua, altrimenti no. Il gruppo non è rigidamente normato», spiega Alberto. Due dei nuovi hanno circa 30 anni, sono più giovani degli altri; secondo Nino «in genere si arriva dopo i 40 o i 50 anni. Ora l’età si sta abbassando, ma si tratta di presenze temporanee, che poi vanno via e spesso non sappiamo perché».
Lo stesso Nino ha iniziato a 50 anni, quando si avvicinava la pensione. Sposato con due figli, lavorava in banca, con mansioni che non gli davano soddisfazione, ma solo sicurezza economica. Quella vita era tutta un «dover essere», «dovermi adeguare». Era a disagio nel sentirsi diverso rispetto alle regole non scritte.
Ha iniziato a riunirsi con alcuni amici a Bari e ha continuato a Roma, dove è venuto nel 2015: «il gruppo romano non si riuniva più da anni, ma io avevo bisogno di questo ancoraggio perché nel trasferirmi avevo lasciato tutto. Siamo ripartiti insieme».
Educazione
Alessio ha esperienza di gruppi misti. Spiega che avere un corpo maschile o femminile influenza l’individuo, il suo stare al mondo e nelle relazioni. Ricorda: «I miei lavoravano entrambi, ma c’era una netta divisione in casa: mia sorella doveva fare le faccende con mia madre; a me non era chiesto niente». Per non parlare della sessualità: «L’educazione prescriveva disinibizione agli uomini e prudenza alle donne». Si tratta di rigidi modelli ereditati, trasmessi attraverso la cultura patriarcale, ci spiega Lorenzo Gasparrini, filosofo femminista: «È una forma di potere che diventa ruoli sociali precisi, forme linguistiche, rituali di accesso a certi poteri per certi luoghi, classi sociali».
In ottica femminista, il potere si basa sulla preminenza del corpo maschile su quello femminile: «La differenza biologica ha generato stereotipi e luoghi comuni che stabiliscono una differenza sociale e di ruoli, ormai storicamente fissi, che in realtà non dovrebbe esistere». Differenze che possono influire sulle scelte individuali: «Viviamo in una cultura che dice a un genere di sviluppare alcune caratteristiche, che hanno soprattutto a che fare con la forza, all’altro altre, considerate minori, secondarie, "femminili". Accade quando si dice al bambino "certe cose non le puoi provare" e alla bambina "certe cose non sono adatte a te", ma la dotazione umana è uguale per chiunque». conclude Gasparrini.
Schemi ripetuti
Le storie dei membri di Maschile in Gioco sono diverse, ma accomunate dalla presenza di stereotipi. Per Nino riguardano l’amore romantico, una relazione monogama per la vita, unico ambito in cui esplorare la sessualità; il matrimonio e la creazione di una famiglia, unica possibilità di vivere l’amore; il lavoro, garanzia di una sicurezza economica per creare una famiglia e non di soddisfazione personale, ma anche luogo di competizione e gerarchie da rispettare; il genere, perché l’uomo è legittimato ad alzare la voce sulla donna e a delegarle la sfera della cura; la mancata condivisione dei propri sentimenti più intimi con gli altri uomini. Schemi ripetuti.
Gli schemi ripetuti sono «rassicuranti», spiega lo psicoterapeuta Andrea Bernetti. «Abbiamo due esigenze vitali: esplorare il mondo ed essere rassicurati. La cultura ci mette a disposizione, tra le altre cose, l’identità di genere come elemento rassicurante, come una mappa che mi dice chi sono, dove muovermi, come esprimermi». Il gruppo romano serve proprio a ripensare questi modelli.
È possibile farlo perché è già successo: «il movimento femminista», continua Bernetti, «ha aperto uno squarcio nella riflessione sui generi». A partire dagli anni Settanta, in alcuni collettivi femministi che per primi hanno contestato i rigidi modelli ereditati, le donne facevano pratica di autocoscienza. Ne parla Maria Paola Fiorensoli, giornalista e femminista: «La radice dell'autocoscienza è lo stare male, proprio o delle donne vicine a noi. Nasce dal bisogno identitario, di sfogo, di ribellione. Parlando, scopri che quello che fa male a te fa male anche alle altre e cerchi di capire perché. È un percorso di svelamento delle dinamiche in cui vivi, dei comportamenti asimmetrici che subisci e che agisci».
Il percorso di autocoscienza femminile è quindi diverso dalla condivisione maschile che pratica il gruppo romano. Secondo Maria Paola Fiorensoli «gli uomini devono fare un lavoro di decostruzione su loro stessi, imparare a fare un passo indietro». Ne parla anche Alessio: «se si riconoscono degli assi di oppressione nella società, l'uomo non può fare il percorso della donna, perché non è nella stessa posizione di oppressione». Ecco perché il gruppo romano si chiama “di condivisione”, intesa come «un cerchio di parola in cui esprimersi senza giudizio, in modo dialettico, senza un vincitore e un vinto.
Il racconto delle nostre esperienze può espandere la visione che abbiamo della questione» conclude Alessio. Funziona perché si condivide. «Nell’esperienza di gruppo sospendo l’azione e ragiono sui significati che le cose hanno per me», ci spiega il dottor Bernetti. «Il gruppo è efficace quando interiorizzi questo lavoro e lo fai anche fuori. La presenza di altre persone rende tutto più realistico, perché la realtà in cui viviamo è gruppo».
Il percorso di questi uomini va avanti per spinta interna. A Nino «l’incontro con il gruppo ha permesso di avere più dimestichezza con l’intimità». Oggi non è più sposato, ha un rapporto civile con l’ex moglie, paritario. È interessato alle dimensioni “non romantiche”, incontri basati sul consenso e sul rispetto.
Non lavora più: «Ho la mia pensione dovuta agli anni di “prigionia”. Adesso sono libero. Ho 75 anni e costello la mia vita di punti interrogativi. Mi piace sentirmi in cammino, mai arrivato. E nel gruppo si aprono tante possibilità».
Per Alessio è un’esigenza di libertà: «Prima di frequentare i gruppi di condivisione pensavo a cambiare un ordine politico e sociale. Oggi so che la libertà è una scelta personale. Ogni giorno posso scegliere le dimensioni che mi rendono più libero, in cui posso essere il meglio a cui posso aspirare io, anziché quello che mi hanno raccontato che devo essere».
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