Un’altalena di conquiste e passi indietro: così si può descrivere l’avventura politica delle donne dalla conquista del suffragio in poi, in Italia. Più che un progresso lineare, la storia della partecipazione alla vita democratica della metà del démos storicamente esclusa descrive una traiettoria costellata di successi e fallimenti nella lotta contro l’ostilità, più o meno dichiarata, della politica maschile.

Una storia di «uomini contro», l’ha chiamata Mirella Serri, in cui il contrasto alle aspirazioni delle donne è venuto da tutte le parti politiche, anche da sinistra, e ha fatto della sottorappresentazione femminile nelle assemblee elettive e nei luoghi decisionali un dato quasi strutturale del panorama italiano.

Su questo sfondo, dinnanzi alla traccia perdurante di una visione che ha condannato le donne alla minorità politica, non considerandole in grado di interpretare l’interesse generale del paese da posizioni di vertice, si stagliano per contrasto alcuni fatti recenti.

La vittoria di Giorgia Meloni alle elezioni politiche del 2022, seguita pochi mesi dopo (nel 2023) dall’elezione di Elly Schlein alla segreteria del Partito democratico, ha condotto alla situazione inedita di un conflitto tra campi avversari che vede due donne alla guida della coalizione di governo e del maggiore partito di opposizione. Sono entrambe delle prime volte. Come è stata la prima volta, sempre nel 2022, che tre donne si siano trovate sedute al vertice delle istituzioni dell’Unione europea: Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea, Roberta Metsola al parlamento di Strasburgo, e Christine Lagarde a capo della Banca centrale. Profili femminili di leadership emergono in diversi paesi, più spesso a destra ma anche a sinistra.

Il rischio 

Si fa forte allora la tentazione di vedere in questa fase nuova il superamento della contraddizione che vive fin dalla Rivoluzione francese tra la figura della donna e quella della cittadina, tra le gerarchie di genere nella società e l’uguaglianza formale nei diritti che è fondamento giuridico dello stato democratico-liberale. Sarebbe questa, tuttavia, una rappresentazione falsa.

Non solo perché l’avanzamento delle donne in politica continua ad avvenire al costo di incessanti conflitti per il loro riconoscimento e di pesanti rinunce sul piano della vita personale, che non hanno equivalenti nell’esperienza degli uomini di potere. Ma anche perché alle storie di successo di donne che conquistano posizioni di guida non corrisponde di necessità un avanzamento nella condizione delle donne, né sul piano economico-sociale né su quello dei sistemi di valore culturale.

Il malessere 

Il malessere trapela, in Italia, tanto dai dati sulla sottoccupazione femminile quanto da quelli sulla bassa natalità. Dallo stato dei servizi per la salute sessuale e riproduttiva come dalla piaga endemica della violenza di genere. Lo stesso paese che appare pronto, nonostante le resistenze, a scommettere sulle donne in posizione di leadership, non sembra altrettanto deciso a investire nelle donne, rispondendo alle loro domande di giustizia.

Più fosca ancora si fa l’immagine quando lo sguardo si rivolge alle componenti migranti e alle minoranze etnico-razziali e sessuali, per le quali la tutela dei diritti fondamentali appare assai fragile, specialmente sotto governi di orientamento nazionalista e reazionario.

Se poi il quadro si amplia al panorama internazionale, alle democrazie avanzate in Europa e in America, a colpire piuttosto che gli avanzamenti sono gli arretramenti: dall’opposizione alla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne nei paesi guidati dalla destra radicale, agli attacchi all’aborto, fino alle norme che minacciano la vita personale e familiare delle persone Lgbt+.

Non di rado, la responsabilità di simili misure ricade, almeno in parte, su donne che detengono quote di potere esecutivo o giudiziario. Si pensi al caso della sentenza Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization del 24 giugno 2022, con cui la Corte suprema degli Stati Uniti ha abolito la tutela federale del diritto di aborto.

Cruciale per la sua approvazione è stata la nomina da parte di Donald Trump della giudice antiabortista Amy Coney Barrett, che con la sua scelta ha mandato in frantumi anni di conquiste e battaglie femministe.

Quale politica

ANSA

Sembra allora opportuno lasciarsi definitivamente alle spalle ogni comprensione ingenua della relazione tra ingresso delle donne nei luoghi decisionali e promozione di politiche «per le donne», per affrontare interrogativi ineludibili sul rapporto che le donne in ruoli di potere intrattengono con le istanze sollevate nel passato e nel presente dal femminismo – o dai femminismi, al plurale.

Quale politica e quali politiche sono in grado di promuovere le donne che entrano nelle assemblee elettive e assumono incarichi di vertice? Che tipo di rapporto intrattengono con i movimenti femministi? Quale modello di donna orienta il loro agire, quando dichiarano di avere a cuore la «condizione femminile»?

Il problema del rapporto irrisolto tra donne e politica, pur non smettendo di interrogarci, richiede di articolarsi con quello del rapporto tra femminismi, democrazia dei partiti e rappresentanza. Il tema è tutt’altro che nuovo, avendo accompagnato decenni di relazioni conflittuali tra i movimenti delle donne e le organizzazioni politiche, in particolare della sinistra.

La questione sollevata dalla presa di parola delle donne, soprattutto a partire dalla «seconda ondata» del femminismo, ha riguardato il posto da assegnare a istanze elaborate in autonomia, spesso attraverso pratiche dirompenti ed estranee alla grammatica dei partiti e delle istituzioni, come il separatismo e l’autocoscienza.

Per molte, non poche

Tuttavia, lo stesso nodo merita di essere ripreso sulla scorta di due fenomeni degni di attenzione nel presente. Il primo è l’appropriazione di temi e linguaggi elaborati in seno al femminismo da parte di donne che appartengono a culture politiche lontane da esso, segnatamente la destra radicale, le cui leader si distinguono per tratti caratteristici come l’«emancipazionismo reazionario» e il «maternalismo identitario». Il secondo è la perdita di identità della sinistra, che ha implicazioni rilevanti anche per il rapporto tra questa parte politica e i movimenti delle donne.

La tesi che sostengo è che in nessuna forma il femminismo può essere considerato compatibile con progetti politici nativisti, autoritari e conservatori, anche quando avanzati attraverso il protagonismo di donne emancipate dai ruoli di genere tradizionali.

Questo significa comprendere il femminismo politico come qualcosa di più e di diverso da una semplice serie di massime per l’affermazione individuale, difendendone invece il carattere di movimento sociale, lavoro di riflessione delle donne sulla propria esperienza del mondo e azione di trasformazione. Un simile agire scaturisce da, ed è orientato a una dimensione collettiva, collocandosi dalla parte del cambiamento, della lotta per un ordine sociale giusto. Per molte, non per poche.

I nuovi movimenti femministi, in particolare, mostrano la capacità di combinare battaglie storiche, come quelle per l’aborto o contro la violenza, con obiettivi più vasti di trasformazione del sistema economico e sociale, e di riconoscimento e tutela di tutte le minoranze. La declinazione più avanzata di queste lotte, intendo sostenere, può nutrire una politica trasformativa anche nel campo di una sinistra che ritrovi se stessa, ponendosi all’altezza delle molteplici «crisi» del presente; e può ispirare un cambiamento nelle forme del fare politica.


Potere di altro genere. Donne, femminismi e politica (Donzelli Editore 2024, pp. 152, euro 17) è un saggio di Giorgia Serughetti

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