Una rete di protezione poco appariscente. Dimenticate le sentinelle lungo le vie, armate e pronte a fare fuoco. Chi ha assistito, aiutato e protetto gli affari che hanno garantito a Matteo Messina Denaro di trascorrere 30 anni di latitanza agiata sono insospettabili professionisti, politici, imprenditori. Borghesia mafiosa, in sintesi. Spesso affiliata alla massoneria. Medici, notai, avvocati, consiglieri comunali, deputati regionali e nazionali. Ognuno in modo diverso ha permesso alla famiglia Messina Denaro di diventare quello che è: una holding in grado di finanziare per tre decenni una fuga dispendiosa del suo padrino, pupillo di Totò Riina e come il re dei Corleonesi stragista negli anni della strategia della tensione a cavallo tra il 1992 e 1993. Chi indaga sulla rete di protettori del capo mafia ha adesso materiale su cui concentrarsi: gli appunti, la contabilità e i numeri di telefono scritti su alcuni fogli ritrovati nel primo covo del capo mafia, che potrebbero riscrivere storie passate e scriverne di nuove. L’indagine è solo all’inizio.

Campieri e senatori

Per capire la mafia imprenditrice trapanese, la borghesia mafiosa con il groviglio di interessi economici, logge massoniche segrete e appoggi politici, al cui vertice c’è Messina Denaro, aiuta la lettura della sentenza della corte d'Appello, confermata lo scorso dicembre dalla Cassazione, che ha condannato l'ex senatore di Forza Italia, Antonio D'Alì, a sei anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. D’Alì ha avuto peraltro ruoli di governo, sottosegretario al ministero dell’Interno nel governo Berlusconi tra il 2001 e il 2006. Al Viminale, luogo simbolo della lotta alla mafia e impegnato nella ricerca del latitante già all’epoca spicco, secondo solo a Bernardo Provenzano. Il processo a D’Alì è una vicenda che, come ricordano i giudici, attraversa la storia politica, economica e imprenditoriale siciliana e nazionale degli ultimi quattro decenni. Una storia che segna l'abbrivio dell'ascesa criminale dei Messina Denaro attorno al fondo agricolo Zangara. 

Un processo, chiuso con la condanna, ma che ha vissuto un'altalena di giudizi. Nei primi due verdetti era scattata la prescrizione per i fatti contestati fino al 1994 e l'assoluzione per quelli successivi, ma la Suprema corte ha chiesto un nuovo giudizio di appello per valutare le condotte in maniera continuativa e non più con una cesura temporale, quella del 1994. Un fatto però è stato accertato, in ogni ordine e grado: D'Alì è stato vicino a Messina Denaro e ha agevolato pure il massimo esponente di Cosa Nostra del tempo, Totò Riina, conquistandosì così la fiducia della consorteria. In che modo? Attraverso l'intestazione fittizia di un bene, che nei fatti era stato trasferito a un uomo di mafia il quale non poteva apparire per evitare sequestri. D'Alì si era fatto pagare in nero e poi aveva venduto, con atto formale, a un altro prestanome il fondo restituendo la somma ricevuta in contanti. L'ex senatore perciò è ritenuto consapevole di aver agevolato Cosa Nostra e i suoi massimi esponenti visti «gli stretti rapporti tra i D'Alì e i Messina Denaro», «una incondizionata disponibilità dell'imputato verso il sodalizio», ricambiata con il sostegno elettorale, nel 1994.

Per motivare la condanna i giudici riportano altri elementi dei rapporti strettissimi tra i D'Alì e la famiglia Messina Denaro a partire dalle dichiarazioni alcuni collaboratori di giustizia. Tra questi Antonino Giuffrè, ha ricordato che Francesco Messina Denaro, padre di Matteo, si vantava con Provenzano di «avere nelle mani il D'Alì, a disposizione». Una disponibilità che si registra già prima della candidatura, quando il futuro onorevole, amico di Renato Schifani (attuale presidente della regione), svolgeva il mestiere di banchiere nella banca Sicula.

Collaboratori di giustizia che raccontano prima il progetto naufragato del partito della mafia, Sicilia libera, e poi della scelta di sostenere Forza Italia nel 1994, contribuendo all'elezione di D'Alì. L’accordo elettorale politico-mafioso. Un appoggio che è stato rinnovato anche nel 2001, l'anno nel quale il centrodestra trionfa alla regionali con un 61 a 0 contro le sinistre. L’accordo tra Cosa nostra e il senatore forzista emerge anche dal famoso telegramma che il mafioso Francesco Virga gli inviò nel 1998 lamentandosi di stare in galera al contrario di quello che il D'Alì gli aveva prospettato, telegramma rivelato dalla prima moglie e che provocò la reazione furente del senatore. «Non si rinvengono, negli anni e nei decenni, elementi di discontinuità nell'atteggiamento del D'Alì di disponibilità a Cosa Nostra», si legge nella sentenza d'appello del 2021, confermata dalla Cassazione.

Sentenza che ripercorre anche il trasferimento del prefetto Fulvio Sodano, fedele servitore dello stato inviso ai mafiosi, perché strenuo difensore della società Ericina Calcestruzzi, confiscata e in mano pubblica. Così il clan si muove e interviene per far trasferire Sodano grazie anche all'interessamento del senatore D'Alì che agiva in favore delle imprese del territorio, legate alla mafia, e rimproverava Sodano perché favoriva l'Ericina costruzioni. In quel momento D'Alì era appena diventato sottosegretario all'Interno e dice a Sodano che dipendevano da lui «nomina e trasferimento del prefetto e del questore». Paradosso inquietante: lo stato nelle mani dell'uomo a disposizione della mafia, mentre il funzionario fedele «annientato nel fisico e nello spirito».

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La rete nei comuni

Ma non c'è solo Antonio D'Alì, ci sono altri politici coinvolti in inchieste e intercettati al telefono mentre esaltavano la figura di Messina Denaro. Partiamo dagli indagati, tra questi c'è Paolo Ruggirello, ex deputato regionale del Pd, sotto processo per associazione mafiosa, arrestato in un'indagine coordinata dal procuratore aggiunto di Palermo Paolo Guido (il pm che ha seguito la caccia al latitante) e dal pm Gianluca De Leo, insieme ad altre 24 persone ritenute organiche ai clan trapanesi legati a Messina Denaro. Agli atti anche il bacio sulla guancia e l'abbraccio tra Ruggirello e lo storico boss Mariano Asaro, uscito dal carcere nel 2018. L'incontro riguardava l'interessamento dell'ex deputato regionale per l'ambulatorio di odontoiatria del boss per favorire la convenzione con il servizio sanitario regionale, tentativo fallito. 

«Se io dovessi rischiare trent'anni di galera per nasconderlo, li rischierei, la verità ti dico», diceva Lillo Giambalvo, già consigliere comunale di Castelvetrano processato e assolto come fiancheggiatore di Messina Denaro. Agli atti restano le intercettazioni di stima incondizionata per il boss e odio nei confronti dei pentiti: «Lorenzo Cimarosa si è pentito, se fossi a Matteo ci ammazzerei un figlio, la verità ti dico e vediamo se continua a parlare», diceva Giambalvo. Lorenzo Cimarosa era un mafioso, cugino di Matteo Messina Denaro, pentitosi prima di morire. 

Anche il secondo covo scoperto dai Ros dei carabinieri nella disponibilità del boss conduce alla politica. È infatti intestato al fratello di un ex consigliere comunale di Forza Italia, Giovanni Risalvato, condannato a 14 anni di carcere per reati di mafia. Politico è stato il medico di base del padrino stragista, Alfonso Tumbarello, indagato dall'antimafia palermitana e sospeso dal grande oriente d'Italia, la massonerie di cui faceva parte. In passato è stato consigliere provinciale Udc e candidato al consiglio regionale ma non eletto quando Totò Cuffarò diventava presidente di regione nell'anno 2006.

Da ultimo c'è l'ex sindaco di Castelvetrano, Antonio Vaccarino, condannato per reati di droga negli anni novanta, e considerato vicino a Francesco Messina Denaro, ma anche interlocutore dei servizi segreti quando, firmandosi Svetonio, avrebbe intrattenuto una fitta corrispondenza proprio con Matteo Messina Denaro, che si firmava Alessio, per arrivare alla cattura del padrino poi tutto è sfumato nel più fitto mistero. Prima di morire Vaccarino è stato nuovamente arrestato e condannato in primo grado per favoreggiamento. 

Matteo, le logge e l’amico di Lagalla

Nella provincia di Trapani la politica è andata spesso a braccetto con la massoneria. Nel senso che nelle numerose logge massoniche sparse sul territorio si riunivano anche eletti locali, consiglieri comunali, assessori e deputati regionali. La commissione parlamentare antimafia nel 2017 ha scattato un’immagine dell’intreccio tra padrini, politici e massoni che è di estrema attualità. Un lavoro straordinario condotto sotto la presidenza di Rosy Bini, bestia nera delle obbedienze massoniche. Bindi, infatti, pur di ottenere i dati segreti delle principali organizzazioni ha usato i poteri ispettivi della commissione, come non accadeva da decenni. La guardia di finanza delegata all’operazione aveva così bussato dai gran maestri italiani per acquisire gli elenchi degli iscritti. La relazione approvata nel 2017 certifica la commistione tra cosche e logge. La commissione citava come caso esemplare per comprendere tale compenetrazione il feudo di Matteo Messina Denaro: Castelvetrano. 

«Le forze dell’ordine e la prefettura evidenziavano sin da subito che nel pur piccolo comune di Castelvetrano insistono diverse logge massoniche (sei sulle diciannove operanti nell’intera provincia di Trapani) e che nell’amministrazione comunale castelvetranese, già storicamente oggetto degli interessi mafiosi ma anche, come detto, dimora di qualche sostenitore del latitante, vi era un’elevata presenza di iscritti alla massoneria tra gli assessori (quattro su cinque), tra i consiglieri (sette su trenta), tra i dirigenti e i dipendenti comunali. Anzi, la stessa prefettura di Trapani segnalava che gli elenchi ufficiali degli iscritti nel trapanese apparivano incompleti per difetto e, pertanto, non era possibile ottenere una descrizione d'insieme del fenomeno», si legge nella relazione Bindi.

In sintesi, proseguono i firmatari del documento, «considerando le ultime due consiliature (fino al 2015) del comune di Castelvetrano, hanno assunto cariche elettive o sono stati membri di giunta almeno 17 iscritti alle quattro “obbedienze” di cui si dispongono gli elenchi. A questi potrebbero aggiungersene verosimilmente altri quattro, per un totale, dunque, di 21 amministratori pubblici». Una nota della Questura di Trapani del 2016 certificava 100 iscritti nella sola Castelvetrano suddivisi in 6 diverse logge, tutte però collegate tra loro. 

Questa fotografia scattata durante la latitanza di Messina Denaro si è arricchita con una nuova scattata nel 2022 dall’ultima commissione antimafia. Nella relazione finale sulle massomafie riprende il lavoro fatto da Bindi e aggiunge una vicenda accaduta nel 2019 che è la prova definitiva dei poteri che hanno protetto il destino e gli affari dell’ex latitante. Il 2019 è l’anno dell’inchiesta antimafia denominata “Artemisia”. L’indagato eccellente si chiama Giovanni Lo Sciuto, oggi imputato nell’omonimo processo. La procura contesta a Lo Sciuto di essere «organizzatore e promotore» di un’associazione fondata «sulla partecipazione di numerosi soggetti appartenenti alla Loggia Hypsas, ma non solo». Tra gli strumenti utilizzati dall’associazione segreta di Lo Sciuto c’era il «Centro sociologico italiano, sede di diverse logge, tra cui la Hypsas».

Altro indagato con cui Lo Sciuto ha gestito partite e contropartite si chiama Francesco Messina Denaro, cugino del boss, e all’epoca a capo di una rete di cliniche siciliane specializzate nella dialisi, proprio la società che le gestiva è al centro del favore e dell’accordo stretto tra Lo Sciuto e il cugino del boss.Tutti cercavano Lo Sciuto perché in quegli anni era un potente deputato regionale. Ora si sta difendendo dalle accuse.

Eletto con il Nuovo Centro Destra di Angelino Alfano, prima ancora era stato vicepresidente dell’Assemblea regionale siciliana quando governatore era Totò Cuffaro, l’ex presidente di regione poi condannato per favoreggiamento a un mafioso. Lo Sciuto peraltro è stato membro della commissione regionale antimafia. Il posto giusto per uno come lui che intercettato spendeva parole d’amore per il capo della mafia di Castelvetrano: sosteneva di conoscerlo fin dall’adolescenza e di «godere della sua protezione».

A questo va aggiunto il commento offensivo nei confronti di un collaboratore di giustizia, parente del boss, Lorenzo Cimarosa. Sulla vicinanza al padrino, secondo i magistrati, non è millanteria: «Tali dichiarazioni dell’indagato, ad avviso della procura di Trapani,non sarebbero frutto di millanteria. Apparirebbero, invece, connotate da assoluta attendibilità, basti pensare che effettivamente i due risultano ritratti insieme in una foto scattata in occasione del matrimonio della cugina del latitante risalente all’epoca in cui entrambi erano poco più che maggiorenni». Lo Sciuto ha sempre sostenuto che si trattava di un rapporto antico ma non più attuale. Emblematica una intercettazione in cui Lo Sciuto sembrerebbe rivelare quanto suggeritogli da Messina Denaro moltissimi anni fa: «Giovà io faccio una strada, tu fai una strada, statti lontano”, minchia me lo è venuto a dire».

Poche parole in una frase che spiegano quanto sia vitale per la mafia avere persone inserite in contesti distanti da quello criminale. Lo Sciuto ha fatto la sua strada lontano dalle pistole, Messina Denaro è diventato il latitante più ricercato del pianeta. Eppure quando il cugino del padrino è andato dal politico massone ha trovato un portone spalancato ed è stato accolto. 

A legare l’ascesa dell’ex politico sotto processo alla famiglia del boss è anche un’altra vicenda. Il gruppo massonico si riuniva per cene e serate conviviali in una pizzeria, Miros, passata poi nelle mani del nipote di Messina Denaro. 

Nell’indagine su Lo Sciuto emergono poi gli amici degli amici. I contatti con le «alte sfere» del partito cui apparteneva il massone amico di Messina Denaro. E tra i nomi noti indagati c’era Roberto Lagalla, all’epoca rettore dell’università di Palermo, attuale sindaco del capoluogo siciliano che prima di essere eletto ha ricevuto l’endorsement di Marcello Dell’Utri e Totò Cuffaro. Lagalla per il presunto favore concesso a Lo Sciuto non ha avuto conseguenze: inchiesta archiviata definitivamente. Ben due procure hanno dato ragione a Lagalla. «Il mio assistito ha chiarito ai pubblici ministeri anche i rapporti intrattenuti con l’ex deputato Lo Sciuto, persona che ha incontrato poche volte e per ragioni istituzionali», avevano dichiarato i legali dell’attuale sindaco.

Restano agli atti però i diversi incontri in facoltà tra l’amico di infanzia del padrino latitante per 30 anni e il professore che da lì a qualche anno sarebbe diventato il primo cittadino della città del pool di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il destino ha voluto che lo diventasse nell’anno in cui si ricordavano i 30 anni dalle bombe di Capaci e via D’Amelio per le quali è stato condannato Messina Denaro, un vecchio amico di massoni e politici. Le pedine che hanno cucito il cordone protettivo attorno all’ultimo padrino di Cosa nostra.

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