Domani è a bordo di Mediterranea – la nuova nave di Mediterranea Saving Humans in mare per la sua seconda missione – per documentare le attività di ricerca e soccorso che l’organizzazione svolge nel Mediterraneo centrale. Qui le puntate del diario di bordo.


Per un ragazzo era il terzo tentativo di attraversare questo tratto di mare. I primi due erano falliti: intercettato e riportato in Libia in entrambe le occasioni. Una donna, invece, ha raccontato di essere stata rinchiusa sottoterra con altre 400 persone. Sono le storie drammatiche di chi prova ad attraversare il Mediterraneo in cerca di un posto più sicuro dove vivere. Come le 65 persone soccorse domenica 2 novembre da Mediterranea, in due diverse operazioni in poche ore.

«Abbiamo fatto quello che dovevamo fare, eravamo dove dovevamo essere. Abbiamo evitato un ulteriore respingimento», dice Sheila Melosu, la capo missione, alla fine di una giornata pienissima. «In questi cinque giorni di navigazione abbiamo potuto documentare e denunciare tutto quello che quotidianamente avviene nel Mediterraneo centrale», aggiunge. Respingimenti fantasma, la violenza dei miliziani libici e i pericoli che corrono le persone senza vie di accesso legali in Europa.

Erano le 9:22 quando il comandante, dalla plancia di comando, ha avvistato la prima imbarcazione. Alle 12:45 il secondo segnale. Sulla rotta la nave dell’ong ha incontrato una barca e un gommone sovraffollati e in pericolo. Il primo con 37 persone a bordo, il secondo 28. Nessun giubbotto di salvataggio, solo camere d’aria, non certo una garanzia di sopravvivenza. Nessuno di loro si aspettava di incontrare soccorritori italiani. «Avevamo paura fossero i libici», hanno detto i primi uomini soccorsi, paura di tornare nell’inferno che hanno vissuto.

I soccorsi

Foto Ikonomu/Domani

Entrambe le imbarcazioni, secondo i racconti, sono partite da Zuara, a ovest di Tripoli. La prima stava navigando da circa quattro ore. Subito dal ponte è arrivato il comando di mettere in acqua i due Rhib, i gommoni di soccorso, e avvicinarsi all’imbarcazione in pericolo. Al primo contatto, non appena i naufraghi hanno capito che non si trattava della cosiddetta guardia costiera libica ma di soccorritori italiani, hanno urlato di gioia. Applausi, pollici in alto, «We love Italy», amiamo l’Italia. Sui loro volti sorpresa e incredulità.

«La cosa più importante in un soccorso è il crowd control». Lo aveva spiegato Iasonas Apostopoulos, il coordinatore dei soccorsi, durante i training. Perché il rischio è che le imbarcazioni già sovraffollate e in pericolo si ribaltino è alto. Serve prima stabilizzare la situazione così che tutti abbiano i salvagenti e stiano seduti.

Apostopoulos avvicinandosi alla barca ha spiegato che si trattava di un’organizzazione italiana e che tutti sarebbero stati soccorsi. Dopo aver accolto la prima decina di persone, una donna ancora sullo scafo si è sporta fuori per vomitare. Sono serviti tre giri con i gommoni per riuscire a portare in salvo tutte le persone. Alle 10.35 i 36 naufraghi, di cui tre donne e – dalle prime informazioni, 7 minori stranieri non accompagnati – si trovavano tutte sulla Mother Ship, Mediterranea.

E occorreva essere rapidi per il timore che arrivassero di nuovo le motovedette della cosiddetta guardia costiera libica. Non un timore infondato: nella notte verso le 3, il secondo ufficiale di turno della missione ha avvisato via radio che c’erano movimenti attorno alla nave. Il radar vedeva alcune imbarcazioni, ma il buio e il fatto che navigavano a luci spente impediva di vederle con il binocolo. Quattro motoscafi dei miliziani libici hanno accerchiato la nave della flotta civile, facendo anche manovre pericolose. A bordo c’erano uomini con il volto coperto che, però, interrogati non hanno mai risposto via radio. Sono stati per tutta la notte attorno alla nave fino alle prime luci dell’alba.

Non erano passate nemmeno due ore che il ponte ha comunicato un altro possibile target incontrato sulla rotta. Dal binocolo sembrava un gommone, sovraffollato, a circa 60 miglia dalle coste libiche. Subito sono stati rimessi in acqua i Rhib e la squadra di soccorso si è preparata per un’altra operazione. «We are here to help you», siamo qui per aiutarvi, ha detto il coordinatore dei soccorsi. Pugni in alto, applausi e sorrisi, grida di gioia.

Tra le 28 persone a bordo c’erano tre donne, una è incinta di quattro mesi. Dalle prime informazioni, i minori non accompagnati sono tredici. Hanno raccontato di essere in viaggio da quattro giorni e tre notti, avevano acqua, niente cibo. Partiti da Zuara, viaggiavano in condizioni estreme. Erano disidratati, alcuni di loro hanno iniziato a vomitare appena terminato il soccorso e, soprattutto, in molti avevano vestiti impregnati di gasolio.

19 nazionalità a bordo

Foto Ikonomu/Domani

Le 65 persone ora in salvo su Mediterranea vengono dal Bangladesh, Egitto, Pakistan, Siria, Iran, Iraq, Somalia, Sudan, Sud Sudan ed Eritrea. «È emozionante essere a bordo di questa nave fatta da una moltitudine di persone. Ci sono 19 nazionalità a bordo tra persone soccorse e membri dell’equipaggio», dice Melosu. «Si parlano chissà quante lingue e dialetti ma basta guardarsi negli occhi per capire che tutti abbiamo sogni e voglia di lottare chi per un futuro migliore, chi per contrastare politiche assassine. Proprio nel giorno in cui di fatto si rinnova il memorandum con la Libia».

Non appena toccato il suolo della nave battente bandiera tedesca avevano un’unica esigenza: avvisare le famiglie che stanno bene, sono vivi.

«Italy?». Hanno chiesto più volte conferma. Vogliono essere sicuri che la direzione sia verso nord, verso l’Europa, e non verso i centri di detenzione. Lì dove hanno subito torture e percosse. Quelle violenze che il team medico ha visto sui loro corpi.

Le altre puntate del diario di bordo

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