Ci sono decenni in cui sembra non accadere nulla di significativo, in cui il tempo scorre lentamente, come un placido fiume che attraversa una pianura assopita. Decenni che sembrano preannunciare la «fine della storia». Poi, all’improvviso e inaspettatamente, un’ondata di eventi apre una stagione di cambiamento, a volte di cambiamento radicale. Ancor più raramente, si assiste a una successione di cambi di direzione in un lasso di tempo molto breve. Per qualche ragione, l’intera storia dell’Aseri sembra aver seguito questa dinamica di turbolenza.

Nato all’inizio degli anni ‘90, sulla scia della fine della Guerra Fredda, del declino dell’ordine bipolare e del crollo dell’Unione sovietica, l’obiettivo dell’Aseri era (e rimane) lo studio delle interconnessioni tra le tre dimensioni – politica, economica e giuridica – dell’arena internazionale emergente, e la comprensione di come i tre sottosistemi (politico, economico e istituzionale) espressi da queste dimensioni contribuissero a plasmare il nuovo sistema internazionale. Avevamo anche bisogno di comprendere e spiegare l’interazione tra sistemi internazionali e sistemi domestici nelle prime fasi della globalizzazione.

Quell’epoca, che molti pensavano avrebbe segnato la marginalizzazione delle istituzioni statali, si è rivelata molto più complessa e sfumata. È vero che il “mercatismo” ha innescato una profonda revisione delle funzioni dello Stato, promuovendo una visione dei mercati particolarmente refrattaria all’idea di una loro regolamentazione. Si può affermare che la capacità degli attori dominanti nel mercato globale di minare le prerogative della sovranità statale abbia caratterizzato gran parte dei trent’anni di storia dell’Aseri e sia tuttora presente.

Tuttavia, nel corso dei decenni, le sue forme sono cambiate ripetutamente, fornendo un continuo incentivo, per un’istituzione dedita alla ricerca e alla didattica, a ripensare costantemente la propria materia, ad adattare i propri programmi e a rinnovarsi, come dimostra l’espansione e la diversificazione dell’offerta formativa della Scuola.

La sfida posta dall’espansione di un mercato globale, autoreferenziale e apparentemente fuori controllo è stata accettata da alcuni Stati di antica e consolidata sovranità. All’inizio di quell’era, essi hanno attraversato diversi passaggi cruciali – alcuni più riusciti di altri – che hanno permesso loro di perfezionare «un’unione più ampia e più profonda al loro interno».

Spesso liquidata e sminuita, l’Unione Europea è invece l’esempio più originale, creativo e inatteso di innovazione costituzionale dopo la teoria della separazione dei poteri di Montesquieu: un’unione di stati sovrani che accresce la sovranità di ciascun membro, permettendo loro di affrontare meglio le sfide della globalizzazione. Il tutto preservando e, in molti casi, rafforzando la natura democratica delle istituzioni statali. Naturalmente, non tutto è andato come previsto. Basti pensare alla deriva autoritaria dell’Ungheria di Orbán. Ma vale la pena chiedersi dove si troverebbe oggi l’Ungheria senza l’influenza stabilizzatrice dell’Unione.

In prospettiva più ampia, la presunta marginalizzazione degli stati, della sovranità e della politica è stata contraddetta dalla serie di guerre ricorrenti che hanno scandito gli ultimi trent’anni: i conflitti civili nell’ex Jugoslavia, la prima guerra del Golfo, l’11 settembre e le sue conseguenze, la guerra infinita in Medio Oriente e Palestina, e infine la brutale aggressione scatenata dalla Russia di Putin contro l’Ucraina.

Credo che questo continuo e sempre più violento ritorno della guerra, accanto alla crescita di un mercato globale pervasivo, sia stato il tratto distintivo di questi tre decenni. Non è necessario immaginare oscuri complotti o alleanze segrete: l’espansione dei mercati e il ritorno della guerra sono stati i due fattori più potenti nel destabilizzare l’ordine internazionale, preceduti dal deterioramento delle istituzioni internazionali.

Ciò che è cambiato negli ultimi trent’anni è la nostra prospettiva. Siamo passati da una posizione di cauto ottimismo sulla capacità del liberalismo politico ed economico di affermarsi alla ricomparsa di visioni apertamente imperialiste che spingono, non a caso, verso un adeguamento autocratico – quando non esplicitamente autoritario – dei sistemi politici nazionali.

Siamo partiti con la speranza (forse ingenua) di riuscire a governare l’arena internazionale attraverso una fitta rete di istituzioni, e che l’ambiente globale avrebbe smesso di rappresentare una minaccia per la democrazia, per arrivare a rendersi conto, con disillusione, che il sistema internazionale continua a porre le stesse, antiche sfide al funzionamento interno delle società democratiche. Prima con una serie di crisi economico-finanziarie mal gestite, poi con la minaccia militare e culturale di autocrazie inclini a nuove forme di totalitarismo.

Oggi, ci troviamo ancora di fronte al compito monumentale delineato da Woodrow Wilson alla fine della Prima Guerra Mondiale: rendere il mondo sicuro per la democrazia. Ma questa volta, alle spalle, abbiamo diversi fallimenti e numerose opportunità mancate. Una verità, tuttavia, è difficilmente contestabile: il progetto liberale rimane la strada più promettente per un progressivo miglioramento della politica internazionale.

Riconoscere le sue contraddizioni, i tentativi falliti e persino i suoi paradossi interni, non rende più desiderabili le visioni neo-imperiali oggi tanto di moda. La possibilità di un mondo governato più dal primato del diritto che dal diritto della forza, una visione della politica, dell’economia e, in ultima istanza, della società umana che non si riduca a un mero equilibrio di potere, è ancora, a mio avviso, un fine politico e intellettuale degno di essere perseguito.

Dobbiamo imparare dalle esperienze del passato e aggiornare questo progetto per rispondere alle vecchie e nuove sfide che continueranno a presentarsi. Ma l’idea di un ambiente internazionale che assomigli sempre più alla realtà interna dei sistemi democratici rimane una prospettiva migliore della passiva accettazione dell’immutabilità del mondo in cui viviamo e delle regole politiche che lo governano. Oggi, come nel secolo scorso, ciò di cui abbiamo più bisogno è il coraggio: il coraggio di resistere all’oppressione, di rifiutarci di chinare la testa davanti alla legge della forza e di affermare che la realtà del mondo si fonda tanto su istituzioni, regole, principi e ideali, quanto su interessi, potere e beni materiali.

In questo senso, la prima battaglia che dobbiamo vincere è culturale. Solo attraverso lo studio, la comprensione e la diffusione della conoscenza possiamo contrastare le narrazioni apocalittiche che vedono nel trionfo degli imperi, delle sfere di influenza e degli imperativi geopolitici l’alba di una nuova era – che nuova, in realtà, non sarebbe affatto, e per noi europei segnerebbe il ritorno sulla strada buia che nel ventesimo secolo portò il continente vicino al suicidio. Se c’è una consapevolezza che dovrebbe scaturire dal divario tra il progetto liberale e la sua attuazione distorta e limitata nel periodo post Guerra Fredda, è quella di darci la determinazione necessaria per continuare ad andare avanti, piuttosto che seguire chi nega ogni speranza di progresso.

Sarebbe un crimine imperdonabile perdere la fiducia nel potere trasformativo della politica. In un’epoca in cui riconosciamo giustamente la capacità dell’uomo di degradare l’ambiente naturale – e quindi di trasformare la realtà –, sarebbe vile negare la nostra capacità di determinare cambiamenti positivi. Significherebbe rinunciare agli ideali dell’umanesimo, abdicare alla nostra responsabilità nei confronti del mondo che abitiamo, lo stesso in cui vivranno le generazioni future.

I limiti nell’attuazione di ogni modello dovrebbero piuttosto stimolarci a rinnovare il nostro impegno per un mondo più giusto e, quindi, più pacifico. Dopotutto, le visioni dell’ordine internazionale riflettono quelle della politica interna dei principali attori globali. Se il mondo è governato dalle autocrazie, finirà inevitabilmente per rifletterne i valori e privilegiare l’autoritarismo invece del liberalismo.

Questo trend, a sua volta, avrà un impatto negativo sulla qualità della democrazia all’interno degli stati. Al contempo, le democrazie devono preservare la capacità di proteggere il dissenso, il pluralismo, l’inclusione e l’equità, perché democrazie affaticate e disfunzionali rischiano di perdere la forza necessaria per compiere le scelte coraggiose e vitali per la loro sopravvivenza nello scenario internazionale.

A trent’anni di distanza, la scelta dell’Aseri di concentrarsi sulla complessa interazione tra la sfera politica, economica e istituzionale e sulla connessione tra sistemi domestici e internazionali è ancora attuale e fondamentale. Così come è ancora valido e imprescindibile il richiamo a considerare lo studio scientifico della politica, dell’economia e delle istituzioni come un’attività che non implica affatto relativismo valoriale. Questo è, forse, ciò di cui siamo più orgogliosi e la nostra eredità più importante per il futuro.

© Riproduzione riservata