Il leader di +Europa non risparmia né gli alleati timidi né il governo repressivo: «Calenda ossessionato dai social, ma io non voglio like, voglio leggi. Conte ha allungato i tempi della cittadinanza. Mantovano? Un talebano». E difende il cartello più discusso del Pride (“Meloni amica dei Dicktators”): «La volgarità è negli occhi di chi guarda. Serve chi rompe il silenzio. Uno stato che vuole reprimere le discriminazioni verso la comunità lgbtqia+ è credibile solo se fa di tutto per riconoscerne i diritti»
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Riccardo Magi, segretario e deputato di +Europa, è uno di quei politici che non si cercano quando serve una maggioranza, ma che si ricordano quando serve una voce. Non la alza mai, ma non la abbassa nemmeno. Dice quello che pensa, anche quando non conviene, soprattutto quando non conviene. Ha ereditato da Marco Pannella la fede nei diritti civili, non il furore mistico. È l’allievo che sa perdere, e lo rivendica.
Le sue sono «cause perse ancora da vincere», dice, e ci crede con la calma feroce di chi non ha più bisogno di essere simpatico. Al Roma Pride ha sventolato un cartello con scritto «amica dei Dicktators» sotto il volto di Giorgia Meloni. Apriti cielo. Carlo Calenda, suo alleato, lo ha definito «indegno, volgare, sessista». Magi a Domani replica: «È ossessionato dai social. Gli serviva la polemica del giorno». Nessuna scusa, nessun arretramento. Né alla destra, né al centro.
Con Giuseppe Conte è altrettanto diretto: «Da premier ha allungato i tempi per la cittadinanza, altro che libertà di coscienza sul referendum». E quando parla del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, non usa perifrasi: «Lo chiamo il Talebano. Sta riportando lo stato alla guerra alla droga stile Nixon».
Magi non chiede sponde, non cerca coperture. Cerca le faglie e lì si infila. I suoi temi (cannabis, gestazione per altri, eutanasia, cittadinanza) sono quelli che tutti gli altri considerano troppo divisivi, troppo prematuri, troppo rischiosi. Lui li porta in parlamento come si porta una verità scomoda in una stanza di compromessi. Non comanda, non guida. Ma nel parlamento italiano è forse l’unico che, quando parla, costringe davvero gli altri ad ascoltare. Anche se avrebbero preferito non sentirlo.
Lei è stato molto criticato per quel cartello esibito al Roma Pride (“Amica dei Dicktators” con il volto di Meloni). Anche da Calenda, che lo ha definito «volgare, sessista e insultante».
Ma dove siamo? Rivendico appieno non solo quel cartello, che non ritengo sessista, ma la presenza di quel cartello in un Pride che deve essere anche dissacrante, profondamente sfacciato nel porre questioni essenziali che toccano la vita della libertà delle persone, sessuale e individuale. Il cartello non ha nulla di sessista, perché definiva Meloni amica di dittatori e autocrati “teste di cazzo”, questo è. Come si fa a voler vedere in questo qualcosa di sessista, soltanto perché si avvicina la parola “dick” che è una storpiatura di “Dicktators” a Meloni? La volgarità e il sessismo sono negli occhi di chi guarda. Lo dico sia a destra sia a Calenda. Noi dicevamo a Meloni: tu sei amica di chi con le proprie politiche sta opprimendo, violando e discriminando la comunità Lgbtq. Questo è quello che accade nell’Ungheria di Viktor Orbán, nella Russia di Vladimir Putin e negli Usa di Donald Trump. Meloni non ha detto nulla né nelle sedi italiane e né nelle sedi internazionali, per esempio quelle europee dove ci sono state posizioni comuni. È la vecchia storia del dito e della luna. Quel cartello è il dito.
Mi scusi, ma lei e Carlo Calenda siete alleati, il leader di Azione ha anche sostenuto il referendum sulla cittadinanza. Non ha il suo numero? Prima di fare quel post non le poteva telefonare?
Questo è il suo modo di fare: tutto ha una dimensione ossessivamente social, fa tutto per guadagnare follower aggredendo e buttandosi sulla polemica del giorno. Mi dispiace, ma non mi sorprende e devo dire che questo atteggiamento è anche molto poco liberale. Altro aspetto importante di questa vicenda è che la destra negli ultimi tempi ha lottato contro il politicamente corretto e per il free speech. Poi, su questa vicenda, all’unisono si sono scagliati contro di me. Persone che hanno giustificato Matteo Salvini che con una bambola gonfiabile insultava l’onorevole Laura Boldrini.
A proposito della destra: Libero lo ha definito «l'uomo delle cause perse».
La rivendico molto. Forse chi ha scritto quell’editoriale non l’aveva notato, ma dall’altro lato del nostro carro, al Pride, c’era scritto: “Sali sul carro delle cause perse, ancora da vincere insieme”. Si parlava di gestazione per altri solidale, matrimonio egualitario, cannabis legale... Quindi mi va benissimo, vuol dire che ci sono ancora battaglie da combattere e vincere.
Lei ha ancora sul suo profilo Whatsapp il logo che invita a votare Sì al referendum sulla cittadinanza. Quella è stata una bella causa persa, appunto. Le brucia ancora?
Le lotte per le conquiste sul piano dei diritti civili sono percorsi fatti anche di sconfitte prima di arrivare alla conquista, ma noi la dobbiamo vedere come un’occasione: abbiamo messo al centro della discussione pubblica un tema che non era in agenda dal 2017. Se ne occupò il parlamento per poi sparire dal dibattito pubblico. In parte per responsabilità del fronte progressista, perché sul tema immigrazione e cittadinanza sono state dette e fatte cose che hanno aperto la strada alle politiche della destra. Poi diciamo che il tema negli ultimi quindici anni è stato al centro di una propaganda fortissima da parte delle destre, non solo in Italia. Non a caso all’inizio non volevano starci i partiti organizzati.
In che senso?
Diciamo che poi ci sono stati con poca convinzione, sia da un punto di vista finanziario che organizzativo. E questo ha avuto un peso. Ma non pensiamo che ci sia un’alternativa a mobilitarsi. Anche la discussione che è venuta fuori rispetto alle posizioni del M5s e di Giuseppe Conte.
Lei fa riferimento al fatto che il leader del M5s, Giuseppe Conte, sul quesito sulla cittadinanza abbia dato indicazione agli elettori di votare in libertà. Come l’ha presa?
Ha dato libertà di coscienza e ha detto: questo modo di porre la questione allontana la soluzione. Ma Conte da presidente del Consiglio ha allontanato di suo la soluzione, governando. Ha raddoppiato i tempi della procedura per avere cittadinanza. Perché sa, oltre quelli di legale soggiorno, ci sono gli anni della pratica amministrativa, quando c’è stato il Conte I si è passati da due a quattro anni, quando c’è stato il Conte II si è tornati a tre anni, mica a due. E questo la dice tutta anche sulla rassegnazione del mondo progressista sulle riforme da fare, sul terreno dell’immigrazione e della cittadinanza, che è oggi il più difficile. Ma non si risolve non parlandone, non facendo iniziativa politica.
Cosa risponde a chi dice: «Non era il referendum lo strumento giusto»?
A loro ha già risposto l’associazione “Italiani senza cittadinanza”: se non ci fosse stato il referendum non avremmo passato gli ultimi mesi a parlare del tema. Non ne avrebbe parlato nessuno, il parlamento, i giornali, il paese.
Direi che lei non ha un rapporto disteso con gli alleati sui diritti civili. Si è scontrato diverse volte anche con il Pd su altre questioni. Prendiamo per esempio la gestazione per altri: lei presentò, durante la discussione sul ddl Varchi, un emendamento per legalizzarla in Italia. Una cosa che mandò in fibrillazione i dem.
Non l’abbiamo fatto per provocazione o per spirito di protagonismo. Anche qui c’è un punto su come ingaggi lo scontro politico con questa destra. Una destra che vuole comprimere la sfera delle libertà individuali. Di fronte a chi introduceva un reato universale sgangherato e illegittimo la reazione non può essere «non vogliamo il reato universale ma vogliamo il nazionale», perché contiene ipocrisia politica e poca chiarezza nei confronti degli elettori. Se la destra fa il reato universale tu cosa vuoi fare? Non si può dire: quello universale è un abominio, ma quello nazionale... Noi questo tema lo vogliamo affrontare guardando come negli altri paesi vengono tutelati i diritti di tutti i soggetti coinvolti in questa tecnica di procreazione.
Non sarebbe comunque passato il suo emendamento. Quindi era un modo per svelare l’ipocrisia degli altri partiti?
Ma io in quei giorni avevo avuto tanti contatti con coppie che avevano fatto un percorso per la gestazione per altri. Attenzione: in paesi in cui è legale. Queste coppie erano terrorizzate. Già per il fatto che vivono in un paese in cui questa questione viene affrontata in modo ideologico e con lo stigma. In più, si abbatteva su di loro il rischio di diventare criminali universali. Secondo me era necessario presentare quell’emendamento per dire che nel nostro paese c’è qualcuno che non pensa che sia una cosa inaccettabile. Resta una questione aperta.
Lei è sempre stato favorevole alla gestazione per altri?
Ci ho riflettuto molto, ci sono arrivato conoscendo le coppie e studiando e capisco che ci sia chi abbia dei dubbi. Però mi sembra che, dal punto di vista dello stato, sia necessario trovare una soluzione in forma solidale.
Facciamo un passo indietro su un'altra battaglia persa: il ddl Zan. Lei lanciò in quei mesi roventi un hashtag, #aboliamoilconcordato. Mi sembra un po’ riduttivo dare la colpa alla chiesa dell’affossamento della legge contro l’omotransfobia.
Lì ci fu una grossa strumentalizzazione politica. Le dirò la verità: ritengo che il modo migliore per uno stato di affrontare efficacemente la lotta alla discriminazione e anche alla violenza sia quella attiva, cioè di riconoscere il diritto. Ritengo che uno stato in cui non c’è matrimonio egualitario, per esempio, risulta poco credibile quando sul piano penale vuole reprimere le discriminazioni. Infatti avevo presentato al ddl Zan ordini del giorno sul matrimonio egualitario, sulla gestazione per altri e ampliamento della procreazione medicalmente assistita.
E il Pd le chiese di ritirarli.
Sì, ma non era un problema. Ci tengo a dare un messaggio politico: uno stato che vuole reprimere la discriminazione e le aggressioni nei confronti delle persone lgbtqia+ è credibile solo se poi fa tutto quel che può fare nel riconoscimento dei diritti.
Insomma lei non crede molto nel penale come deterrente. Proprio un radicale. Si definisce un allievo di Pannella?
Ma certamente, sono cresciuto politicamente con Pannella e posso dire che non avrei mai pensato di fare attività politica se non lo avessi conosciuto. Tramite Marco ho conosciuto una prassi politica che punta a creare iniziative reali, ho visto soprattutto la capacità e l’idea di fare politica a partire dalle proprie debolezze e dalle proprie fragilità. L’uso del corpo nella politica, la non violenza... Sì, mi sento legatissimo a Pannella. Però non mi piacciono quelli che dicono “Pannella avrebbe detto e fatto questo”. Pannella ha detto e fatto di tutto e si è molto contraddetto perché individuava nelle varie fasi storiche l’urgenza di quel momento. Li avrebbe mandati tutti a quel paese.
Battaglie pannelliane: parliamo della questione cannabis. Che ne pensa del portavoce del Family Day, Massimo Gandolfini, consulente al dipartimento per le politiche antidroga?
L’approccio del sottosegretario di stato alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, il Talebano. Ha questo approccio ciecamente e ottusamente repressivo che si abbatte sulla vite di molte persone. Una guerra alla droga da anni ‘80, un po’ alla Nixon, qualcosa che in tutto il mondo hanno abbandonato. Anche all’Onu si sono posti dubbi su alcuni capisaldi del proibizionismo storico e il nostro paese è l’unico che va in direzione opposta. Lo stato dovrebbe avere tre priorità: salute dei cittadini, lotta efficace contro le organizzazioni criminali che detengono il narcotraffico e rapporto tra cittadino e stato. Il nostro paese, con il decreto Caivano e anche la legge sicurezza, nega tutto questo. I produttori vengono perseguiti per qualcosa che non ha neanche effetto, ormai puniamo anche la parola canapa, siamo oltre lo stigma. Questa roba qui è da fondamentalismo, da stato etico. Neanche Trump sta pensando di tornare indietro sulla legalizzazione della cannabis, per ora. E sa perché? Perché sono riforme che hanno benefici così evidenti che non si torna più indietro: per chi è consumatore, perché togli un mercato illegale e perché crei un indotto e posti di lavoro simili a quelli del vino. Ed è un tema trasversale, anche un pezzo importante dell’elettorato di destra sarebbe favorevole.
Anche sull’eutanasia.
Le ultime notizie non sono positive perché il testo base, dopo una fase di conciliazione con il Vaticano fatta con Antonio Tajani, sembra un passo indietro anche rispetto sulla sentenza della Corte Costituzionale sul caso Dj Fabo/Cappato. Se devono approvare una brutta legge, meglio nessuna.
Può indicare quali saranno secondo lei le prossime battaglie sul fronte dei diritti?
Nelle prossime settimane sicuramente la discussione sul fine vita. Una pessima legge ci farà fare passi indietro. L’altra cosa che vedo attraversando le scuole, le università anche nei momenti di dibattito scollegati dal confronto politico partitico, è quella dell’antiprobizionismo. Si è arrivati a un livello di maturazione nella società italiana. L’Istat conteggiava 6 milioni di consumatori di cannabis a ribasso. Un numero enorme. Questa è una causa persa? Forse, ma stanno maturando nella società condizioni affinché diventi una conquista importante. Il nostro paese sconta una arretratezza enorme su questi temi, però la società sta andando avanti, grazie anche a una consapevolezza dei più giovani.
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