Nell’anno scolastico appena concluso, 865mila alunni non avevano la cittadinanza italiana. Uno su otto. Il 12,2 per cento degli studenti della scuola italiana siede in aula con un permesso di soggiorno e un cognome che ancora oggi può valere un consiglio orientativo al ribasso. Nel 2002 erano il 2,7 per cento. Oggi il 65,4 per cento è nato in Italia, ma continua a essere trattato come se fosse appena arrivato.

Il rapporto di Save the Children “Chiamami col mio nome”, pubblicato giovedì 4 settembre, fotografa una realtà in cui la disuguaglianza è strutturale. La regione con più studenti senza cittadinanza è la Lombardia (231.819), seguita da Emilia-Romagna (111.811) e Veneto (99.604). Ma per incidenza, è l’Emilia-Romagna a guidare (18,4 per cento), seguita da Lombardia (17,1 per cento), Liguria (15,8 per cento) e Toscana (15,1 per cento). In fondo, Molise, Puglia, Campania e Sardegna restano sotto il 4 per cento.

I divari

A livello educativo, i divari sono ovunque. La dispersione implicita, cioè il mancato raggiungimento delle competenze minime a fine ciclo scolastico, riguarda il 22,5 per cento degli studenti stranieri di prima generazione, quasi il doppio degli italiani (11,6 per cento). Va meglio tra i nati in Italia (10,4 per cento), ma restano comunque indietro. Il ritardo scolastico colpisce il 26,4 per cento degli studenti con cittadinanza non italiana, contro il 7,9 per cento dei coetanei italiani.

I test Invalsi confermano le distanze. In italiano e matematica, gli studenti con background migratorio segnano risultati significativamente più bassi a ogni livello scolastico. In terza media, lo scarto in italiano arriva a 22,6 punti percentuali. Unica eccezione: l’inglese, dove gli studenti stranieri ottengono punteggi superiori, specie nella prova di ascolto. Una competenza che si sviluppa spesso in casa, in ambienti multilingue, ma che non basta a compensare i gap in italiano e matematica, le due materie che pesano nei percorsi e nelle valutazioni.

La selezione non avviene solo in uscita ma anche in entrata. L’orientamento scolastico è un collo di bottiglia. Tra i migliori studenti delle medie in condizioni socioeconomiche basse, il 60,7 per cento degli italiani si iscrive al liceo. Ma la percentuale scende al 52,7 per cento tra gli studenti di seconda generazione e al 48,7 per cento tra quelli nati all’estero. Anche chi si definisce “molto bravo a scuola” si autoesclude: solo il 47,8 per cento degli studenti di prima generazione e il 60,6 per cento dei nati in Italia punta al liceo, contro il 70 per cento degli italiani.

Segregazione formativa

Le cause non sono solo economiche. Il rapporto denuncia una segregazione formativa alimentata da pregiudizi inconsapevoli, orientamenti svalutanti e dal cosiddetto white flight: la fuga di famiglie italiane da scuole con alta presenza di studenti stranieri, che produce classi-ghetto e accentua l’isolamento. Secondo Save the Children, è l’intero sistema ad essere strutturalmente inadatto: i percorsi scolastici sono più accidentati anche a parità di rendimento e condizioni economiche.

Anche il supporto allo studio è diseguale. Gli studenti raccontano un sostegno «discontinuo e poco fruibile», soprattutto nella scuola superiore. La figura del mediatore culturale è spesso assente. L’alleanza educativa viene affidata, nei fatti, a reti informali tra pari. Ma non può bastare l’autorganizzazione degli studenti a colmare un vuoto istituzionale.

Lo stesso schema si ripropone all’università. Solo il 3,9 per cento degli iscritti non ha cittadinanza italiana. E anche tra chi ha ottimi risultati, le aspettative restano più basse: il 74,4 per cento degli studenti italiani vuole iscriversi all’università, contro il 64,4 per cento dei nati in Italia da genitori stranieri e appena il 61,1 per cento di chi è nato all’estero. La cittadinanza, qui, non è solo una questione simbolica: è accesso a borse di studio, concorsi, mobilità, sport agonistico. È la possibilità di costruire il proprio futuro come i coetanei.

Essere riconosciuti

Uno studio condotto dal think tank Tortuga per Save the Children dimostra che ottenere la cittadinanza riduce di quasi la metà i divari scolastici. Inoltre, stimando salari e occupazione a dieci anni, ogni 100 nuove cittadinanze garantirebbero un beneficio fiscale netto tra gli 800 mila e i 3,4 milioni di euro.

Il titolo del dossier – Chiamami col mio nome – non è retorica. È l’istanza di chi chiede di essere riconosciuto. Una ragazza, intervistata, dice: «Io non sono di prima o seconda generazione. Sono una ragazza. Sono qua, studio, vivo». Leila, ora al primo anno di liceo, ricorda che alle medie i professori le dissero che non ce l’avrebbe fatta. «È vero, avevo qualche difficoltà. Ma sono migliorata e ora ho una buona media».

Nel rapporto l’ong chiede una riforma della legge sulla cittadinanza: ius soli temperato per chi nasce in Italia da genitori regolarmente residenti, e percorsi semplificati per chi è cresciuto qui. In parallelo, Save the Children propone un Piano per l’educazione inclusiva e interculturale, con investimenti in formazione, orientamento, mediazione e lotta ai pregiudizi. «Le risorse ci sono, ma serve volontà politica per usarle dove servono davvero».

In un paese che invecchia e si svuota, trattare da estranei i figli di chi vive, lavora e studia in Italia non è solo ingiusto. È irresponsabile.

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