«Prima che inizi un vero e proprio aumento delle ospedalizzazioni, per favore: usate la mascherina, ricorrete al telelavoro». Così, pochi giorni fa, la responsabile delle misure di emergenza anti pandemiche dell’Organizzazione mondiale della sanità, Maria van Kerkhove, si rivolgeva ai governi europei. Mentre ci prepariamo al picco di Omicron, l’Italia può rivendicare di essere stato uno dei paesi più disciplinati sull’uso della mascherina e di aver migliorato molto gli strumenti legali per consentire il lavoro da remoto.

Ma i timori dei sindacati, l’arretratezza del tessuto imprenditoriale e la volontà del governo di difendere a ogni costo l’apparenza di «normalità» degli ultimi mesi, hanno mantenuto il nostro paesi tra gli ultimi del continente per quanto riguarda l’adozione del lavoro a distanza, importante non solo per il benessere dei lavoratori, ma fondamentale nella lotta a una pandemia che non è ancora finita.

I dati

«Le persone raccontano di andare in ufficio con mezzi pubblici affollati come carri bestiame soltanto per usare un computer che, non si sa perché, non possono usare da nessuna altra parte», dice Federica Dentamaro, impiegata e portavoce di @bioccolo, un account Twitter collettivo che da oltre un anno raccoglie e rilancia storie di smart working. Negli ultimi giorni, racconta, sono decine le storie di persone «costrette a fare lo slalom» per cercare di evitare di contagiarsi in ufficio o sui mezzi nei giorni prima delle feste.

I dati sulla mobilità raccolti da Google confermano questi racconti. Italia e Francia sono all’ultimo posto tra i paesi dell’Europa occidentale per ricorso al lavoro da remoto. In ufficio e in fabbrica sono presenti il 7 per cento dei lavoratori in meno rispetto al periodo pre-pandemia. Meno di Germania, 8,3 per cento, Spagna, 9,8 per cento, e meno soprattutto del 22 per cento del Regno Unito.

Il divario è probabilmente destinato ad acuirsi ancora di più visto che parecchi governi hanno accolto l’appello dell’Oms. In Germania, il lavoro da casa è obbligatorio se non ci sono «ragioni operative». Belgio, Paesi Bassi e Irlanda sono tra i paesi che si trovano nella stessa situazione.

Ministeri e sindacati

In Italia, invece, il ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta ha ordinato il ritorno al lavoro di tutti gli impiegati pubblici lo scorso 15 ottobre. La decisione è stata presa in nome della riapertura e del ritorno alla normalità, quella che il presidente del Consiglio Mario Draghi ha detto essere la principale priorità del governo nella lotta alla pandemia – almeno per il momento.

La decisione è una medaglia a due facce. Da un lato il ministro ha raggiunto con i sindacati un accordo atteso da anni per regolarizzare il lavoro da remoto nella pubblica amministrazione, introducendo flessibilità ed evitando di dover ricorrere a soluzioni di emergenza come era accaduto l’anno scorso.

Dall’altro, però, la fine del regime “emergenziale” ha significato il ritorno al lavoro in presenza per centinaia di migliaia di lavoratori, in particolare nelle amministrazioni più periferiche. Tornare al lavoro è così divenuta una questione di orgoglio. Poco prima del picco dei casi di questi giorni, Brunetta aveva punzecchiato il settore bancario, accusandolo di essere ancora al lavoro da remoto mentre la pubblica amministrazione era tornata in presenza.

I sindacati dei bancari hanno risposto piccati che tre quarti del personale, quello impiegato nelle filiali, lavora in presenza così come ha fatto per tutta la pandemia. Sono solo i dipendenti che lavorano nelle amministrazioni centrali a rimanere parzialmente a casa.

Lo scambio rivela il profondo atteggiamento di sospetto nei confronti del telelavoro nel nostro paese. Se il governo teme di macchiare il tanto desiderato «ritorno alla normalità», i sindacati sospettano che dietro il ricorso al telelavoro si nascondano esternalizzazioni, riduzioni di personale o semplicemente temono che il distacco dei lavoratori dalla vita comunitaria renda più difficile il loro lavoro.

E le imprese

Con la sua economia fatta di imprese manifatturiere e piccole aziende familiari, l’Italia è da sempre uno dei paesi che ricorrono meno al lavoro da remoto. Secondo una ricerca, nel 2015 l’Italia era l’ultimo in Europa per ricorso al telelavoro. Secondo un altro studio del 2019, l’Italia era ancora al terzultimo posto, con il 4 per cento degli occupati che faceva regolarmente lavoro da remoto. «Il problema non è il lavoratore, problema è un paese bloccato nella “normalità” sì, ma quella del Novecento», dice Dentamaro.

Eppure, i risultati di questo anno e mezzo di sperimentazione forzata sono stati positivi. Secondo l’ultima indagine Istat, pubblicata lo scorso 15 dicembre, l’80 per cento delle pubbliche amministrazioni che hanno ricorso al telelavoro ha riportato un beneficio per il benessere dei lavoratori. Quasi metà ha riferito anche di un incremento della produttività e solo il 4 per cento un calo.

Ma questi dati lasciano il tempo che trovano ora che siamo di fronte a un’ondata di dimensioni potenzialmente superiori a tutte quelle precedenti. Oggi il telelavoro non è soltanto una questione di produttività e flessibilità. Come ha ricordato van Kerkhove dell’Oms, è uno dei pochi strumenti che possiamo utilizzare per evitare il lockdown, prima che sia troppo tardi.

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