Pubblichiamo un estratto del libro “Il cielo oltre le polveri. Storie, tragedie e menzogne sull'Ilva” di Valentina Petrini, edito da Solferino, 2022. Al centro del racconto la città di Taranto, il cui nome è associato da decenni all’Ilva, l’azienda considerata strategica per il nostro paese, che ha visto tragedie come quella di Francesco Zaccaria e di Alessandro Morricella.

Alessandro Morricella, il colatore

«Era bruciato vivo, dalla testa alle caviglie. Solo il dorso del piede e le dita della mano erano rimasti integri, le uniche cose che sono riuscita a baciargli prima di dirgli addio. I suoi occhi verdi non c’erano più, si erano velati.» È l’8 giugno 2015. L’ennesimo caduto sul campo di battaglia del Siderurgico è un operaio di 35 anni. Si chiama Alessandro Morricella. Quando sua moglie Natalia rompe il silenzio e mi accoglie nella loro casa, non so niente di lui, di loro, di come si lavora in un altoforno. So solo quello che ho letto sui giornali.

Alessandro è morto dopo quattro interminabili giorni di agonia. Aveva ustioni di secondo e terzo grado sul 90 per cento del corpo e il cervello pieno d’acqua. «Mi hanno detto che è stato colpito mentre misurava la temperatura della ghisa manualmente dal foro di colata. Una procedura che faceva da 13 anni, ma quella sera all’improvviso è stato investito da una bomba di oltre 1.500 gradi. Come se gli fosse caduta una secchiata di lava bollente in testa. Non so altro».

L’incidente avviene proprio in uno di quei reparti dell’area a caldo sequestrati senza facoltà d’uso dal giudice Patrizia Todisco nel 2012 e riaperti subito dopo per decreto con l’escamotage di dichiarare il Siderurgico «stabilimento di interesse strategico nazionale». Quando Morricella viene colpito a morte, sono passati dunque tre anni dall’esplosione dell’inchiesta Ambiente Svenduto, ma il braccio di ferro tra governo e magistratura non accenna a risolversi. I problemi sono tutti sul tavolo. L’Ilva è ancora terreno di forte scontro.

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Nel 2015 però a guidare la fabbrica non ci sono più i Riva, ormai a processo per disastro ambientale, ma tre commissari straordinari nominati dal governo Renzi: Piero Gnudi, Corrado Carrubba ed Enrico Laghi a cui spetta l’attuazione del Piano industriale dell’Ilva e delle prescrizioni di tutela ambientale, sanitaria e di sicurezza.

Alessandro Morricella è il quinto operaio che muore in Ilva dall’estate 2012, cioè da quando la fabbrica, nonostante il sequestro senza facoltà d’uso, è stata riaperta per decreto. Prima di lui hanno perso la vita sul lavoro Francesco Zaccaria, Claudio Marsella, Ciro Moccia e anche Angelo Iodice, operaio dell’azienda Global Service.

«L’8 giugno 2015 era di turno il pomeriggio, dalle 15 alle 23. È venuto a prendermi all’uscita di scuola, sono una maestra. Aveva un forte mal di testa. Ricordo di avergli detto: non andare al lavoro, mettiti in malattia. Devo andare, mi ha risposto, la prossima settimana sarò in ferie, oggi non posso mancare. Avevamo una macchina sola, così l’ho accompagnato alla portineria dell’Ilva, l’ho baciato velocemente per scappare a prendere le bambine dai nonni e portarle in palestra. Me ne sono andata senza vederlo entrare. Se avessi saputo che era la nostra ultima volta insieme...».

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Verso le sette di sera Natalia, Greta e Sofia, rientrano a casa. «Ero in bagno. Stavo slegando le trecce delle piccole. Suona il citofono, ma non aspettavo nessuno. È papà, è papà! urlano Greta e Sofia. Ma no, finitela, papà torna alle undici. Sarà senz’altro qualche disturbatore che vuole mettere pubblicità nella cassetta della posta, ho pensato».

Risponde distratta senza nemmeno dar peso alla voce dall’altra parte del citofono. «E invece era un suo collega. Mi dice: Natalia, posso salire? Quando me lo sono visto davanti alla porta, bianco, pallido ho capito che era successo qualcosa. E infatti, mi ha messo una mano sulla spalla e mi ha detto: Alessandro ha avuto un incidente. Da quel momento non ho capito più niente».

«Ho chiamato mio padre: corri, vieni a prendere le bambine. Poco dopo mi sono ritrovata in casa mio fratello. Che ci fai qui? In quel momento non sapevo che la notizia dell’incidente in Afo2 era su tutti i giornali, compreso il nome di mio marito. Ho baciato le bambine, ci siamo strette forte e non le ho più viste per sei giorni».

E poi? «La corsa in ospedale, la chiamata all’infermeria dell’Ilva, al centralino del 118. Componevo numeri a caso. Non ero lucida. Nessuno mi aveva detto nulla: non sapevo quali fossero le reali condizioni di Alessandro. Ricordo però che qualcuno di quelli che mi risposero mi disse: Signora suo marito è grave».

La speranza è rimasta viva, nonostante tutto. «Ho chiamato medici in Svizzera, in America. Ho un’amica che vive in Trentino e parla tedesco. Ha preso contatti anche in Germania, ha tradotto la cartella clinica e l’abbiamo inviata anche lì. È stato inutile però. Come vedevano le carte... rispondevano: Non c’è più niente da fare. Io insistevo: dovete portarlo altrove. Non mi importa dove. Forse per accontentarmi il quarto giorno di agonia, fecero venire a Bari un primario del Gaslini di Genova e anche lui dopo averlo visitato mi disse: Signora, non c’è niente da fare». 

Era il 12 giugno 2015. «A quel punto alle 16 sono entrata in terapia intensiva, gli ho baciato la mano e gli ho detto: Vabbè Alessà, vai. Non ti preoccupare, me la vedo io con le bambine. Dieci minuti dopo è morto». Aveva 35 anni.

Le ultime parole di Alessandro, i suoi gesti, preoccupazioni, sono ben impressi nelle carte dell’inchiesta. Morricella «adagiato a terra sul lato destro (...) totalmente nudo ad eccezione di una cinta che tratteneva piccoli frammenti di vestiario, un paio di slip e le scarpe indossate (...) parzialmente bruciate (…) che si rotolava sul pavimento per sottrarsi alle fiamme.» E mentre Morricella brucia come una torcia riesce persino a dire qualcosa. «Sto morendo, i bambini». Poi si accascia per terra: «Sono morto... sono morto... i miei bambini...».

Ho letto più volte le parole di ogni singolo interrogato e anzi, emergono di più le anomalie che le certezze. E alla fine mi è rimasta addosso una brutta sensazione di solitudine profonda. L’immagine di quest’uomo morto solo. Per colpa dell’altoforno andato in tilt o chissà di chi o cosa? Possibile che nessuno sappia nulla, abbia visto qualcosa? Forse mi sbaglio, ma in questa storia a me rimane l’immagine di Alessandro mollato da tutti: dai colleghi, dall’azienda, dallo Stato. Da tutti. Un morto scomodo.

La sua colpa, per meritare l’oblio? Essere morto nella fabbrica contesa mentre lo Stato cercava insistentemente di salvarla e tenerla aperta. A dicembre 2021, quando questo libro va in stampa, non c’è ancora nemmeno l’ombra di una sentenza di primo grado.


Valentina Petrini, giornalista, ha lavorato per molte trasmissioni televisive tra cui Piazzapulita e Cartabianca e ha condotto Nemo – Nessuno Escluso. Ha ideato e condotto Fake – La fabbrica delle notizie. È autrice di Non chiamatele Fake News (Chiarelettere 2020), un’inchiesta sulla matematica della disinformazione.

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