Il 28 maggio un ragazzo si è buttato dal quarto piano dell’ospedale di Vizzolo Predabissi, in provincia di Milano, dopo aver denunciato di essere stato vittima di violenza sessuale all’interno della struttura. I giornali, però, l’hanno descritto come «ragazza», in alcuni casi specificando che si trattava di una persona trans*. A denunciare l’uso sbagliato del linguaggio sono state le persone vicine al ragazzo in un post veicolato dal collettivo milanese Kasciavìt: «Tutti i giornali l’hanno chiamato “donna” e l’hanno identificato con i suoi vecchi pronomi femminili. Anche dopo una fine tragica i giornalisti non si sono presi la briga di capire chi era lui veramente».

Non è dato sapere chi abbia veicolato inizialmente l’informazione sbagliata, ma resta il fatto che è mancata la verifica da parte degli organi d’informazione (e solo in rari casi l’errore è stato corretto a posteriori).

«Capire se all’origine ci siano le forze dell’ordine o i giornalisti ci interessa poco perché nessun collega dovrebbe partire dai verbali di polizia. Se si ravvisano incongruità il giornalista dovrebbe essere sufficientemente preparato perché l’ordine dei giornalisti mette a disposizione tutte le possibilità per affrontare correttamente la questione», dice Elena Miglietti, giornalista e referente per il Piemonte di Giulia giornaliste, associazione che dal 2011 si impegna per l’utilizzo di un linguaggio privo di stereotipi.

Altri casi

Non serve andare tanto indietro per trovare altri casi di narrazione non rispettosa della persona. Un episodio noto ha visto al centro Cloe Bianco, la docente trovata carbonizzata nel suo camper e che la stampa italiana ha riportato con il suo deadname (il deadnaming è l’atto di riferirsi a una persona trans* con il suo nome di nascita ndr). O Maria Paola Gaglione, uccisa dal fratello perché non accettava la sua relazione con un ragazzo trans*. Un caso, sottolinea Miglietti, «di misoginia e violenza transfobica, aggravato da ricostruzioni morbose con inesattezze offensive».

E ancora: «Donna trans picchiata dalla polizia» o «l’appuntamento hot finisce male, rapinato da una trans e da un uomo». Sono numerose le situazioni in cui i media – come nel caso di cronaca più recente – precisano che si trattava di una persona trans*, anche se è un elemento non necessario ai fini della notizia. Per non parlare di quando il termine “trans” viene accostato alla prostituzione, fino alla sinonimia.

Come se ne parla

«Sono nata in un’epoca in cui c’era l’abitudine al maschile sovraesteso e nessuno pensava che aggettivi e pronomi potessero essere declinati rispetto alla vita di ognuno. Ora questa sensibilità sta emergendo. Ma non è ancora entrata nella lingua comune l’abitudine al corretto utilizzo del linguaggio di genere».

E questo fenomeno non è dimostrato solo dai casi di cronaca riportati, emerge quando una donna subisce violenza, abusi, ogni volta che c’è un femminicidio. Quando si sente dire che c’era un modo per non farsi seguire, picchiare, stuprare, ammazzare, si mette in moto la vittimizzazione secondaria, quel fenomeno in cui si sposta l’attenzione dal carnefice alla vittima, facendole subire altre forme di violenza da parte di persone non autrici della violenza primaria.

Strumenti ed esempi

Ma le indicazioni su come scrivere in modo corretto ci sono. Oltre ai corsi di formazione, dal 2021 è stato inserito nella Carta dei doveri del giornalista l’articolo 5 bis sul Rispetto delle differenze di genere, che specifica la necessità di «evitare stereotipi di genere, espressioni e immagini lesive della dignità della persona», attenersi «a un linguaggio rispettoso, corretto», che non alimenti la spettacolarizzazione della violenza e senza usare espressioni che «sminuiscano la gravità del fatto». Le linee guida non riguardano solo i giornalisti, anche le forze dell’ordine – così come gli avvocati – hanno la possibilità di frequentare corsi di formazione sull’uso corretto del linguaggio e su come comportarsi in determinate situazioni.

Uno dei primi giornali a dare peso alle tematiche Lgbt è stato il Washington post, che nel 2020 ha assunto un caporedattore per i temi della diversità e dell’inclusione, esempio che è stato seguito anche dal Guardian nel 2021 e in Italia dalla Stampa nel 2023. Al gruppo si unisce Bbc, che ha il Creative diversity i-hub, uno sportello per rendere i contenuti e i team di produttori più inclusivi e rappresentativi. Inoltre, nel 2019 sempre Bbc ha affidato al primo corrispondente dichiaratamente omosessuale – Ben Hunte – una rubrica legata al mondo Lgbt.

A disposizione di tutti i giornalisti, poi, ci sono linee guida di vari istituti, dal Lgbtq+ equity center dell’università del Maryland, a quello dell’Ilga Europe. Qualche esempio c’è anche in Italia, primo tra tutti il documento dell’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali), un testo che, oltre a inquadrare la storia della comunità Lgbt, fornisce le indicazioni su come parlarne in modo corretto.

La difficoltà di cambiare

Nonostante l’Italia sia indietro, qualche miglioramento negli anni c’è stato. «Credo sia in atto un cambiamento non superficiale. Quello che temo – continua Miglietti – è che in alcuni casi ci sia una precisa volontà di rimanere attaccati a retaggi del passato, pensando che parlare in maniera offensiva delle persone trans* sia un modo per rifarsi a qualcosa di conservatore».

Gli errori sono possibili, non è sempre semplice parlare di certe tematiche rispettando la sensibilità individuale. «Anche io faccio degli scivoloni, ma è utile chiedere alle persone con cui si interagisce come vogliono che si parli di loro. Penso non sia una questione di aggiornamento, se non lo fai è perché vuoi parlarne in quel modo. Ed è così che in questi casi il linguaggio diventa politica».

 

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