Sanremo si ama, ha ripetuto a più riprese Amadeus nel corso delle varie serate della 74esima edizione del Festival. Ma lo si può e lo si deve anche discutere, oltre che amare. È stato un Festival, almeno fino alla serata dei duetti, senza particolari intuizioni, con pochi momenti destinati a rimanere nell’immaginario e lo scivolone del “caso John Travolta” a tenere banco.

La formula-monstre immaginata da Amadeus per la sua quinta (e ultima?) conduzione ha inevitabilmente compresso la scaletta, almeno nelle serate in cui tutti i trenta concorrenti erano chiamati a esibirsi, con poco tempo per assimilare, decantare, improvvisare lampi di spettacolo. Un festival avaro di sorprese, di emozioni, eppure capace di macinare il solito gradimento di ascolti, stabilmente ben oltre i dieci milioni di spettatori a serata.

La logica dietro al successo

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Non è una novità; ormai da diversi anni Sanremo è un evento mediale completo, intorno al quale gravitano decine di brand, mentre sui social si gioca uno spettacolo parallelo fatto di commenti, discorsi, critiche, apprezzamenti e sarcasmi.

Il fatto che il festival esca dal televisore per riversarsi in infiniti rivoli che lo alimentano lungo l’intera settimana è l’elemento vincente del progetto, una logica “pigliatutto” che non fa prigionieri e convoglia intorno all’Ariston attenzioni e aspettative che vanno al di là della qualità dell’esito finale.

Perché Sanremo continua a essere un successo? Le ragioni sono molteplici: non è semplicemente un rito, ma un moltiplicatore di riti, talvolta stanchi, ma come tali necessari e rassicuranti. La 74esima edizione si è trascinata in un flusso di ordinarietà e prevedibilità, quasi Amadeus non volesse intaccare la macchina diabolica e perfetta costruita in questi anni a sua immagine e somiglianza.

Abile nel tenere il palco, nel gestire i ritmi, intelligente nel cogliere il momento giusto per trasformarsi in spalla (di Fiorello, di Ibrahimovic, dei tanti ospiti transitati, persino dei cantanti cui relega l’onere della presentazione dei concorrenti), il conduttore sembra aver scelto la strada della sicurezza, evitando il rischio; se per chiudere un ciclo o per allontanare radicali posizionamenti in vista del dopo, lo si vedrà.

Un insieme di segmenti

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E qui sta un’altra ragione del successo di Sanremo a dispetto della mancanza di momenti da ricordare: Sanremo è il mainstream che tutto mastica. Un rutilante meccanismo di accumulo che finisce per non valorizzare le sfumature, ma annegarle nella medietà, in cui una testimonianza toccante come quella di Giovanni Allevi viene fagocitata dal ballo del qua qua, in cui i rari momenti di riflessione o denuncia vengono subito bilanciati dalla battuta, dalla gag, dalla risata forzata, e dove il rombo dei trattori viene smorzato, con l’annunciata protesta degli agricoltori che si risolve in un balletto di veti, dichiarazioni, comunicati ufficiali.

Dove si passa senza soluzione di continuità da un brano di Paolo Jannacci e Stefano Massini sulle morti sul lavoro a Paola e Chiara dal Suzuki Stage o dove alla performance intergenerazionale di Vecchioni con il giovanissimo Alfa segue la Cuccarini con “La notte vola”. O, ancora, dove i messaggi “politici” lanciati dal palco dai cantanti (Dargen D’Amico e Ghali tra gli altri) non paiono sortire effetti, né quelle polemiche che un tempo si sarebbero sprecate.

Talvolta le serate del festival sono apparse un insieme di segmenti, una raccolta di racconti più che un romanzo nazionale con il suo flusso e la sua trama.

Un incontro fra nicchie

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In fondo, però, la scelta è vincente proprio perché consente di pescare in molteplici mondi, solleticare umori distanti, normalizzare gli universi più disparati. Già da diversi anni, come noto, il Festival ha mutato pelle, passando dall’essere baluardo della tradizione del servizio pubblico a spazio di esibizione delle sperimentazioni e novità musicali, attraendo in massa il pubblico più giovane (senza perdere lo zoccolo duro degli agée) attraverso un sapiente e calibrato dosaggio di cantanti della nuova scena dell’indie o del rap e vecchie glorie rigorosamente popular, spesso perdendo per strada pezzi anche significativi del cantautorato storico o recente, recuperato poi nella serata dei duetti (che da diversi anni è quella più riuscita).

L’esplosione dei social nei cinque giorni di kermesse e la “bolla” del Fantasanremo che ha costretto i cantanti ad assecondare i desideri del pubblico-giocatore per non alienarsi preziose simpatie (ma trasformando spesso le performance in qualcosa di scontato) garantiscono solidità e continuità a un impianto altrimenti a rischio usura.

Nei festival di Amadeus, questa logica di accumulo ha trovato la sua sublimazione: le serate sono un affastellarsi di ospiti (gli sportivi, i cast delle fiction Rai in partenza, le storie tragiche dell’attualità, gli eterni ritorni), di estensioni al di fuori degli spazi compressi del teatro, un agglomerato di stili, culture e sottoculture musicali, di equilibri geografici e regionali.

Tante nicchie che si incontrano per diventare un unico indistinto spettacolo, pezzi di un puzzle in cui non manca mai nessuna tessera, ma in cui il disegno finale appare senza forma.

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