Tutti sanno che Hollywood domina cinematografi e tv, ma i più ignorano che non si tratta di magia né di segreti inviolati del mestiere bensì di dimensione. Quel dominio deriva infatti dalla misura dei budget di produzione, che sono tanto più elevati quanto più è ricco e vasto il mercato interno cui appartiene un produttore. E siccome quello americano è da questo punto di vista il più potente, da lì sgorgano prodotti eccellenti e numerosi che si riversano su ogni altro mercato giusto al prezzo che serve a mettere fuori gioco le locali forze ideo-produttive.

Un effetto valanga che esplode con le esportazioni di merci immateriali (perché non sopportano, in pratica, i costi di trasporto) tant’è che sia fra le imprese tecnologiche (motori di ricerca e social) sia nell’industria audiovisiva gli Usa hanno i giganti e gli altri gli offrono i clienti. Ma questi ruoli, che paiono un destino, possono cambiare mano a mano che si creino diverse condizioni. Quanto alle imprese tecnologiche, si è dato conto su Domani dell’idea di Tim Berners-Lee (l’inventore del Web nel 1992) di spostare memorie e dati dal lato degli utenti, a pro di diritti e concorrenza.

L’età d’oro

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Quanto all’industria audiovisiva siamo già al di là dell’idea se si guarda alla lezione dell’ultimo decennio, in cui abbiamo constatato che quel mercato non si esaurisce nel rimbalzo fra cinematografo e televisione, ma ha trovato logiche diverse nello streaming selettivo.

Tutto è cominciato, a ben guardare già all’inizio del millennio con la pay tv satellitare che possedeva, paese per paese, la lista dei clienti ed era pertanto in grado di sondarli assai meglio e con più costanza delle major con le anonime audience delle sale. E infatti non è per caso che nasce a Sky e non a Hollywood l’idea di aggiungere alle solite e massicce commesse di prodotto americano, l’avventura di produzioni “glocal”, derivate dal talento e dal patrimonio narrativo di aree locali, ma scritte e realizzate per interessare anche i pubblici globali. In Italia nacquero in questa logica, fra il 2012 e il 2014, Romanzo Criminale e Gomorra e ben presto, col sopraggiungere di Netflix, i Medici, The Young Pope,  bizzarri commissari e i Demoni  di finanza, i bonari dottori e le avventure per teenager. Analogamente in altre lande decollavano storie turche e balcaniche, il crime scandinavo e il variegato tsunami coreano.

A spingere la corsa dello streaming stava la prospettiva di muovere alla svelta verso la vetta di un miliardo d’abbonati; un orizzonte di quattrini futuri che incoraggiava gli investimenti nel presente nel mentre che si scrutavano, come il web consente, i comportamenti degli utenti istante per istante.

Coinvolte in queste prospettive, una serie di imprese locali (da noi circa una decina) hanno fatto finalmente capolino nel mercato internazionale fino ad essere sussunte entro alcuni dei principali gruppi che già lo popolavano. E nel mentre gli sceneggiatori s’affannavano e gli studi e le strade si riempivano di troupe come neanche quando il cinema italiano era il mito che sappiamo.

Quanto basta per giustificare la definizione di età d’oro attribuita, in Italia e all’estero, all’ultimo decennio dell’industria audiovisiva.

Platino o stagno?

Ma tutto cambia e nulla resta uguale, e così anche quell’età pare cambiare, non si sa se verso il platino o lo stagno.

 A Erik Lambert dobbiamo, intanto, la segnalazione di un paio di fattori che decisamente conducono allo stagno. Il primo è che le prospettive dello streaming hanno subito un ridimensionamento repentino dopo un primo trimestre di flessione degli abbonamenti a Netflix. Sicché quel plafond d’un miliardo d’abbonati nel quale si sperava pare attualmente dimezzato (ma qui ci sembra che il pessimismo sia eccessivo perché non riusciamo a immaginare che il ceto medio globale, ormai tre miliardi di persone, non desideri spulciarsi le narrazioni nell’archivio, scampando alla pubblicità nonché alle file al botteghino e relativi costi di parcheggio e di pop corn per le spedizioni in sala in formato familiare).

Il secondo fattore, fra carenze di chip, gas alle stelle e guerre fra tronconi post sovietici, è dato dall’inflazione con cui riappaiono i prestiti a interesse dopo anni di costo zero del denaro. Così tutto costa più di prima, comprese le risorse produttive, sicché è scontato che flettano i nuovi titoli sia di numero che di budget.

Ma c’è anche, ci pare una terza e minacciosa circostanza: la concentrazione del sistema hollywoodiano in funzione di economie di scala ancora maggiori di quelle precedenti. Com’è noto, Warner si è fusa con Discovery e Disney ha acquisito Fox, mentre anche il pugno di imprese americane che si muove a un livello inferiore – ma pur sempre gigantesco se visto da occhi nostri – si sta muovendo a sua volta per farsi acquisire da qualcuna delle Big Tech più gonfie di denari. Qui vediamo una forza competitiva colossale, capace di dragare talenti e personaggi e pronta a rilanciare a colpi di miliardi la centralità del prodotto americano. A spese come sempre delle tante industrie nazionali, partendo da quelle che più di recente hanno fatto capolino nei livelli alti del mercato.  

Per cercare lo scintillio del platino dobbiamo tornare a volgerci alla specificità dello streaming e, in parallelo, mettere a fuoco il potenziale degli interventi pubblici, in particolare nei paesi dell’Ue.

Streaming Ue

Lo streaming, al di là della nazionalità originaria (Usa) di piattaforme come Netflix, ci pare destinato a confermare la vocazione a produrre parecchio localmente (secondo il report Ampere, Netflix dal 2020 ha commissionato produzione da 44 territori contro i 27 di Warner, i 23 di Disney). Netflix pare un’impresa definita come ogni altra dalle sue radici decentrate, pubblico per pubblico, nazione per nazione, al punto che ci riesce naturale immaginarla come struttura di connessione e coordinamento fra le vocazioni narrative e produttive di un mondo articolato.  Quindi, anche se fosse vero che la dimensione del mercato streaming è minore di quanto si sperava, è improbabile che l’esito sia il ritorno al “tutto Hollywood” cui paiono destinati i botteghini e le tv, specie commerciali.

Se il pilastro pluralistico delle piattaforme resta saldo, alla Ue e agli stati che la formano spetta l’uso accorto degli incentivi che, a spese dei contribuenti, modellano potenza e convenienze dei produttori nell’Unione e il loro potere contrattuale nei confronti di chi venendo dal di fuori mirasse ad avvalersene.

L’arma più potente, il tax credit (che trasforma in credito d’imposta gli utili distolti, dalle imprese di qualsiasi genere, per cofinanziare una produzione audiovisiva) è riservato a produttori nazionali (che cioè pagano le tasse al fisco che li agevola) che però possono a loro volta coprodurre con un socio extra Ue che ne trae indirettamente beneficio. Mantenere questo schema “aperto” oppure passare a criteri più protezionistici, escludendo i mondi fuori Ue dagli indiretti benefici, è questione non scontata, da mettere sul tavolo complessivo dei rapporti fra Usa e Ue, insieme, ad esempio, con la domiciliazione dei dati social, che oggi confluiscono in server americani.

Il punto è che Usa e Ue sono alleati, ma non cessano per questo di essere concorrenti e che se il sovranismo di nazione è una follia, quello dell’Unione è il più essenziale per non ritrovarsi con lo stagno.

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