In una sua malinconica ricostruzione degli anni di Mani pulite Giorgio Meletti notava che, come oggi, anche l’Italia del 1992 litigava sul passato anziché sul futuro. Venerdì scorso gli studenti di tutta Italia sono scesi nelle piazze. Ecco, come se marciassero all’indietro, con lo sguardo perso nell’epopea dei loro nonni. È mezzo secolo che in ogni scuola della Repubblica, appena le giornate si allungano, si celebra un pezzetto di liturgia sessantottina. Quest’anno però va peggio. C’è una mescolanza di giusto e sbagliato che stringe il cuore.

Certo che non si può morire di scuola-lavoro: e certo che questa immissione di linguaggi e di esperimenti aziendalistici nella scuola pubblica pensata dai costituenti per formare i sovrani di domani stride come un chiodo sulla lavagna, soprattutto in mezzo al disastro di una dignità sempre più ridotta della professione degli insegnanti, e a quello aggiuntivo delle generazioni lasciate allo sbaraglio dagli effetti della pandemia.

Già questo, però, che c’entra con la Confindustria o con l’Unione degli industriali, prese d’assalto a Torino e Milano? Ma soprattutto, che c’entra con l’abolizione, di nuovo, della seconda prova scritta alla maturità, che gli studenti chiedono, perché la sua reintroduzione «non tiene conto di questa profonda crisi psicologica e pedagogica che stiamo vivendo»?

Ed è molto inquietante sentire i “saggi” del Consiglio superiore della pubblica istruzione ragionare allo stesso modo, e ancora più inquietante vedere un po’ dappertutto, nei social e perfino sulla grande stampa intellettuali più o meno noti cavalcare l’intreccio di cause giuste e sbagliate di questa giovinezza mai fiorita e assurdamente suicida, destinata forse a sfiorire prima ancora di diventare adulta.

Lamenti e nostalgia

La Presse

Questa giovinezza che stringe il cuore di tenerezza e pena, e somiglia più a un povero ronzino bastonato che a un libero, ribelle puledro. Non solo per le botte, sciagurate e imbecilli, che hanno subito nelle scorse settimane. Ma per il suo cieco, sindacalizzato, lamentoso accartocciarsi su se stessa, fra “crisi psicologica” e nostalgia di miti barricadieri.

 L’avevamo chiamata “disperanza”, questo sentimento che vediamo diffuso nelle nuove generazioni. Non è propriamente disperazione o il senso di una perdità di sé – di un fallimento esistenziale. Semmai è il sentimento di non poter neppure nascere – a un sé, all’avventura, al rischio. 

È relativamente nuovo questo rattrappimento del futuro che vivono le giovinezze di oggi. Che non si vedono negata, ma cooperano a negarsi, la  possibilità stessa di emergere all’autonomia, alla scoperta che ciascuno è chiamato a fare di chi è, dei propri talenti, della propria vocazione.

È uno stato d’animo collettivo, che sembra corrispondere a una perdita di fiducia nello studio, nella rivelazione di sé e del proprio compito che ciascuno potrebbe incontrarvi, e in definitiva nel futuro di questa civiltà e nel contributo che proprio lui o lei potrebbe portarvi. Questi ragazzi sono dei disincantati che non hanno mai avuto la felicità di un incanto. La loro disillusione a priori certo corrisponde al livello di sfiducia che la società italiana ha raggiunto in  se stessa e nelle proprie istituzioni.

La perdita di fiducia

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La sfiducia nelle istituzioni è molto di più che la sfiducia in una particolare classe politica e dirigente. È una sfiducia nella nostra stessa capacità di rinnovarle, le istituzioni -  anche in ragione dei limiti sempre più vistosi dei meccanismi di rappresentanza delle democrazie (e della nostra in particolare).

È una perdita di quella fiducia e quella stima reciproca che e nell’essenza stessa, rettamente intesa, del pactum societatis: senza dimenticare che il primo grande e implicito “patto” e la lingua che tutti usiamo, cioè i vincoli che esso pone all’uso che facciamo delle parole, affinché possiamo reciprocamente credere a  quello che ci diciamo.

Non è un’idea brillante rifiutarsi di imparare a scrivere nella propria lingua, e privarsi di uno strumento essenziale nel faccia a faccia quotidiano in tutte le comunità di vita, di lavoro, di amministrazione, nelle relazioni con tutte le istituzioni pubbliche – dalle scuole alle università, dagli ospedali alle banche, e via via di tutti i livelli dell’organizzazione propriamente politica della nazione, a cominciare dai partiti.

Il silenzio complice, l’anonimato di consorteria e la libertà dei servi sostituiscono gradualmente l’esercizio di responsabilità in prima persona e la domanda di verità, o di giustizia.

Sempre meno, cioè, la distribuzione e l’esercizio del potere sono soggetti al consenso e al controllo delle persone. Ma dovunque questo accade, la “politica” si dissocia dall’etica, e perfino dalla logica. Lo spazio delle ragioni si separa da quello del potere. E allora le istituzioni si svuotano del loro senso.

Del resto, non ci sono acquisti di civiltà definitivi, che ci vengano dal passato e che il presente non possa dissipare. È vero, noi siamo la specie animale che porta al mondo novità radicali: il linguaggio, le leggi, le civiltà, le culture, con tutte le loro strutture normative, i loro significati ideali. Ma non c’è niente di irreversibile in queste acquisizioni.

Non solo nel senso banale che una catastrofe potrebbe farci tornare alla vita primitiva, o che comunque prima o poi la civiltà terrestre avrà fine; ma nel senso meno banale e però più concreto che, anche dove sussistono le strutture  materiali delle civiltà, quello che e sempre in pericolo è il loro senso ideale, il loro “spirito”.

Svuotamento

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Perché tutte le strutture reali delle civiltà si svuotano del loro senso se questo non si rinnova con la vita di ogni nuovo nato, e anzi in ogni momento di ogni nuova vita. Che questo accada, lo vediamo bene ogni giorno.

Una democrazia si svuota del suo senso se viene meno la capacità che ha una classe politica di rappresentare parti della cittadinanza. Gli organi di giustizia si svuotano del loro senso se si danno leggi fatte per diminuirne l’indipendenza.

Gli organi di informazione si svuotano del loro senso in regime di quasi monopolio delle testate. Una costituzione si svuota del suo senso se viene costantemente violata, se addirittura ci si aggiungono clausole ideali sulla tutela dell’ambiente e delle generazioni future mentre si continua peggio che mai a cementificare, asfaltare, incentivare l’edilizia privata e il consumo di suolo.

Decostruzione

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Il denaro, il potere, si svuotano del loro senso se non servono più come mezzo di distribuzione, rispettivamente di ricchezza e di compiti funzionali alla miglior vita di tutti, e diventano fini a se stessi. Un partito si svuota del suo senso di associazione di rappresentanza politica di valori e interessi se agisce solo in vista della riproduzione di se stesso.

Il linguaggio pubblico diventa una poltiglia di luoghi comuni e di menzogne se riesce a farsi pubblico solo dove si uniforma agli slogan di qualche appartenenza identitaria. E dove il linguaggio  perde la tagliente limpidezza della logica e le parole  la definitezza dei loro significati, nessuna discussione ha più la verità come posta in gioco. Ma dove non c’è disputa onesta intorno alla verità, non c’è più neppure cultura. 

Nicola Chiaromonte (cui è stato recentemente dedicato un meridiano Mondadori, a cura di Raffaele Manica: Lo spettatore critico) lo spiegò con chiarezza, lui che nel secolo scorso vide sfumare - senza per questo risolversi - le tragedie dell’irrazionalismo totalitario nel cinismo relativistico dei postmoderni.

E così torniamo a bomba – perché la scuola che ora si va decostruendo, sotto l’assalto esterno di chi l’affama e quello interno della  sua pulsione suicida – proprio per questo era rinata, quando nacque questa Repubblica: aprire le menti dei sovrani di domani al senso ideale di tutte le istituzioni della civiltà, dalla logica all’etica alle scienze alle arti alla democrazia, e affidarne il rinnovamento a loro: alla loro intelligenza, al loro cuore, alle loro mani. E alla loro cultura.

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