L’ingegner Mario Chiesa viene arrestato nel suo ufficio a Milano il 17 febbraio 1992. È l’inizio dell’inchiesta Mani pulite, il più grande cataclisma politico della storia repubblicana iniziata il 2 giugno 1946.

Chiesa è l’uomo che il Partito socialista italiano del milanese Bettino Craxi ha piazzato alla presidenza dello storico ospizio Pio Albergo Trivulzio. A quanto pare chiede tangenti su tutto. Luca Magni, giovane imprenditore delle pulizie, ha ottenuto un appalto da 140 milioni di lire e Chiesa pretende il solito 10 per cento, in modo arrogante. Magni non ce la fa più e si rivolge ad Antonio Di Pietro.

Il sistema

L’origine dell’inchiesta si spiega così, non c’è bisogno di dietrologie, basta conoscere la storia. Il sistema di finanziamento della politica attraverso le tangenti si è perfezionato negli anni ’80 ed è governato dalle segreterie amministrative dei partiti. Gli appalti sono spartiti con quote fisse, un tanto alle imprese statali (di Iri ed Eni), un tanto a quelle private, un tanto (12-18 per cento) alle cosiddette cooperative rosse che non pagano tangenti perché finanziano il Pci.

A un certo punto, con la crisi iniziata nel 1989, troppi ras locali si sentono in diritto di chiedere. Il sistema impazzisce. Molti imprenditori, che prima vedevano nella tangente la scorciatoia per il successo, non ce la fanno più. Cominciano le denunce e le lettere anonime. Si forma l'attesa del botto. Tutti sanno che "i partiti rubano". E che tutti lo sanno si capisce già nel 1986 grazie a Beppe Grillo.

Il comico, ospite in diretta dello show del sabato sera Fantastico 7, racconta una barzelletta non concordata con gli autori. Craxi (presidente del Consiglio) va in Cina con il suo braccio destro Claudio Martelli che gli chiede: «Ma qui sono tutti socialisti?». Craxi gli risponde: «Sì, perché?». E Martelli: «E allora a chi rubano?». Il pubblico rimane impietrito, il presentatore Pippo Baudo impallidisce, Grillo saluta così: «Ciao, ci vediamo a Fantastico 18». Infatti viene cacciato dalla Rai e inizia la nuova vita da leader politico. Ma la polemica si focalizza sulla scorrettezza del comico, non su quanto ha detto.

Secondo un immediato sondaggio del settimanale Il Mondo, per il 70 per cento degli italiani il Psi è corrotto allo stesso livello degli altri partiti, ma non di più. Lo stesso Craxi usa parole tenui: «Grillo dovrebbe riconoscere di aver sbagliato e di essere uscito dal seminato». Viene così messo agli atti che il comico ha detto, magari maleducatamente, un’ovvietà: i socialisti rubano.

Di Pietro dunque poteva scegliere tra tante denunce, e battezza quella di Magni per dare il primo colpo di cannone. Bettino Craxi liquida il suo tangentaro come «mariuolo». Chiesa non la prende bene e comincia a cantare. Di Pietro tira il filo e smonta pezzo per pezzo il sistema di finanziamento illegale che tiene in piedi quella che da anni Marco Pannella chiama «partitocrazia».

Il crollo

L'inchiesta si estende a tutta Italia. Ci saranno migliaia di arresti e di processi. La storia e le statistiche giudiziarie dell'inchiesta Mani pulite restano controverse. Ma è molto chiaro il suo impatto sulla storia italiana. Viene azzerata un'intera classe politica. Scompaiono i partiti che hanno governato l'Italia ininterrottamente dal 1947, quando il leader della Democrazia Cristiana Alcide De Gasperi estromise dalla maggioranza il Partito comunista italiano di Palmiro Togliatti.

La Dc, il Psi, il Pri (i repubblicani) il Pli (i liberali) e il Psdi (socialdemocratici) ancora alle elezioni politiche del 5 aprile 1992 mettono insieme il 53 per cento dei voti e formano la maggioranza di governo. Unico scricchiolio il rifiuto del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro di nominare premier Craxi, macchiato dall'arresto di Chiesa: gli preferisce il vicesegretario socialista Giuliano Amato (oggi presidente della Corte costituzionale), che si chiama fuori da tutto e per questo viene considerato un traditore.

Ma in pochi mesi dei cinque partiti storici resta traccia solo negli esponenti capaci di riciclarsi in nuove formazioni: accanto a Forza Italia di Silvio Berlusconi (nata all'inizio del 1994) una miriade di piccoli partiti nuovi lancia le seconde file dei partiti vecchi. E nel 1996 Di Pietro sarà ministro dei Lavori pubblici.

Qui l'impatto finisce. 30 anni dopo l'Italia ha ancora una classe politica screditata, dedita ai suoi riti e poco interessata alle cose che contano. E una classe imprenditoriale che tende a farsi gli affari suoi e a rispondere alla crisi epocale innescata dalla globalizzazione con una sola ricetta, il taglio dei salari e dei posti di lavoro. Ora come allora.

Paese al collasso

Dice nel 1992 l’economista Romano Prodi, già presidente dell’Iri per sette anni: «L’Italia ha in Europa, dopo Germania e Olanda, il più alto costo del lavoro, che deve poter riversare su prodotti di qualità, pena la deindustrializzazione». Anche lui darà una mano a tagliare i salari, ma non basterà: i prodotti di qualità non arrivano e le fabbriche chiudono. La disoccupazione morde, è già al 10 per cento come oggi.

Rifondazione comunista propone una legge per l’istituzione di un sistema di reddito minimo garantito. Ma i politici parlano soprattutto di politica e di riforme istituzionali. Si vagheggiano sistemi elettorali con cui «la sera del voto si sa chi governerà». L’elettorato partecipa alla politica tifando più che ragionando. Chi allora non era nato o era troppo piccolo non sa che questo mondo strano, in cui vive oggi, per i suoi genitori è solo un déjà vu.

Il lunedì sera in cui viene arrestato Mario Chiesa gli italiani guardano la televisione, quasi 28 milioni. Vince la serata il film Gremlins su Canale 5, di misura sull’Ispettore Derrick su Raidue. Lunedì 14 gennaio 2022 davanti alla tv in prima serata c’erano 21 milioni di spettatori.

In 30 anni la tv generalista ha perso un quarto del suo mercato e questo è uno dei cambiamenti più profondi avvenuti da allora nella vita nazionale. Salendo sulla macchina del tempo per trasferirsi nell’Italia del 17 febbraio 1992, si scopre che l’Italia di oggi si balocca sull’orlo del baratro esattamente come quella di trent’anni fa.

Con l’unica differenza che adesso siamo molto più vicini al precipizio, forse già dentro. Nell’Italia del 17 febbraio 1992 il Codacons denuncia che sono fuori legge per le norme antincendio non solo il 90 per cento delle aule scolastiche ma anche settemila aule universitarie, e diffida il ministro dell’Università a metterle a norma entro 30 giorni, così. A Roma scoppia una rissa tra lavavetri polacchi e marocchini che si contendono l’ambito semaforo di piazzale Flaminio. Un polacco finisce in coma, un marocchino in galera per tentato omicidio.

La Corte dei conti condanna Vittorio Sgarbi a 10 milioni di lire di sanzione per i 453 giorni (in due anni) di assenza ingiustificata dal suo lavoro alla Sovrintendenza ai beni artistici del Veneto. A Roma vengono arrestate otto persone per un caso di corruzione alla Corte di cassazione: pare che criminali comuni pagassero funzionari della Suprema corte per far sparire nel nulla le loro sentenze di condanna. Se non fossero gli stessi magistrati a ipotizzare cose del genere non ci si crederebbe.

La crisi economica morde. Craxi propone di bloccare prezzi e salari per fermare l’inflazione. Se ne discute rinviando comunque le decisioni alla prossima legislatura, come se il tempo fosse immobile. Il padrone della Fiat, Gianni Agnelli, reagisce con la battutona che i giornali italiani trovano come sempre spiritosissima: «Una tregua è certamente possibile, è possibile perfino in Jugoslavia».

L’Avvocato cazzeggia, il pubblico si diverte. Il ministro del Lavoro Franco Marini annuncia l’assunzione nella pubblica amministrazione di mille esuberi dell’Olivetti, compiacendosi che così il numero degli esuberi effettivi scende da 2.500 a 1.500. Il deputato liberale Raffaele Costa parla di «bieco e demagogico assistenzialismo». Il presidente dell’Olivetti Carlo De Benedetti (oggi editore di questo giornale) protesta e avverte che, nonostante i 2.500 esuberi, l’azienda è sana e non è corretto parlare di salvataggio.

Il presidente del Fondo interbancario Paolo Savona (oggi è presidente della Consob) spiega che la decisione di salvare la Cassa di risparmio di Prato facendola assorbire dal Monte dei Paschi di Siena «ha posto in equilibrio gli interessi economici della zona con quelli più generali della collettività». Déjà vu.

L’Italia dopo il muro

© LaPresse Archivio storico Berlino novembre 1989 Varie Caduta muro di Berlino Nella foto: un gruppo di manifestanti sfonda il muro con un arnese B 4760

Oggi si litiga sulle foibe, ma anche l’Italia del febbraio 1992 litigava sul passato anziché sul futuro. Il dibattito politico è dominato dalla rivelazione di una lettera del leader comunista Palmiro Togliatti che nel 1943 dichiarava disinteresse per il fatto che stessero morendo di stenti migliaia di italiani finiti prigionieri in Russia dopo la sventurata partecipazione all’attacco hitleriano.

I post comunisti del Pds di Achille Occhetto gridano alla speculazione elettorale (si avvicinano le politiche del 5 aprile) e sostengono che la lettera è stata falsificata. Il presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che nella parte finale del suo mandato sembra aver perso ogni controllo entrando nella fase cosiddetta del «picconatore», si lancia in una spericolata lotta ante litteram alle fake news e incarica tre storici (uno cattolico, uno laico, uno comunista) di chiarire agli elettori che cosa ha scritto davvero Togliatti.

Quella che palpita per la lettera di Togliatti è un’Italia che non ha capito la lezione del 9 novembre 1989. Sono passati poco più di due anni dalla caduta del muro di Berlino che ha comportato l’istantanea dissoluzione del blocco sovietico. L’Italia non è più quel delicato paese di confine designato nel 1945 dagli accordi di Yalta tra Stalin, Roosevelt e Churchill. Per mezzo secolo l’Italia ha ceduto al blocco atlantico, cioè agli Stati Uniti, basi militari e sovranità (i comunisti, in quanto partito di Mosca, non possono andare al governo, il cosiddetto fattore K) in cambio di sostegno economico.

Ma dopo la caduta del Muro l’America abbandona l’Italia preferendo promuovere lo sviluppo del capitalismo nei paesi ex comunisti. A questo si aggiungono altri due cambiamenti epocali. Al 1° gennaio 1993 è fissato l’appuntamento con il «mercato unico» europeo, l’eliminazione delle barriere doganali. Ed è solo l’antipasto del secondo e maggiore choc in arrivo, la globalizzazione.

Mentre Di Pietro arresta Mario Chiesa, il presidente della Commissione europea Jacques Delors tratta con gli Stati Uniti e le altre potenze il cosiddetto Gatt (General agreement on tariffs and trade), il trattato sul commercio mondiale che verrà approvato nel 1994, dopo sette anni di discussioni, aprendo la strada al libero commercio mondiale. Già nel 1991 il vicepresidente della Commissione europea, l’inglese Leon Brittan, avverte: «Noi daremo tutto l’aiuto possibile per il processo di ristrutturazione del settore dell’auto, inevitabile e che sarà certamente doloroso».

L’Italia ci arriverà 30 anni dopo, quando è troppo tardi, avendo affidato il suo futuro alla Fiat (con i risultati noti e ugualmente dolorosi) e preferendo nel frattempo occuparsi delle lettere di Togliatti. Dopo Mani pulite (nonostante, o a causa di, poco importa) l’Italia è un disastro. Dal 1980 al 1989 il prodotto interno lordo italiano (Pil), cioè la ricchezza prodotta in un anno, è cresciuto del 28 per cento. Dal 1990 al 1999 del 15 per cento. Dal 2000 al 2009 del 4 per cento.

Dal 2010 al 2019 del 2,5 per cento. Il Covid ha dunque colpito un’economia già in ginocchio. Basta un confronto: dal 2000 al 2019 l’economia italiana è cresciuta in tutto del 6 per cento, quella dell’Unione europea del 33 per cento; nel 1992 il Pil pro capite italiano era del 30 per cento superiore alla media europea, nel 2019 era inferiore del 6 per cento; nel 1992 il Pil pro capite della Germania era superiore a quello italiano del 14 per cento, nel 2019 era superiore del 32 per cento.

L’Italia è diventata più povera: cinque milioni di lavoratori dipendenti guadagnano meno di 10mila euro all’anno. E il declino è stato accompagnato dalla incapacità di politici e imprenditori di guardare in faccia la realtà e superare il trito copione che la classe dirigente azzerata da Mani pulite ha lasciato in eredità alle sue seconde file salite al potere. Un copione fatto di esorcismi, danze della pioggia e preghiere rituali.

Mercato unico

L’Italia del 1992 prega invocando la santa competitività. «L’economia italiana sta perdendo competitività», intima dall’America il premio Nobel per l’economia Franco Modigliani. Il ministro dell’Industria Guido Bodrato partecipa a Madrid a un dibattito su “Italia e Spagna di fronte alla sfida del mercato unico”, e riferisce di aver capito che la principale necessità per la nuova situazione è quella di una maggiore competitività. Il 17 febbraio, mentre i carabinieri stanno andando ad arrestare Chiesa, il commissario europeo Filippo Maria Pandolfi indica le aree su cui l’industria italiana può giocarsela: «L’elettronica per l’auto pulita, le tecnologie del software, i semiconduttori, le biotecnologie».

Il segretario del Pri Giorgio La Malfa dice che bisogna ridurre il debito pubblico, ormai salito al 104 per cento del Pil (oggi siamo sul 150 per cento). Il futuro fa paura e si cerca di esorcizzarlo. Il 4 novembre 1991 un migliaio di doganieri di otto paesi europei, tra i quali l’Italia, protestano a Bruxelles contro la minaccia al proprio posto di lavoro insita nell’abolizione delle frontiere intracomunitarie.

Craxi invece propugna la competitività con la stessa filosofia del Pnrr di Mario Draghi, centrata sulle infrastrutture. Elenca: «Il nuovo traforo del Brennero, il nuovo valico dell’Appennino tra Firenze e Bologna, l’attraversamento viario dello stretto di Messina, gli interventi nelle grandi aree metropolitane, la modernizzazione delle reti tecnologiche (telecomunicazioni, metanizzazione, il sistema idrico, le reti energetiche), l’alta velocità nelle ferrovie, il disegno strategico del sistema portuale». Mancano dieci giorni all’arresto di Mario Chiesa. L’affare dell’alta velocità è celebrato, 30 anni fa come oggi, come l’arma segreta per la crescita economica.

Giorgio Garuzzo, direttore generale della Fiat, sostiene che per uscire dalla crisi è importante «realizzare opere pubbliche importanti come l’alta velocità». Una fabbrica di automobili che promuove la ferrovia? Sì, perché nel 1991 le Fs di Lorenzo Necci hanno varato il programma di costruzione delle nuove linee (Torino-Milano-Venezia e Milano-Roma-Napoli) assegnandone la costruzione, senza gara, a tre consorzi, due guidati da Iri ed Eni (pubbliche) e uno proprio dalla Fiat. La quale, sotto la guida di Cesare Romiti, sta conducendo una forsennata strategia di diversificazione, lasciando l’auto al suo destino (proprio nel 1989 hanno cacciato l’uomo che sapeva pensare i modelli vincenti, Vittorio Ghidella, e se ne vedranno i risultati) e facendo del gruppo torinese un colosso di tutto: assicurazioni, grande distribuzione, editoria e, soprattutto, costruzioni. Questo grande appalto senza gara è considerato dagli industriali la loro polizza contro il mercato unico.

Francesco Gaetano Caltagirone, nell’affare con la sua Vianini, è molto chiaro: «Il progetto alta velocità è l’ultima grande opportunità per le imprese italiane prima del mercato unico europeo».

Quando Nino Andreatta, economista lungimirante, maestro di Romano Prodi e suo pigmalione come leader dell’Ulivo, propone la gara internazionale per l’alta velocità, pensando che così l’opera costerà meno e le imprese italiane saranno stimolate a essere più competitive, tocca all’ex presidente della Confindustria Sergio Pininfarina fare fuoco e fiamme: «È una cosa gravissima che può causare ritardi alla realizzazione delle opere, danni alle imprese italiane e soprattutto all’occupazione, visto che con le nuove linee si dovrebbe dare lavoro a circa 50mila persone».

Nel 1992 una regolare gara d’appalto è giudicata dalle imprese italiane «una cosa gravissima»: questo spiega tutto. Andreatta è quello che alla vigilia dell’arresto di Mario Chiesa propone un’imposta patrimoniale sugli immobili da 20mila miliardi di lire (qualcosa come 20 miliardi di euro odierni). Arrivano da questa specie di grillo parlante democristiano le proposte più di sinistra e più inascoltate, anche dalla stessa sinistra che comincia a essere soggiogata dal pensiero padronale.

Per l’industria italiana la stella polare è succhiare soldi dalle casse dello stato e chiedere poi di tagliare pensioni e spesa sociale. Unico a uscire dal coro è un imprenditore di 56 anni allora sconosciuto, Leonardo Del Vecchio. Cinque giorni prima dell’arresto di Mario Chiesa illumina da par suo il sistema: «Io non ho mai chiesto una lira allo stato. Ho sempre preferito fare da solo: così non sono costretto ad assumere lunghe liste di raccomandati».

Travolto dallo scandalo Tangentopoli, Craxi esce dalla scena della politica di governo, ma lascia in eredità una parola d’ordine mutuata dalla cultura degli imprenditori italiani. La modernizzazione passa dal ridimensionamento dello stato sociale: «Non va distrutto o smantellato: va riorganizzato e ridimensionato tenendo conto della realtà nuova che viviamo e guardando questa realtà con occhi sinceri». Quando esplode Tangentopoli, gli industriali sono riusciti a far passare l’idea che tutti i mali d’Italia dipendano dalla politica corrotta e incapace. Tra loro parlano di «spallata» alla partitocrazia come scorciatoia verso la modernità. In questo modo riescono a ingannare tutti sulla loro irresponsabilità e sulle loro responsabilità: gli italiani non hanno ancora finito di pagarle.

Sembrerà incredibile, ma l’unico che glielo fa notare, un mese prima di Mani pulite, è il presidente del Consiglio Giulio Andreotti, alla vigilia della fine della sua carriera politica: il 14 marzo 1992 la mafia uccide il suo plenipotenziario in Sicilia Salvo Lima, un anno dopo viene indagato per mafia.

1995 Calogero Antonio Mannino detto Lillo (Asmara, 20 agosto 1939) è un politico italiano, più volte ministro della Repubblica. nella foto: Mannino Calogero con Salvo Lima

Il 10 gennaio 1992, al Consiglio nazionale della Dc, Andreotti recita la sua giaculatoria per quelli che Ernesto Rossi aveva battezzato «i padroni del vapore»: «Cinque anni fa un’azione Fiat valeva 16.600 lire, mentre oggi ne vale solo cinquemila. Una Olivetti valeva 19.440 lire, oggi ne vale solo 2.470.

Le Pirelli, cinque anni fa, valevano 6.540 lire, mentre oggi valgono 1.030 lire. Se qualcuno si occupasse di fare andare meglio le proprie aziende forse le cose andrebbero meglio». Infatti Agnelli, come i suoi eredi di oggi, pensa agli incentivi per l’auto.

Due settimane prima dell’arresto di Mario Chiesa, cala a Roma per presentare ai vertici dello stato la nuova Alfa 155. Alla presidente della Camera Nilde Iotti (comunista, vedova di Togliatti, costretta da un’Italia voltata all’indietro a occuparsi di una lettera scritta 50 anni prima dal suo compagno morto da 30 anni) mostra un’Alfa rossa fiammeggiante e le parla della aspettativa per gli incentivi: «Si tratta di uno strano fenomeno, continuavamo a vendere auto, ma la gente non le ritirava, aspettando forse incentivi fiscali».

Alla fine, chi vedeva davvero lontano era forse Andreotti che così scolpiva la sua profezia: «Non bisogna cancellare tutta un’esperienza democratica, e dobbiamo avere il coraggio di dirlo. Altrimenti corriamo il rischio di creare le basi o perché la situazione non sia governabile, o perché tutti finiscano per prendersi la loro parte di autorità, ma senza il voto del popolo». Mani pulite non era ancora cominciata ma il sistema sentiva già nelle ossa la rovina. Che non è ancora finita.

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