Nel finale della Macchina del tempo, fra i più celebri romanzi di fantascienza, il protagonista spinge la sua invenzione sempre più avanti negli anni. Arriva a un’epoca in cui la vita umana è scomparsa, senza lasciare traccia. In cui tutte le forme di vita sono regredite. Di lì a poco svaniranno del tutto. La terra sta per essere inghiottita da un gigantesco sole, sempre più grande; sempre più tenue. Enormi granchi percorrono una spiaggia desolata, che ha il perenne colore del crepuscolo. Ancora un viaggio nel tempo, e anche su quelle remote forme animali calerà il sipario. Scende il gelo e il sole, rosso e immenso, non riesce più a scaldare.

«Allora mi fermai un’altra volta, perché la moltitudine strisciante dei granchi era scomparsa, e la spiaggia rossa, a eccezione delle alghe epatiche e dei licheni verde livido, sembrava senza vita: era ora chiazzata di bianco. Fui assalito da un freddo pungente; radi fiocchi bianchi cadevano vorticando di tanto in tanto».

Folate e sibili erano l’unica voce che rimaneva nel mondo, nell’universo una volta abitato dagli uomini. «Silenzioso? È difficile darvi l’idea della sua calma. Ogni suono umano, il belato delle pecore, gli strilli degli uccelli, il ronzio degli insetti, il rumore che costituisce il fondale delle nostre vite, tutto questo non c’era più». 

Herbert George Wells pubblica La macchina del tempo nel 1895. Siamo all’apice del secolo del progresso, l’Ottocento, che sembrava disvelare all’umanità quelle «magnifiche sorti e progressive» che pur Leopardi aveva canzonato.

La voragine fatta di guerre mondiali, olocausto e totalitarismi non si è ancora spalancata, a inghiottire la marcia degli esseri umani verso il radioso avvenire. Né il progresso tecnologico si era rivoltato contro il suo creatore, con armi sempre più devastanti fino alla bomba nucleare, a minacciare l’esistenza stessa del genere umano.

Il fine della storia

Eppure, già allora Wells, forse quasi senza accorgersene (il cuore del romanzo parla d’altro, in effetti), in un pugno di frasi, ha preso la visione lineare della storia su cui si fondava tutta la cultura del tempo, e l’ascesa dell’Occidente, e l’ha stravolta. Adesso è irriconoscibile. Qual è dunque il fine della storia? Qual è il senso dell’avventura umana?

Non è il sorgere della Città di Dio, di cui parlò per primo Agostino, che di questa visione lineare fu il precursore, pur ponendola nell’aldilà. Non è, tanto meno, la Gerusalemme terrestre, di cui ardevano i fanatici religiosi alle soglie dell’Europa moderna, trascinando nell’aldiqua la suggestione post apocalittica.

Non sono nemmeno quelle «magnifiche sorti» che il progresso dei liberali e dei borghesi, al tempo di Wells, amava celebrare; non è l’epifania rivoluzionaria, l’utopia socialista, che a quelle sorti finalmente si sperava avrebbe dato sostanza. Il fine della storia è la sua inesorabile scomparsa, fra le tenebre dell’universo.

Questo insegna la scienza moderna, ci rammenta Wells, questo è quanto siamo arrivati a conoscere. Questa è la cruda realtà con cui dobbiamo misurarci, dall’infinitamente grande (i milioni di anni), all’infinitamente piccolo, all’assurdo della nostra vita di ogni giorno.

Nella tragedia delle guerre mondiali, e del nazismo, i filosofi esistenzialisti si faranno interpreti di tale assurdo. Eppure, un barlume di questa interpretazione si trova già, a ben vedere, proprio nelle ultime pagine della Macchina del tempo.

Quando il nostro viaggiatore, giunto alla fine del tempo terrestre, cerca ancora un fremito di vita umana, un qualsiasi sussulto di vita animale: un qualche cosa, un suono, un movimento, che possa dare significato a quello che osserva, che lui sta vivendo.

«Mi guardai intorno per vedere se rimanesse qualche traccia di vita animale. Un’indefinita apprensione mi tratteneva sulla sella della macchina, ma non vidi muoversi nulla, né in terra né in cielo né in mare. Solo la melma verde delle rocce testimoniava che la vita non si era estinta del tutto».

Non c’era alcun segno, se non una creatura invertebrata che pareva strisciare in lontananza, sopra i banchi di sabbia, se non una (improbabile) eclissi, che ingrossava la brezza «in un vento lamentoso». Che rende il cielo «di un nero assoluto».

Ma in realtà era proprio quel viaggiatore del tempo, era lui, a dare significato alla scena. A illuminarla. Era la fantasia di Wells, che ci ha raccontato la fine del mondo. Proprio come, al tramonto dell’Impero romano, l’intelligenza di Agostino ci ha raccontato la Città di Dio.

È a pensarci il fatto che anche in questo momento una persona ne scrive, o ne parla, o sta ascoltando. Sì. È il fatto che noi lo abbiamo scoperto, e lo raccontiamo, e ce lo chiediamo. Abbiamo ricostruito com’era il mondo prima di noi, sappiamo come andrà a finire. Andiamo svelando a poco a poco le leggi dell’universo.

Il significato della storia

Illustrazione Pixabay

La storia ha un senso? Siamo noi, a dare significato alla storia. È l’intelligenza umana. Anche se la nostra avventura – l’avventura della vita intelligente in uno degli infiniti pianeti del cosmo – a ben vedere un significato non ce l’ha, ben potrebbe non avercelo. Nondimeno, noi le diamo significato. La interpretiamo. Cerchiamo di trovare una spiegazione all’assurdo.

E non è solo un impegno rivolto al passato, attenzione. Tutt’altro. Nel tentativo di dare significato alla storia o, meglio ancora, a partire dal significato specifico di cui parleremo, si decidono le principali sfide di questo nostro tempo.

Qual è il significato che noi possiamo dare alla storia? Questo libro suggerisce una risposta, fra le molte possibili. Non l’unica, appunto. Ma a mio giudizio quella che è più convincente e, soprattutto, pone le migliori condizioni per la «fioritura» della vita umana, cioè per una felicità intesa non in senso soggettivo, ma come possibilità di realizzazione per ogni persona (e anche, in via generale, per gli altri animali appartenenti alle specie senzienti).

Al nocciolo, la tesi è che la storia umana può trovare significato nell’idea di progressiva estensione dei diritti e dei doveri. I diritti e i doveri si tengono insieme, in questo processo di reciproco ampliamento, sono (letteralmente) due facce di una stessa medaglia.

E sono il prodotto della ragione umana, che in questo modo cerca di dare forma e senso alla storia, e forse alla sua stessa esistenza. I diritti e i doveri non esistono «in natura». Li abbiamo creati noi. Mossi da un principio di giustizia che è caratteristico della specie umana.

La politica che può realizzare questo progressivo ampliamento, e questo connubio, è quella che riesce a mettere insieme, anzi a fondere, tre grandi sistemi di pensiero della nostra epoca: il liberalismo, il socialismo e l’ambientalismo.

Beninteso, sono ideologie che perlopiù, negli ultimi due secoli, si sono contrapposte, spesso si sono combattute, anche aspramente (specie le prime due, quelle con più passato). Ma nondimeno hanno saputo anche collaborare, con risultati notevoli, in termini di benessere e di incontro fra diritti e doveri (di nuovo, specie le prime due; finora almeno).

Tre ideologie complementari

Vedere queste tre ideologie come contrapposte e anche inconciliabili, propendere per l’una a scapito delle altre due è legittimo, ed è stato fatto e ancora lo si fa. Ma è altrettanto legittimo, argomenterò, volerle considerare come complementari, nel senso che «si completano» a vicenda.

Il terreno su cui si completano è proprio quello del connubio fra diritti e doveri. O, meglio, della progressiva estensione dei diritti dell’uomo, che nascono come idea propria del liberalismo (ne sono anzi la vera essenza), ma che nel corso della storia si sono progressivamente estesi, sia nella riflessione dei filosofi morali, sia anche per una parte del Novecento negli ordinamenti politici e in concreto nella vita delle persone: includendo non più solo i tradizionali diritti civili del liberalismo classico, ma i diritti sociali propri del pensiero socialista e, quindi, i diritti degli animali e dell’ambiente propri di quello ecologista, arrivando appunto alla nozione di «diritti umani allargati».

Attraverso questo loro ampliarsi, ed è un punto chiave, i diritti pongono anche (diventano) doveri. I diritti sociali (cioè il diritto all’istruzione, alla sanità, alla casa, a un giusto salario) pongono dei doveri a chi già gode dei diritti civili ed economici, e in particolare al principale dei diritti caro ai liberali, quello alla proprietà (quel «terribile diritto», come lo definì Beccaria).

I diritti ambientali sono, a ben vedere, non solo il diritto che tutti abbiamo di vivere in un ambiente salubre, ma i diritti umani delle persone che vengono dopo di noi, così come i diritti degli altri animali appartenenti alle specie senzienti: verso tutti loro noi abbiamo oggi delle responsabilità, cioè dei doveri.

Naturalmente, però, questo progressivo ampliamento consente anche, tutto sommato, un più pieno godimento dei nostri diritti. I quali andrebbero considerati nella loro totalità, come un tutt’uno o, meglio ancora, complementari.

La persona umana non è un individuo avulso dalle relazioni sociali e ambientali, ma un animale sociale, che – in termini generali – trova nelle relazioni con le altre persone, con gli individui delle altre specie senzienti, e con l’ambiente e il mondo in senso più lato, una sua piena realizzazione: la sua felicità, per quanto sfuggente possa apparire questo termine. E se comprendiamo l’importanza delle relazioni con gli altri, forse capiamo meglio l’angoscia che si prova nelle ultime pagine del romanzo di Wells.

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