Quando si pensa alla condizione dei detenuti io credo che non si consideri mai abbastanza il sostantivo “privazione”. Il carcere è soprattutto privazione, non è solo perdita della libertà personale: una duratura condizione di privazione totale. Sfugge la percezione reale di come sia vivere senza poter telefonare quando si vuole, senza poter mangiare quello che si vuole, senza poter vedere le persone amate quando si vuole, persino senza potere assumere una compressa per il mal di testa, quando si vuole.

In carcere per qualunque situazione, esigenza, bisogno, si deve chiedere il permesso a qualcuno. Allora, si provi a pensare che cosa significa trascorrere anche solo un anno, o anche solo un mese, anche solo un giorno direi, dovendo dipendere da altre persone, che devono valutare, l’esigenza effettiva della richiesta. E quindi valutare se autorizzare in positivo o in negativo.

Allo stesso modo si provi a immaginare come può essere quando non si è del tutto padroni della propria esistenza, della propria vita, e si è consegnati all’istituzione carcere, un’istituzione che ha molte regole rigide, molto burocratizzata, molto autoreferenziale, con prassi anche piuttosto paradossali per chi le osserva da fuori.

La supremazia della carta

Durante le mie giornate ordinarie, quelle cioè in cui tutto scorre senza una emergenza, senza un pericolo o un ostacolo dell’ultima ora, una quota del mio lavoro è mettere ordine nel serpentone di carte che si muove tutti i santi giorni, a Bollate, a Opera, al Beccaria, come in tutte le carceri italiane.

Il carcere è uno di quei pochi luoghi in cui la supremazia della carta resiste. Anzi è la carta che segna quasi il ritmo della vita interna al carcere. Tutto quello che qui si muove, si inventa, si immagina è regolato dalla pratica della scrittura su svariate tipologie di moduli.

A pensarci è un costante esercizio all’incasellamento della vita dentro procedure. O meglio, la vita del detenuto è un costante esercizio all’incasellamento, alla schematizzazione. Svegliarsi, mangiare, vestirsi, pensare, leggere, cucinare, dialogare, persino amare o scegliere chi amare.

Richiedere una sveglia

Svegliarsi, ho bisogno di una sveglia diventa: “Alla cortese attenzione ecc. avrei bisogno di una sveglia ecc”. Stesura, rilettura. Firma. Consegna a un operatore. E qui parte il serpentone. Approdo, quasi finale: la mia scrivania. Chiarisco: quasi finale.

Perché dopo l’approdo scattano la mia lettura, la mia approvazione, che però dipende da almeno tre verifiche: che il modello di sveglia richiesta sia compatibile con il modello di sveglia il cui uso è stato autorizzato, che questa sveglia sia disponibile presso lo spaccio del carcere e che sul conto del detenuto ci siano i soldi necessari all’acquisto (sì, i detenuti hanno la possibilità di tenere un conto presso l’amministrazione del carcere con poche migliaia di euro).

Ipotesi A: va tutto liscio, c’è la sveglia, ci sono i soldi sul conto. Nel tempo ragionevole di qualche giorno il signor Beta potrà avere la sua sveglia.
Ipotesi B: non va tutto liscio. Bisogna chiedere all’esterno la sveglia, oppure mancano i soldi sul conto. In questo caso i giorni diventano settimane, e le settimane in qualche volta anche mesi. E di questo tempo dilatato nessuno ha una responsabilità, perché al modulo X deve per forza seguire il modulo Y e poi quello Z.

Un giorno il signor Beta avrà una sveglia in cella e sarà un’occasione, un evento. Perché accade in questo modo che l’ordinario diventi una occasione. Io leggo, verifico e autorizzo. E non mi domando (più) perché l’acquisto di una sveglia necessiti dell’autorizzazione della direttrice.

La cura di sé

Vestirsi: ... ho bisogno di una cintura per i miei pantaloni da lavoro. “Gentilissima sono qui a chiederle…” Stesura della domanda anzi della “domandina”, consegna. Solito giro. Autorizzazione. Quesito: se i pantaloni da lavoro prevedono una cintura, perché non consegnare subito una cintura?

Oppure: ... “ho bisogno di un paio di scarpe e non ho trovato niente della mia misura tra gli indumenti della Sesta Opera. Allego foto del modello scelto”. (La Sesta Opera San Fedele è una delle più antiche associazioni di assistenza carceraria operanti in Italia).

Richiesta e foto sono sul mio tavolo. Firmo, autorizzo. Verifica della disponibilità sul conto del detenuto, inoltro richiesta allo spaccio, che provvederà all’acquisto. Tempo necessario? Dipende, da qualche giorno a qualche settimana.

Cura di sé: ... ho bisogno di forbicine, quelle per bambini, distribuite, non sono sufficienti. “Egregio…”. Tutto come sopra, eccetto il fatto che nel concedere l’autorizzazione devo verificare il modello di forbicine più adatto, sicure come quelle di una nota marca di prodotti per bambini ma, diciamo così, più adeguate a uomini o donne adulti.

Tempo libero e riposo

La liuteria del carcere di Opera, Milano (Foto LaPresse - Matteo Corner)

Pomeriggio, tempo libero: ... vorrei ascoltare un po’ di musica. L’mp3 è fuori uso. “Alla gentile attenzione…”. Ci vorrà tempo; per oggi, per domani, per qualche giorno meglio trovarsi qualcos’altro da fare. Niente musica.

Pomeriggio, è giorno di telefonata: “Vorrei cambiare il seguente numero con il seguente numero… Illustrissima dottoressa, la prego di autorizzare le chiamate a questo numero in sostituzione di…”.  Così leggo ed entro nella vita di queste persone, e se nel mondo è tutto un parlare di privacy, qui sono io a decidere se autorizzare la telefonata alla signora X invece che alla signora Y.

Che poi, anche a voler mantenere il distacco, vengono quasi spontanee domande tipo: ma chi sarà, non è la moglie? O anche: ma perché non vuole più parlare con tizio. Questo quando c’è da sorridere e non sempre è così, spesso è tutto un mettere le mani dentro dolori e fratture. Abissi, insomma.

Sera, riposare, dormire: “Gentilissima torno a lei, perché mi trovo nella condizione di dover sollecitare una nuova visita. Le pillole che mi ha dato il dottore non bastano…”. Leggo e a mia volta inoltro: per questa richiesta posso fare poco. Dal 2009 infatti l’area sanitaria dei penitenziari è sotto la gestione del personale medico alle dipendenze delle aziende ospedaliere.

Espropriazione

E a questo punto al sostantivo “privazione” se ne unisce un altro, altrettanto poco considerato, ovvero “espropriazione”. Di tutte le espropriazioni che riguardano i detenuti quella della gestione del proprio corpo è forse la più ingiusta.

Se io ho mal di testa apro un cassetto, frugo, prendo una scatola di analgesici ed è fatta. Se un detenuto ha mal di testa, la gestione del suo dolore diventa collettiva. È una faccenda sua, ma anche dell’agente di turno, e poi mia, una catena fino ad arrivare al medico.

Se io ho bisogno di un qualunque esame diagnostico in un tempo ragionevole posso essere sicura di essere visitata. Se un detenuto ha bisogno del medesimo esame il tempo ragionevole non esiste, anzi in qualche caso non esiste proprio il tempo. Il tempo si polverizza nelle carte, sminuzzato dalle procedure, dalla burocrazia.

L’intimità del dolore è costantemente profanata dalla dipendenza da qualcun altro: dall’essere costantemente sotto l’occhio di tutti, i propri compagni di cella, o dall’essere derubricati a “domanda da autorizzare”.

Sia che si viva la malattia cercando l’isolamento, sia che la si viva cercando l’attenzione, nessuna di queste dimensioni che fuori sono naturali dentro il carcere possono appartenere ai detenuti. L’equilibrio dipende da una pluralità di fattori che non sempre concorrono: una struttura adeguata, l’occhio attento di un operatore, l’occhio altrettanto attento di un agente, una buona relazione con gli altri detenuti, un’adeguata gestione di coloro che hanno una responsabilità come la mia.

Se poi il dolore sta in quel luogo misterioso che è la mente, se prende la forma del disagio, l’espropriazione è ancora maggiore.



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