L’attrice è in tournée con il suo primo spettacolo da regista, Secondo lei. E dice «ho la forte impressione che ce la stiamo raccontando, questa indipendenza della donna. Basta guardare come vanno le elezioni, come va il mondo. Cosa succede in America. Dove sono le grandi conquiste, se poi la gente è entusiasta di Donald Trump e di Giorgia Meloni?»
Cognome e parenti ingombranti, un mestiere di “attrice comica”, la chiacchierata con Caterina Guzzanti inizia dalle aspettative degli altri su di lei, con le quali – racconta – ha fatto pace. È in tournée con il suo primo spettacolo da regista, Secondo lei, scritto di notte grazie ad appunti vocali presi allo svincolo di Prati Fiscali. Fino a domenica alla Sala Umberto di Roma, recita sul palcoscenico con Federico Vigorito.
In quanti le hanno già detto che si aspettavano di ridere, ma non di commuoversi così tanto al suo spettacolo?
Tanti, confermo, pure stamattina. Mi chiedono di poter rileggere il testo e per me è motivo di vanto, che sia così libero dal pregiudizio e inviti a riflettere. Sarà che dal comico ci si aspetta che faccia ridere 24 ore su 24, e però io di questo mi sono liberata pian piano. Forse il punto di svolta definitivo è stata la partecipazione a Lol.
Dove lei si è rivelata bravissima a non ridere.
Sì, perché mi è stato finalmente evidente che non devo per forza essere simpatica e carica a pallettoni, sempre all’altezza del ritmo degli altri. Ho il mio modo di guardarmi attorno, la parola che forse più mi caratterizza è “sbalordita” e a Lol si è visto. Mi rendo conto che spesso le persone si aspettano da me “il momento comico” e però io magari in quel momento voglio parlare di cose serie, perché sono una persona normale e perché non su tutto si può sdrammatizzare. Si può cercare di essere fedeli alle proprie sensazioni del momento, o almeno io ci provo sempre, adesso.
Caterina Guzzanti da bambina sognava, naturalmente, gli applausi?
Tutto il contrario: volevo fare la biologa o la veterinaria, perché adoro gli animali e perché ho una mente matematica. Sono una persona molto pratica, razionale e calma. Tranne in alcuni momenti di disperazione, ma devo dire sono rari, per fortuna. Mi piacciono ancora tantissimo la geometria e la trigonometria.
E da seno, coseno e tangente alla scrittura di personaggi da interpretare cosa è accaduto?
Mi è scoppiata la passione per la parola, quella esatta. E per le tipologie umane. Sono una perfezionista. Mi sono sempre scritta ogni sketch per la televisione partendo da come parlano i miei personaggi, che per me è intrinsecamente legato a cosa pensano. Il modo in cui ci si esprime, cioè, racconta tanto di sé. Pure se erano personaggi un po’ cialtroni, le assicuro che dietro c’è sempre stato un lavoro in cui non mi sono mai data un attimo di tregua né sulla sintassi né sulla scelta dei termini.
Stesso procedimento perfezionista anche per un testo teatrale?
Sì, però quel testo mi è uscito di getto, dopo aver riversato tanti appunti nelle note vocali del telefono, in particolare guidando in tangenziale a Roma.
In coda?
No, in coda si scrivono i pezzi più rabbiosi. I momenti più felici per me sono stati tra le rampe della Salaria, quando abitavo a Montesacro.
Curioso.
Ah lo so che uno si immagina che non sia un bel posto. Eppure nelle mattinate di sole, con le ruote che girano, prendi lo svincolo di Prati Fiscali e ci sono delle belle curve. E se non c’è traffico c’è una luce stupenda. Ti metti gli occhiali da sole, e laggiù in fondo intravedi Villa Ada e il centro, Roma Nord a destra e Roma Sud a sinistra, come se avessi la Capitale in pugno. Poi alla sera ti guardi il telegiornale, ceni, fai un po’ di zapping in tv e a mezzanotte ti decidi a mettere giù qualche appunto preso in giornata. Alzi gli occhi e sono già le cinque e ci sono gli uccellini che cantano. È andata, così, completamente immersa nella scrittura.
Lei racconta una coppia, un campo di battaglia silenzioso. Fraintendimenti e bisogni. C’è ironia, ma pure una donna che sprofonda nel letto.
E cerca aiuto nella solitudine della notte.
Si rivolge a una “signorina”. A un’alterità. Chi è?
Quella signorina assomiglia un po’ alle signorine dei call center, e la mia protagonista le chiede come mai non le è arrivato il link per respirare con gli altri. Perché si dice che di notte le persone, ma pure gli animali, le piante, i microrganismi, si connettono per respirare il buio insieme, in un abbraccio enorme, e invece lei resta sveglia con quest’uomo che le russa accanto.
Cito: «Quanto lontano arriva il dolore al buio? Perché di giorno lo trattengo, ma di notte? Pian pianino, alla velocità del buio, dove si trascina? E chi lo raccoglie?». Cos’è questo dolore di cui lei scrive?
È così tanta la solitudine di quella casa, di quella zattera che ho rappresentato. I protagonisti dovrebbero restare abbracciati, tenersi stretti, e invece si girano intorno facendo finta di niente. E l’unica speranza diventa un Dio, donna, confidente silenziosa.
Che non risponde.
Mai. E però, già che ci sei, cominci a chiederle: «Mi merito tutto questo? Posso sperare in qualcosa di meglio o mi arrendo?». Così fanno tante coppie. «È andata così, la prossima volta mi organizzo meglio» era un titolo alternativo del testo che ho scritto. Il senso di rassegnazione mi sembra molto comune. L’amore è meraviglioso, ma siamo proprio sicuri che ci voglia la coppia a tutti i costi?
Lei pensa di no?
Non do risposte, me ne guardo bene. Metto in scena il torpore di infelicità in cui ci si può solo raccontare che le cose miglioreranno da sole.
Racconta di una donna indipendente eppure dipendente.
Guardi, sarò sincera: ho la forte impressione che ce la stiamo raccontando, questa indipendenza della donna. Mi spiego meglio: ci siamo noi che pensiamo di essere a un punto di svolta o di aver addirittura già svoltato. Noi che parliamo della condizione femminile, e di una rivoluzione già avvenuta. E però mi chiedo se forse non ci stiamo anche un po’ parlando addosso, dentro a una bolla di persone che la pensano come noi e che ci danno l’impressione che “ormai” si sono fatti passi da gigante. Perché poi a guardarsi intorno a me non pare che sia esattamente così. Pure in politica.
Cioè?
Basta guardare come vanno le elezioni, come va il mondo. Cosa succede in America. Dove sono le grandi conquiste, se poi la gente è entusiasta di Donald Trump e di Giorgia Meloni? E per fortuna che ci siamo noi, in un milione in piazza a gridare che non ci sentiamo rappresentati dal nostro governo. Intanto, però, il mondo intorno è conservatore, e vive quella piazza come un problema, o un capriccio. Deprimente, non trovo altro aggettivo.
Quella piazza potrebbe essere un inizio?
Non lo so, ovviamente spero di sì, ma se stiamo ancora tra Medioevo e Rinascimento… ci vorrà qualche secolo. Della manifestazione mi hanno colpito gli sguardi, degli altri. Bellissimi, perché erano la dimostrazione che non sei pazzo a voler protestare: accanto a me altri come me, disposti a investire tempo, grida, emozioni e pure lacrime. È stato catartico. E però… ogni volta che abbiamo l'impressione di fare dei passi avanti poi ci sono delle strattonate all’indietro.
La sua è sempre una satira sociale, raramente politica. Ma con Vichi di CasaPound ha un po’ fatto eccezione.
Quel che volevo analizzare attraverso Vichi era la fragilità dei ragazzi che sono sì entusiasti ma anche molto malleabili, plasmabili. Io, per dire, a un certo punto mi sono innamorata di uno che tifava Roma e così ho smesso di tifare Juventus, che per altro era la fede calcistica del mio fidanzato delle elementari. Ho fatto volutamente un paragone tra fede calcistica e politica. Succede spesso che anche senza una vera convinzione filosofica, o politica, da giovani si aderisca al gruppo solo per il bisogno del gruppo. Che poi di solito è quello del luogo in cui sei cresciuto, della famiglia o degli amici. O almeno, spero che sia così.
Oggi Vichi di Casapound che cosa fa nella vita?
Credo le abbiano affidato delle cariche di governo, qua e là, ma non sono sicura perché dipende da quanti amici giusti si è fatta negli anni. Meloni ci ha voluto dire che l’amichettismo di sinistra è finito, ma Vichi conta sui suoi, di amici, che non se la passano proprio male.
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