Subire una minaccia non è qualcosa che capita tutti i giorni, e tantomeno immaginavo potesse capitare a me quindici anni fa, intraprendendo la sobria via del lavoro editoriale. Non avrei fatto il magistrato, o il giornalista d’inchiesta ma un lavoro che, per quanto mi sembrasse eccitante, doveva essere al riparo da una modalità certamente antica per l’essere umano, ma solitamente – almeno così pensavo – innervata nei gangli della legge.

Non avevo mai letto, per esempio, nei carteggi di Calvino, Sereni, Vittorini, di minacce subite, ma al massimo di qualche poeta che si sentiva offeso per non avere ricevuto la giusta attenzione: una campagna pubblicitaria di alto livello che risaltasse la qualità dell’opera.

Leggo sulla Treccani che la minaccia è il «delitto commesso da chi provoca in altri il timore di un ingiusto danno (…) prospettando in qualunque modo (…) un male futuro e indebito (…) e che sia di tale rilevanza da turbare obiettivamente la tranquillità della vittima».

Naturalmente utilizzo questa parola con una certa ironia, e credo sia inutile specificare agli intelligenti lettori che non intendo attribuirmi doti eroiche, né mettere sullo stesso piano gli episodi bizzarri che capitano a chi lavora nell’editoria con ciò che capita a chi si sente davvero minacciato con grande frequenza (penso al mio amico giornalista Giacomo Di Girolamo, che di lettere di minaccia e di pericoli ancora più subdoli fatti di sorrisi e frecciatine ne ha fatto collezione).

A un ritmo inaspettato

Eppure, devo dire che varie volte persino nel mio caso è stata turbata la «tranquillità della vittima».

Scavo nella memoria e mi vengono in mente, in circa quindici anni, almeno cinque atti definibili come “minaccia”. Uno ogni tre anni. Non un ritmo insostenibile, ma senz’altro inaspettato. Sono per esempio abbastanza certo che un professionista dell’editoria – forse in collaborazione con uno scrittore pirotecnico, che deve avergli almeno segnalato il mio indirizzo – sia stato protagonista di reiterati danni fatti al mio scooter, nelle notti in cui era parcheggiato all’aperto, fuori dalla casa in cui abitavo. Ma non avendo prove certificabili – salvo sincronie con impazzimenti megalomani e sms con solo l’emoticon di un campanellino come a dire “stai attento” – non feci nulla e aspettai che la tempesta passasse. Certamente però la «tranquillità della vittima» fu turbata.

Un’altra minaccia subita è talmente intricata che è molto meglio non rivelarla. Si può solo dire qui che vide pure coinvolti gli stessi individui, ma solo alla lontana, nelle retrovie, come personaggi secondari (nonostante ciò, e anzi proprio per questo, sono spesso i protagonisti della mia pratica di metta bhavana, la pratica meditativa detta anche della “gentilezza amorevole”. In breve: si irradiano sentimenti amorevoli e compassionevoli pensando a queste persone. Si sente amore per loro). Delle altre due, non abbiamo tempo di parlare, ma mi soffermerei sull’ultima in ordine di tempo, forse la più leggera, che credo possa dire qualcosa del lavoro editoriale.

La chiamata

Tutto inizia da una telefonata.

Le telefonate sono sparite, sono un atto novecentesco, sono state soppiantate totalmente dalla paura dell’ignoto che l’essere umano porta con sé come un angelo custode. Nessuno si fa problemi a scriverti su WhatsApp per qualsiasi minuzia, ma la telefonata spaventa soprattutto chi la fa, più di chi la riceve. Per questo rispondo sempre annoiato, al 90 per cento sarà un call center (il registro delle opposizioni non mi pare dia grandi risultati).

Questa volta rispondo e una voce femminile fortemente fiorentina inizia a urlarmi contro. Dice che ho fatto una cosa gravissima e che dovrei vergognarmi. Cerco di capire di cosa parli, e solo dopo qualche minuto capisco che si riferisce a un romanzo sul mostro di Firenze, pubblicato dal Saggiatore, casa editrice di cui faccio il direttore editoriale. Dice – ma più che dire urla, vomita parole – che la sua famiglia, a leggere quel romanzo, sembra essere fortemente connessa al mostro di Firenze, e che questa è una gravissima diffamazione.

Le rispondo che se è andata così ne sono profondamente dispiaciuto e le dico di scrivermi un’email, che inoltrerò immantinente all’ufficio legale della casa editrice. Lei aggiunge che se non rimuoviamo subito i nomi dal libro, intende presentarsi direttamente in casa editrice. Oppure «ancora meglio», dice, «a casa sua», e non intende andarsene, «rimango lì davanti per settimane», «così» aggiunge «le parlo bene io del mostro di Firenze, perché sono cose che conosco bene…»

Il tono è sufficientemente minatorio non dico da turbare «obiettivamente la tranquillità della vittima», ma quantomeno da insospettirlo.

Svelato l’arcano

Alla telefonata assiste un collega di un’altra casa editrice, che è venuto a trovarmi, e che mi chiede come faccia, quella signora, ad avere il mio numero di telefono. La risposta è molto semplice: è disponibile sul mio sito. Il mio amico collega teorizza allora che si tratti di Übersprung, “diversione”: quello scarto laterale, apparentemente fuori contesto, che è «un segreto ancora insondato del comportamento».

Gli sembrava infatti una modalità misteriosa, la mia: chiunque faccia questo lavoro, ha detto, deve proteggersi dal mondo, non è possibile avere una soglia di accesso così bassa.

E mentre parlava pensavo sempre di più quanto questa “diversione” fosse la condizione indispensabile di questo lavoro. Preferisco parlare di “spaziosità”: coltivare cioè una capacità di ascolto per tutti gli aspetti della vita, essere disposti ad accogliere, nel bene e nel male. L’essere umano è portato per sua natura a identificarsi con una delle parole più controverse del vocabolario: io. I buddhisti parlano dell’identificazione con l’“io-mio”. Io sono ciò che sono e sono ciò che ho. Tutto ciò che c’è fuori dal mio mondo deve rimanere fuori dal mio mondo.

Accogliere il mondo

Eppure credo che molti mestieri, e così anche questo stranissimo che ha a che fare con i libri, necessitino di questa spaziosità, di questa predisposizione ad accogliere il mondo in tutte le sue forme.

Per uscire dall’ordinario, per conoscere meglio il mondo, per avere idee inaspettate che contraddicano te stesso, per costruire una casa editrice che sorprenda sé stessa, non vedo molte altre strade che questa: provare a coltivare questa spaziosità.

Rimettere continuamente sé stessi in discussione, tornare ogni mattina a fare questo mestiere per le ragioni per cui abbiamo iniziato a farlo: per conoscere e per sorprendersi. Se in una mente ristretta c’è spazio per pochissime cose, in una mente spaziosa c’è spazio per tutto. E un catalogo editoriale, per sua natura, è fatto per essere spazioso: potenzialmente infinito, come la mente.

P.S.

Il mio numero è infine stato rimosso dal mio sito, ma non per una minaccia subita: solo un assai persistente stalking di un manoscrittaro che pretendeva la pubblicazione di un suo romanzo fantasy; è tuttavia disponibile nel mio libro Apparizioni a pagina 127. Per futuri aspiranti minacciatori: non occorre spendere 18 euro, credo sia reperibile su Google Books.


Andrea Gentile racconterà insieme a Giuseppe Russo di Neri Pozza il mestiere del direttore editoriale a Testo il 24 febbraio, alle 19 in sala Ortese, Stazione Leopolda, Firenze.

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