In Africa 900 milioni cucinano ancora su fuochi aperti. Ogni anno 3,7 milioni muoiono per inalazione di fumi tossici, il 60 per cento nel continente. Le vittime principali sono donne e bambini esposti per ore al fumo. Le stufe migliorate riducono del 60 per cento le emissioni e dimezzano il consumo di combustibile
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Le mani di una donna impugnano un mestolo e lo rigirano con decisione all’interno di una pentola. Il dettaglio si scorge appena attraverso il fumo denso che avvolge il fornello, in equilibrio su alcune pietre. Sotto, una fiamma arde viva. Vicino alla donna, immerso nell’aria irrespirabile, gioca un bambino di pochi anni.
Scene come questa sono purtroppo comuni in gran parte del continente africano dove oltre 900 milioni di persone - su un totale nel mondo di 2,3 miliardi - cucinano ancora su fuochi aperti e fornelli tradizionali, utilizzando legna, carbone e altri combustibili ben poco verdi.
Oltre a contribuire alle emissioni inquinanti e alla deforestazione, queste modalità di cottura comportano grossi rischi per la salute umana: secondo la Iea (l’Agenzia internazionale per l’energia) ogni anno 3,7 milioni di persone muoiono prematuramente a causa dell’inalazione di fumo e dell’inquinamento dell’aria al chiuso. Il 60 per cento di questi decessi avviene in Africa. Tra le altre conseguenze non mortali di queste pratiche ci sono irritazioni, malattie respiratorie croniche, ustioni, infezioni e ipertensione. Quelli maggiormente colpiti sono donne e bambini, che trascorrono più tempo vicino al fuoco.
Un metodo tradizionale
Eppure, nonostante questi rischi, molte famiglie preferiscono le modalità tradizionali di cottura. Le ragioni sono diverse. In Nigeria, ad esempio, il fuoco aperto a tre pietre (aro meta) non è solo un mezzo per cucinare, ma rappresenta anche un elemento identitario e sociale: un luogo di aggregazione, trasmissione di saperi e rispetto delle tradizioni. Inoltre, nelle aree rurali, la legna da ardere è facilmente reperibile e spesso gratuita. Il fuoco aperto si adatta a pentole di dimensioni diverse e secondo alcuni conferisce ai cibi un sapore migliore. In certe culture il fumo stesso può essere utile a tenere lontani insetti e serpenti, asciugare i raccolti e riscaldare gli ambienti, oltre a conferire agli alimenti caratteristiche aromatiche apprezzate.
È su queste pratiche radicate, non derivate soltanto da povertà o mancanza di alternative, che lavorano progetti come quelli di Fondazione Avsi, realtà del terzo settore attiva in più di 40 paesi, nel tentativo di generare impatto e guidare le comunità nella transizione verso sistemi di cucina più sostenibili.
Le iniziative di Avsi toccano sette paesi africani: Repubblica Democratica del Congo, Sierra Leone, Rwanda, Congo Brazaville, Costa d’Avorio, Burundi e Mozambico. Nel 2025 Avsi distribuirà nel continente tra 250mila e 300mila dispositivi di clean cooking, racconta Alessandro Galimberti, supervisore del settore cambiamenti climatici e clean cooking per l’organizzazione con sede a Milano.
«La maggior parte di questi strumenti sono stufe migliorate» spiega. «Significa che sono sistemi di cottura che usano ancora legna e carbone, ma che risparmiano almeno il 50 per cento del combustibile ed evitano più del 60 per cento delle emissioni nocive, riducendo praticamente a zero i rischi di intossicazioni gravi per la salute, soprattutto di donne e bambini».
La strategia
La sfida è adattare tali sistemi al contesto africano ma, assicura Galimberti, la quasi totalità di questi dispositivi sono già prodotti artigianalmente nello stesso paese in cui poi verranno consegnati. La tecnologia è pertanto quasi sempre locale e Avsi interviene solamente per renderla più efficiente e, se necessario, aumentare la produzione. Anche nei pochi casi nei quali inizialmente l’organizzazione è stata costretta a importare le stufe dall’estero, nel breve tempo ha formato artigiani del luogo.
Le stufe migliorate godono di un maggiore isolamento, trattengono il calore e riducono il fumo, rispettando le tradizioni locali. Questa scelta non è solo pragmatica, ma strategica: «Un bel vantaggio per quello che è il nostro lavoro cruciale, ossia il behavior change», spiega Galimberti, riferendosi ai piccoli cambiamenti nelle abitudini che ne possono innescare altri di positivi a cascata. Il clean cooking, secondo questa prospettiva, non cambia solo la qualità dell’aria: trasforma il focolare domestico, ridefinisce ruoli familiari e rimescola pratiche culinarie e relazioni sociali.
Al centro di questa rivoluzione ci sono le donne. La maggior parte di quelle africane cucina per due o tre ore al giorno, tempo al quale si deve aggiungere quello che dedicano alla ricerca della legna o del carbone vegetale, mentre sono esposte a potenziali pericoli, tra cui aggressioni e violenze sessuali. Questo tempo influisce sulla quantità e la qualità del cibo: se è necessario andare lontano per procurarsi i combustibili con cui accendere il fuoco, ne risente la frequenza dei pasti e probabilmente saranno privilegiati cibi più veloci da preparare, ma poveri di nutrienti.
Peraltro, la cottura tradizionale rende difficile regolare il calore e mantenere una fiamma adeguata e questo può già portare le famiglie a evitare di cucinare alimenti sensibili al calore come le verdure. Il passaggio al clean cooking ha quindi effetti concreti sulla dieta. Alcune interviste condotte tra il 2021 e il 2023 dalla Clean Cooking Alliance (Cca) con utilizzatori di fornelli evoluti hanno parlato di miglioramenti delle abitudini alimentari e nutrizionali. I vantaggi che emergono dai racconti risiedono nella possibilità di cucinare piatti più vari, più volte al giorno, perfino usando ingredienti come la carne che prima non venivano utilizzati perché troppo cari.
Il ruolo delle donne
Non dovendo passare ore davanti ai fornelli le donne possono dedicare una parte maggiore della giornata al lavoro retribuito, all’educazione dei figli o al tempo libero. «In Costa d’Avorio una volta una signora mi ha detto che il suo tempo era importante» ricorda Galimberti. «Quando usava il fuoco tradizionale era obbligata a stare a sorvegliare la pentola, mentre grazie a stufe come le nostre ora può regolare il calore, andare a seguire la messa e tornare senza che il pasto si sia bruciato». Senza fuoco aperto e fumo anche le case si riorganizzano: la cucina passa da spazio spesso esterno a un luogo interno, più pulito e ventilato e quindi sicuro.
Le donne sono il fulcro di questi cambiamenti, ma risulta essenziale coinvolgere anche gli uomini, nella maggior parte dei casi capofamiglia, che tendono a opporre resistenza. Per sensibilizzare le comunità, Avsi e altre organizzazioni ricorrono a metodi diversi: dalle gare di cucina con chef locali alle proiezioni cinematografiche, fino alle partite di calcio. «Immagina» continua l’esperto «una famiglia che usa lo stesso combustibile e la stessa tecnologia per cucinare, spendendo però la metà, perdendo meno tempo e non ammalandosi. Se l’educazione su questi temi funziona in futuro quel nucleo potrà passare a una tecnologia ancora più pulita» come può essere il gas o l’elettrico.
Questi sforzi si inseriscono in un mutamento più ampio di prospettiva. L’approccio trova oggi crescente consenso, a partire dalla Fao e da numerose reti che riconoscono sempre più il legame tra energia, alimentazione e salute. Un tempo considerato un settore «orfano», l’accesso alla cucina pulita è ora riconosciuto dalla comunità internazionale dello sviluppo. «Chi lavorava come me in questo campo fino a poco fa veniva considerato ‘l’uomo delle stufette’» ricorda Galimberti «ma in realtà si tratta di uno degli interventi oggi più efficaci per lo sviluppo umano integrato».
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