Come facesse l’anguilla europea (Anguilla anguilla) a riprodursi è stato per secoli un mistero: Aristotele la credeva “nata dal fango”, nella pancia di nessun esemplare femminile si erano mai trovate uova. La verità folle e favolosa è stata scoperta in età moderna: quando una femmina si sente sessualmente matura comincia un viaggio di oltre 6000 chilometri, dall’Adriatico o dall’Egeo al Mar dei Sargassi – nuota per anni e arrivata depone le uova per poi morire.

Le minuscole larve a forma di foglia di salice rifanno all’indietro la strada, rientrano dallo Stretto di Gibilterra, risalgono il Mediterraneo che sembrano vermicelli trasparenti e compaiono a Comacchio o ad Amvrakikos quando misurano già una ventina di centimetri, poi crescono fino a ricominciare il ciclo. Negli ultimi anni l’inquinamento e il traffico marittimo hanno portato questa specie a rischio d’estinzione, per cui si è pensato di farla riprodurre in cattività.

Si è provato a ricreare in apposite vasche le condizioni di temperatura e salinità del Mar dei Sargassi, simulando il viaggio con una turbina per confondere le idee, si è cercato di stimolare l’ovulazione bombardando di ormoni le femmine; ora un’équipe dell’Università di Bologna, sede di Cesenatico, è riuscita a mettere a punto un’alcova e una nursery artificiali in cui le femmine depongono le uova senza induzione ormonale, “risparmiandosi” (come ha detto un ricercatore) tutti i chilometri di viaggio. Resta solo da risolvere il problema di come nutrire le “cieche”, cioè gli avannotti, ma ci sono buone speranze in tempi brevi.

La cena della Vigilia mi ha suggerito un’analogia bizzarra: in fondo anche la classe media europea sta come le anguille nelle vasche di Cesenatico. Abbiamo anche noi la sensazione di vivere una vita ricca di avventure e di esperienze, mentre in realtà stiamo fermi nello stesso punto. Il desiderio di evadere sperimentando vite altrui è naturalmente antico quanto l’uomo: l’arte e la lettura ne sono stati per secoli il veicolo – Ulisse e Sindbad, Edipo e i cavalieri della Tavola Rotonda; le vetrate delle chiese, le giapponeserie, le Wunderkammern; i racconti di viaggio, i diorami, i cantastorie, per non parlare del cinema. I divi come nuovi eroi, e le saghe, la Storia e il fantasy, e i polizieschi e i feuilleton e i romanzi rosa, sognare a libri aperti.

Da consumatori a produttori

Però una cinquantina d’anni fa è accaduta una svolta epocale, non saprei dire quanto controllata e voluta (poco, credo): è stato quando i cittadini occidentali, invece che appropriarsi semplicemente di una vita fittizia, hanno avuto l’ambizione di farne parte in modo diretto – di passare, per così dire, da consumatori a produttori. Si sono voluti trasformare essi stessi nei personaggi di cui sognavano: cambiando il proprio corpo fino a renderlo improbabile, un corpo da fiction; un “essere televisivo” dapprima, poi (Adsl, fibra ottica, iPhone, overtourism) una “vita instagrammabile”, sogni di plastica fatti in serie, tanto più si vale quanto più si acquista visibilità, cioè si recita un ruolo. “Essere sé stessi” come maschera. «Ah se mia nonna fosse qui a vedermi, ora che sono arrivato che mi riconoscono per strada!».

Circola su Internet il backstage di Avatar 3 – Fuoco e cenere: più che uno sbalorditivo lavoro di trucco sembra un tutorial su come rendersi interessanti (alti, magri, blu), o l’enorme spazio dei bagni in una discoteca – tranne che gli allucinogeni lì non c’è bisogno di comprarli perché li fornisce direttamente il pianeta Pandora.

Come se tutta la realtà, a un certo punto, potesse diventare un kolossal 3D: è il grande effetto di intrattenimento (o di evasione) dell’intelligenza artificiale. Si è capito che l’intrattenimento è l’aspetto più pervasivo e autoritario dell’ideologia. L’arte non serve più se possiamo entrarci dentro, nel mondo dell’avventura e delle mille possibilità: farne parte coi sensi, illuderci che esista una “onlife” digitale, molto più divertente e tragica della piccola vita da travet che conduciamo ogni giorno. (Sto parlando, ripeto, della classe media europea, non dei disgraziati che il buttafuori in discoteca non li fa manco entrare; la distanza tra chi può condividere il paradiso digitale e chi no è forse oggi il vero discrimine).

Il demone della comodità 

A condurci dove siamo è stato il demone della comodità – che a sua volta ha prodotto un altro demone chiamato tecnologia: la credevamo al nostro servizio come il genio della lampada, finché non ci siamo accorti che è diventata il nostro padrone. È meraviglioso vivere una vita spericolata e complessa stando installati nelle nostre pacifiche abitudini; se dobbiamo sacrificare qualcosa lo facciamo così lentamente che quasi non ce ne accorgiamo, come la rana bollita di chomskyana memoria.

Il meccanismo si fa ancora più subdolo se, invece che puntare ai mondi del sogno, ci si illude di essere esperti di cronaca, o addirittura impegnati a giudicare (e a migliorare!) le cose lontane da noi. In ogni minuto possiamo aggiornarci, la cronaca è più appassionante di un romanzo; e infatti l’arte si confonde sempre più con la cronaca – una volta c’erano i romanzi-verità, i film-documento e le autofiction, ora la Ia ci offre episodi di cronaca mai accaduti, memoir e reportage credibili di fatti immaginari.

La voglia di vita intensa si sfoga nell’esercizio di coinvolgerci per procura nella Storia altrui. Alimentiamo conflitti per interposti paesi più sfortunati, concludiamo paci fittizie per conto loro, esibiamo commozioni che ci facciano sentire dalla parte giusta. Distribuiamo denaro pur di non alterare il nostro modus vivendi, magari alcune guerre le perdiamo o le impattiamo senza averle nemmeno dichiarate.

Fingiamo contrasti interni e riforme controverse, poi delusi smettiamo di giocare alla democrazia astenendoci. Magari fosse solo cattiva politica, il demone è più profondo: è un inesausto fornitore di rumori di battaglia per farci credere che non ci sottraiamo al fronte, che la tranquillità dei Sargassi ce la siamo meritata mentre è solo una turbina posta sotto il nostro divano.

Senza decisioni

Grazie alla nostra economia ci siamo “risparmiati” la durezza delle decisioni; quel che sappiamo riprodurre è solo l’acquiescenza increspata da ribellioni fugaci. Esistono, certo, gli uomini e le donne che vivono secondo uno standard di moralità più nobile, che sono disposti a giocarsi la salute e che le esperienze vanno a viverle di persona: sono gli eredi di Simone Weil, che per capire la condizione operaia si fece assumere alla catena di montaggio della Renault, o di Luce D’Eramo che non credendo ai campi di sterminio nazisti partì per verificare e finì a Dachau. Ma quanti sono? Quanti seguono l’evangelico «vendi tutto quello che hai e seguimi»?

Per quanti invece la catechesi religiosa è un vago sentimento di spiritualità e psicologia motivazionale, che fornisce consolazione ai miseri e ipocrisia ai potenti? Un amico l’altro giorno, lamentando le mille riforme fatte in senso tecnico-burocratico nelle università da governi di ogni colore per arrivare a un sostanziale immobilismo, mi faceva notare che nei curricula dei giovani non compare quasi più l’accenno ai maestri che hanno avuto. I maestri, qualche volta, segnavano sentieri poco battuti, aprivano voragini; per questo sono stati sostituiti dagli algoritmi.

I Sargassi sono minacciati da isole di rifiuti, andarci a nuoto faticosamente dall’Europa non servirebbe più a nulla. I capitoni (questo strano sostantivo maschile che designa solamente le femmine adulte, mentre i maschi non arrivano a pesare nemmeno la metà) li produrremo a Cesenatico. L’homo onlaificus si accontenterà del beato inganno dei tempi difficili e dei propri giudizi ultimativi sulla realtà, sperando in cuor suo che tutto si riduca a un videogioco tridimensionale. Gli illusionismi si moltiplicheranno, e se la realtà verrà a bussare alla porta qualcuno pagherà al posto nostro. Sopravviviamo, chissà per quanto ancora, in un’atmosfera decadente: in un testo del 1889 un personaggio di Villiers de L’Isle-Adam, a chi lo esortava ad agire rispondeva con stanca elegante alterigia «Vivere ? Ci sono i servi per questo».

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