La copertina dell’Economist contro la “sinistra illiberale” costringe a confrontarsi con un tema decisivo che concerne la natura e il funzionamento delle democrazie liberali. Nei giorni scorsi Domani ha pubblicato tre importanti interventi in merito di Giorgia Serughetti, Mattia Ferraresi e Raffaele Alberto Ventura. In particolare, Ferraresi ha richiamato la necessità di considerare come l’applicazione del concetto di liberalismo abbia ormai raggiunto un’estensione tale da richiedere precise specificazioni, necessarie per comprendere parti essenziali del mondo in cui viviamo.

Da parte mia, concordo con la necessità evidenziata da Ferraresi e mi soffermo in particolare sulla definizione di liberalismo politico proposta da Giovanni Sartori (Democrazia. Cosa è, Rizzoli, 1993), per il quale esso è soprattutto una teoria e una prassi della libertà dagli abusi, della protezione giuridica e dello stato costituzionale, pertanto una condizione fondamentale della democrazia moderna, giacché essa può concretamente instaurarsi e consolidarsi solo in presenza dell’affermazione del costituzionalismo liberale. Per questo, Sartori ricorda che «la democrazia senza liberalismo nasce morta. Vale a dire, assieme alla liberal-democrazia muore anche la democrazia comunque la si voglia intendere».

In parziale dissenso da quanto sostiene Ferraresi, seguo Sartori anche nella distinzione fra liberalismo politico e liberismo economico: «Il “liberalismo” come sistema politico fu confuso con il “liberismo” (il sistema economico della rivoluzione industriale), acquisì un’accezione più economica che politica, venne dichiarato borghese e capitalistico, e così si guadagnò anche la granitica e longeva ostilità del proletariato industriale» (Democrazia in trenta lezioni, Rizzoli, 2008). Che il liberalismo politico non coincida con il liberismo economico lo dimostra la notevole varietà di modelli socio-economici presenti nella storia delle democrazie liberali. La socialdemocrazia si è dimostrata del tutto compatibile con il liberalismo politico (mentre non si danno casi empirici di socialdemocrazia senza liberalismo politico). Nel pensiero degli stessi autori liberali vi sono importanti riflessioni critiche riguardo ai possibili rischi insiti nello sviluppo delle società moderne.

La distanza nella modernità

Tanto la riflessione filosofica di Tocqueville quanto la sua azione politica sono permeate dalla convinzione che il processo di sviluppo politico avviato dalla modernità possa condurre ad approdi tirannici a causa della progressiva tendenza della democrazia (e del mercato) ad allontanare gli uomini gli uni dagli altri, inducendoli a delegare ogni responsabilità politica a una autorità centrale. Secondo Tocqueville, la modernità implica la delegittimazione delle vecchie stratificazioni sociali in “corpi chiusi”, separati da distanze invalicabili, ma la scomparsa delle antiche gerarchie reca con sé pure l’allentamento dei legami che innervavano i vecchi corpi intermedi. Nelle società tradizionali, caratterizzate da appartenenze gerarchiche, i legami interpersonali erano “strutturanti” e sortivano l’effetto di “frenare” il potere politico.

Invece, nella società moderna, caratterizzata dalla rilevanza attribuita a manifestazioni di volontà revocabili come il contratto, i legami interpersonali tendono a essere destrutturati e a non rappresentare un efficace contrappeso al potere politico. Infatti, se ogni cittadino rifluisce nel “privato”, la sfera pubblica si impoverisce e diviene disponibile alla colonizzazione di figure dispotiche.

L’antidoto proposto da Tocqueville (una sorta di “rimedio democratico” alle aporie della democrazia) è costituito da una diffusa partecipazione associativa. I corpi intermedi attraverso cui avviene la partecipazione dei cittadini negli stati moderni sono diversi rispetto al passato: mentre nel Medioevo i corpi intermedi erano “chiusi”, o difficilmente permeabili, come le corporazioni, nella modernità essi mutano le proprie caratteristiche, rinascendo tendenzialmente “aperti”, come le associazioni. Questa tradizione di pensiero è molto fertile negli Stati Uniti e alimenta, fra molto altro, le ricerche di politologi quali Robert Putnam sul civismo e sul capitale sociale, quali elementi che “tengono insieme” le società democratiche contemporanee.

In altri termini, nella lettura di Tocqueville, il passaggio alla modernità non comporta l’ineluttabile dissolvimento dei corpi intermedi, bensì dischiude la possibilità di una loro trasformazione quantitativa e qualitativa.

Questa trasformazione è parte del più generale processo di modernizzazione: la rottura dell’unità religiosa del continente europeo a seguito della Riforma protestante ha dato origine a processi di accentramento del potere politico in virtù della formazione dello stato moderno, e, al contempo, rende possibile la formazione di una sfera pubblica fondata sull’idea che si possa manifestare pubblicamente le proprie convinzioni individualmente o unendosi con altri.

Libertà di conversione

Uno dei massimi sociologi italiani, Alessandro Pizzorno, ha identificato il principio di funzionamento della sfera pubblica moderna nella libertà di conversione, intesa quale possibilità di convertire e convertirsi, di cambiare idea e di organizzarsi per fare cambiare idea ad altri. Le posizioni critiche sulla presenza dei corpi intermedi – che periodicamente si propongono, da James Madison nei Federalist Papers del 1788 a studiosi quali Theodor Lowi – sottovalutano quanto la loro attività nella sfera pubblica si riveli decisiva per la formazione e il funzionamento della democrazia liberale, la quale, nelle parole dello stesso Pizzorno, ha necessità di poter «trasferire, per dir così, il contenuto del foro interno dell’individuo sul foro esterno; quindi di fondare gruppi e solidarietà sociali». Pertanto, il liberalismo è la teoria e la prassi che persegue al contempo la protezione individuale e la libera formazione di entità collettive.

Nella sfera pubblica si disputano due sfide decisive per la sopravvivenza della democrazia liberale. In primo luogo, prevenire l’inaridirsi della sfera pubblica e la conseguente affermazione di despoti rimanda alle concrete opportunità dei governati di prendere parte alla selezione dei governanti e al controllo sulle decisioni prese dai medesimi, ossia al tema della partecipazione e delle condizioni che la possano rendere effettiva ed efficace. A sua volta, la partecipazione rimanda all’orizzonte sempre possibile della contesa fra i partecipanti. Infatti, non tutte le interazioni sociali sono improntate alla cooperazione.

Spesso la scarsità delle risorse, materiali o immateriali, provoca conflitti. Il conflitto è una forma di interazione fra individui e gruppi che implica scontri per il controllo e l’allocazione di risorse scarse e costituisce un esito sempre possibile della partecipazione, a maggior ragione nelle democrazie, poiché la possibilità di dissenso, etico e politico, è parte integrante dell’identità del cittadino democratico.

Come regolare i conflitti?

E forse è proprio qui che si trova la questione più delicata che devono affrontare le democrazie liberali contemporanee: come stabilire regole soddisfacenti per regolare i conflitti? In un testo fondamentale degli ultimi decenni (Bowling Alone: The Collapse and Revival of American Community, Simon & Schuster, 2000), Putnam distingue fra effetti “bridging” e “bonding” del capitale sociale, a seconda del grado di apertura ed inclusione dei gruppi: gruppi tendenzialmente più aperti favoriscono una società più inclusiva. È un processo che in passato è stato svolto spesso dai partiti politici di massa che, come ha ricordato Pizzorno (La politica assoluta e altri saggi, Feltrinelli 1993), hanno mediato fra posizioni sociali molto diverse, rendendole implicitamente disponibili a trattamenti procedurali, anche grazie alle loro ambiziose costruzioni ideologiche, in grado di unire e mobilitare milioni di persone.

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