Bastava molto meno per atterrire Gadda: l’aspra rivalità fra gli editori non tarderà infatti ad alimentare, nelle lettere ad amici e parenti, un fosco epos, folto di avvoltoi che si gettano su una carogna, tigri che si contendono un capriolo, menadi che sbranano il piccolo Bacco, lupi che si accapigliano su un cadavere.

Per di più Garzanti amava compiere irruzioni nella fabbrica dei romanzi acquisiti: chiederà la soppressione delle note che nella redazione di Letteratura del Pasticciaccio orchestravano il plot «di significazioni e di motivazioni laterali» e una diminuzione del tasso di romanesco, mettendo persino in discussione gli excursus «extra-narrativi» (come l’episodio della cappelletta con i santi Pietro e Paolo): «Ma se io dovessi ora togliere dei tratti e fare sostanziali mutamenti nella stesura, verrei a mutare tutto il disegno dell’opera (…) Il mio lavoro è fatto un po’ così. Comunque mi lasci andar avanti secondo il sia pur complicato disegno: arriverò prima che se dovessi mutare» sarà l’esacerbata replica.

Ben più radicali modifiche verranno imposte a Ragazzi di vita – tanto da far dire a Pasolini in una lettera a Sereni: «Così mi trovo con delle bozze mezze morte fra le mani, da correggere e da castrare. Una vera disperazione, credo di non essermi trovato mai in un più brutto frangente letterario» – e a Primavera di bellezza, anche se Fenoglio dovrà alla fine riconoscere i meriti dell’editore: «A Lei, Dottor Livio, io debbo almeno tre monumentali grazie (…) ed un terzo infine per la cortese ed illuminata fermezza con cui, a seguito di una mia nervosa ed errata presa di posizione (ricorda?), Ella praticamente mi obbligò a rifare il libro. Il risultato ha lampantemente dimostrato che Lei aveva visto infinitamente più giusto di me».

Ma la posta in gioco era, per Gadda, troppo alta: se al «bravo e attivissimo» Garzanti, campione di «generosità pubblicistica», spettava naturalmente il compito di trasformarlo (come avrebbe detto Calvino) in uno «scrittore “da pubblico”», al «divo Giulio», più aristocratico e blasé, era assegnato l’obiettivo di dare un assetto definitivo alla produzione degli anni 1931-1944, di consacrarla – einaudizzarla, diciamo così.

Ne scaturirà, inevitabilmente, un’aspra contesa, e Gadda si ritroverà, pieno di angoscia, «tra due fuochi, anzi sotto due fuochi», tanto che sarà costretto a concedere a un sempre più inviperito Garzanti la lunga serie di volumi “obbligativi” che va dai Luigi di Francia (1964) a Novella seconda (1971). Ma si ritroverà anche, malgrado il molesto «tracas», indiscussa star della letteratura: grazie al clamoroso ambo rappresentato dal Pasticciaccio (Garzanti) e dalla Cognizione del dolore (Einaudi), coronata per di più dal Prix International de Littérature.

Gli indubbi meriti di Einaudi e Garzanti vanno tuttavia suddivisi, quanto meno in parti uguali, con chi ha non solo assistito Gadda nell’allestimento delle opere destinate a trasformarlo in «una specie di Lollobrigido, di Sofío Loren», ma svolto la delicatissima funzione di intermediario fra l’Ingegnere e i suoi rissosi editori. Penso soprattutto a Pietro Citati e Gian Carlo Roscioni, i «santamente rapaci critici-managers», secondo la definizione di Contini, i «Tucca e i Vario di una situazione ribaltata, con la sacra vittima ancor viva... creditori però tutti della nostra gratitudine di lettori». Critici-managers – «letterati editori», diremmo oggi – magari anche rapaci, ma che, nel momento in cui la guerra fra Garzanti ed Einaudi (fra l’incùdine e il martello, per usare le parole di Gadda) pareva volgere al peggio, non hanno esitato a infrangere gli ordini di scuderia e a coalizzarsi: non a caso fra il marzo e l’aprile del 1963 escono, in concertata sequenza, Accoppiamenti giudiziosi (Garzanti) e La cognizione del dolore (Einaudi).

E non a caso i due libri-Dioscuri intrecciano i loro destini anche sotto il profilo testuale: Accoppiamenti giudiziosi accoglie infatti, oltre a La mamma – che già figurava nelle Novelle –, un ulteriore frammento della Cognizione, Una visita medica, mentre la Cognizione recupera La mamma, ossia il primo capitolo della seconda parte. Come siano andate esattamente le cose ce l’ha raccontato di recente Pietro Citati: «Un bellissimo scorcio della Cognizione del dolore, già pubblicato con il titolo La mamma, apparteneva a Garzanti. Se Garzanti non ne avesse ceduto i diritti, Einaudi non avrebbe potuto pubblicare La cognizione del dolore, o soltanto un troncone sanguinante: Garzanti era seriamente tentato di non cederlo, tanto avvertiva la grandezza del libro posseduto dal rivale. Gadda – pensava – era suo. L’aveva scoperto lui (almeno per il grande pubblico): aveva speso e sofferto per farlo conoscere, e nutriva per lui una specie di oscura gelosia metafisica. Roscioni ed io tremavamo: la nostra difficile diplomazia con gli editori nemici rischiava di fallire miseramente. Cercammo un compromesso.

Ce n’era uno solo. Nell’estate del 1961, Il Giorno aveva pubblicato una parte della Cognizione: trenta pagine, che vennero intitolate Una visita medica: mai un quotidiano aveva pubblicato, in Italia, una prosa narrativa di così ampio respiro.

Gadda si rifiutò di firmarlo col suo nome: si era stufato, diceva, del suo «nome-ciabatta»; e così Una visita medica fu accompagnato sul Giorno (altra cosa inimmaginabile) dall’anagramma spagnolo del nome di Gadda: Alis Oco de Madrigal. Garzanti pubblicò le trenta pagine negli Accoppiamenti; e La cognizione del dolore fu salva, tutta intera, tra le braccia amorose di Einaudi». Ma torniamo agli anni Cinquanta.

Divenuto, nel 1956, consulente della Garzanti, Citati si trova ben presto alle prese con una situazione irta di spini. La stesura dei nuovi capitoli del Pasticciaccio sta varcando «ogni concepibile delay» (ottenuto, il 23 aprile 1955, il sospirato VI capitolo, Garzanti dovrà attendere il 15 marzo 1956, cioè quasi un anno, per ricevere il successivo), e come non bastasse Gadda ha a telaio anche la raccolta di saggi – I viaggi la morte – che ha promesso al suo «main-publisher» per risarcirlo dei privilegi accordati al rivale (I sogni e la folgore escono, non scordiamolo, da Einaudi nel 1955).

Nel febbraio il «giovane critico torinese-siculo allievo di Contini» riceve in lettura gli articoli selezionati, e in un mese ha già brillantemente districato il groviglio meritandosi sul campo l’appellativo di «solerte coadiutore»: «Mi è stato ed è di valido aiuto, anche esercitando giudizio censorio ed eliminatore, il dottor Citati Pietro... Citati ha escluso alcuni saggi che gli sembravano male orchestrati nel volume e 4 o 5 racconti brevi inediti in libro, che pure si addicono ad altra sede». (Quattro o cinque racconti, si badi bene: tanto Gadda era indifferente alle canoniche distinzioni di genere).

Né stupisce che col trascorrere del tempo la stima nei suoi confronti non abbia fatto che aumentare: alla funzione editor – o di «scrittore-editore», come avrebbe detto Garboli – si aggiunge ben presto, uscito il Pasticciaccio, quella di gaddista militante: «Citati mi ha dedicato un bellissimo saggio (di tipo critico-stilistico) sul risorto Approdo a stampa della R.A.I. Sono molto lieto che lei abbia in questo giovane serio, preparato e intelligente un suo collaboratore».

Nel giro di cinque anni l’intervento recensivo dell’Approdo, ancora marcatamente continiano (Rabelais, Dossi, Faldella forniscono le coordinate inziali), guadagnerà in profondità e autonomia, ampliandosi sino al mirabile ritratto del Male invisibile. Qui, collocato Gonzalo Pirobutirro in compagnia di Emma Bovary, Lucien de Rubempré, Stavrogin e Ulrich, Citati illumina il paradosso cui obbedisce l’esistenza di Gadda («Sebbene conosca la propria nevrosi, continua a ripeterne i movimenti coatti e ne utilizza gli angosciosi ripari. Sebbene abbia compreso le sorgenti infantili del suo male, vuole conservare, inspiegate, tutte le immaginarie o reali sofferenze dell’infanzia.

Intende assomigliare per sempre a Gonzalo Pirobutirro d’Eltino») e addita suoi affini in Swift, Sterne e Baudelaire (anch’essi «avevano registrato gli stimoli inconsci con raffinatezze e giochi quasi arbitrari, come se i loro nervi fossero solo un eccitante stilistico…»), per poi tornare, attraverso Anastomòsi – «discesa nelle viscere della creazione» analoga al rinvenimento della refurtiva Menegazzi da parte del brigadiere Pestalozzi –, al Pasticciaccio e sviluppare due temi decisivi: il moltiplicarsi delle figure narrative, che rende «macaronica» al pari dello stile la struttura del romanzo, e il sistema metaforico: cioè i modi di rappresentazione di una realtà che solo nel dettaglio abnorme svela il suo principio costruttivo.

Oltre a discutere con Gadda del Pasticciaccio e del suo impossibile séguito, a costruire insieme a lui Accoppiamenti giudiziosi, a sorvegliare (almeno sino al 1966) i volumi “obbligativi”, a parare i fulmini di «Livio non Tito» – sempre all’inseguimento di Einaudi come Feraud con D’Hubert –, il «solerte, gentile e attentissimo dottor Citati» tesse in favore del suo protetto una via via più vasta trama diplomatica: è lui, nel 1957, a trattare con il moroso Einaudi «perché levi l’ancora e rompa gli indugi»: cioè sblocchi il volume saggistico da tempo programmato e la Cognizione del dolore voluta sin dal 1952 da Vittorini («Per i nostri futuri programmi riguardo ai libri di Gadda, siamo pronti a pubblicare nei primi mesi del ’58 La cognizione del dolore nei “Coralli”. Mandaci il testo, perché noi non l’abbiamo» risponde Calvino).

È lui, nella primavera del 1959, a tutelare gli interessi di Gadda allorché Vallecchi pretende di regolarizzare la situazione contrattuale relativa alle Novelle del Ducato in fiamme (nonché di ottenere un’opzione su future opere) e a sovrintendere allo “svincolo” che renderà possibile la pubblicazione degli Accoppiamenti. È ancora lui a soccorrere Gadda nell’organizzazione di Verso la Certosa, e a recapitare personalmente a Gianni Antonini gli esemplari degli Anni e delle Meraviglie d’Italia «da cui sono estraibili i testi corretti della maggior parte dei capitoli per il volume Ricciardi».

Ed è sempre lui ad adoperarsi affinché Gadda, esasperato dal «rattoppo degli scampoli del passato» impostogli dagli editori («mentre altro e migliore e più vivo e pensato e polemico potrebbe esser tentato»), ottenga di collaborare al Giorno, filtrando poi pacatamente l’esplosivo concrescere delle proposte dell’amico («Mi dia un consiglio; o un no, al riguardo: la prego»).

E se Gadda non perde occasione per testimoniargli affetto e riconoscenza («...mi ha soccorso con vera amicizia in una crisi, che spero breve, dovuta a motivi psicologici» dice di lui a Garzanti il 20 giugno 1959), Citati gli riserva un’ammirazione veemente e combattiva: «Le confesso che sono un po’ mortificato»: confida nel maggio 1962 commentando l’esito del premio Feltrinelli: «sembra che tutte le mie nascoste o palesi macchinazioni ad maiorem Caroli Emilii Gaddi gloriam debbano andare a finire male o riuscire a metà! ... Cosa vuole, i Suoi libri sono troppo belli, intelligenti, generosi e moderni per essere capiti dagli stupidi, dai presuntuosi e dai vecchiacci rimbambiti e ammuffiti che, in Italia, fanno la critica letteraria, danno i premi e così via».

Solo in un’occasione – siamo ormai nel 1969 – coglieremo un tono insolitamente commosso: «L’ho vista una volta, per dieci minuti alla televisione, nel corso di una bellissima intervista. Lei era stanco, si capiva che era triste o appena di malumore: ma ha detto delle cose molto belle, con l’amara nobiltà di certi grandi personaggi shakespeariani, quando di colpo, per qualche rivelazione, scoprono quanto sia aggrovigliata, tenebrosa e faticosa la verità delle cose».

Si capisce dunque come mai la funzione di intermediario cui accennavo abbia finito col tempo per estendersi a tutto il mondo esterno: «Per certi aspetti mi aveva eletto suo padre (io ero infinitamente più giovane di lui)»; ricorda Citati «mi chiedeva consiglio per tutte le cose della vita: le tasse, la domestica, il cibo, l’editore, il rapporto con gli scrittori e tutti gli esseri umani. Di Gadda mi occupai molto».

E come mai su Citati facesse affidamento chiunque volesse ottenere qualcosa da Gadda: «In questa situazione credo che l’unica sia organizzare quell’incontro fra Niccolò Gallo e Citati al quale accenni» scrive Eric Linder ad Alberto Mondadori che da tempo cercava di riproporre nella collana semieconomica Il Bosco I sogni e la folgore «visto che soltanto Citati può, a quanto pare, influire sulle decisioni di Gadda stesso».

Un’intesa schietta, un sodalizio senza incrinature, che ha prodotto uno scambio epistolare di eccezionale rilievo, necessario prolungamento estivo (soprattutto per Gadda, sempre prigioniero del caldo afoso e della casa-forno) delle quotidiane conversazioni. Rassicurato dalla dedizione e dal costante impegno in suo favore dell’amico («La ringrazio col cuore di tutto quanto Lei ha pastettato pro domo mea» gli dice nell’ottobre del 1957), stimolato dai suoi interessi e dalla sua attività di critico, più libero di esprimersi di quanto non gli accada ad esempio con Contini, Gadda rompe gli argini, si abbandona a splendide lettere “esorbitanti” – «colpi di spillo epistolari» per usare le sue parole –, di volta in volta irresistibili “bizze”, nobili poèmes en prose, eccentrici saggi: come questa bellissima postilla all’articolo Manzoni diviso in tre dal bisturi di Moravia, inedito documento di quella radicale «gaddizzazione di Manzoni» (Contini) avviata negli anni Venti con l’Apologia manzoniana:

L’ho riscritto tre volte, per abbreviarlo da 16 a 12 a 8 cartelle, sia per attenuare i miei giudizî sui giudizî di Moravia, un po’ «montati a freddo», questi, nel loro disceverativo e rigido sistematismo antilombardo, antiborghese, antivattelapèsca. Quanti aggettivi «spiacevoli», tolti dalla terminologia letteraria di 100 anni dopo! Per insevire contro il “signore”, contro l’imbelle, contro il non finito allo Spielberg! contro un’opera d’arte a cui ci si abbandona con la semplice (e profonda) gioia di chi si disseta in montagna a una fonte d’acqua chiara. Al diavolo il realismo cattolico! Si tratta di una realtà biologica e storica di rapporti e di fatti, e il catt.mo non è che uno spruzzo di cannella sulla panna frullata.

Ho letto 10 volte i P.S. da ragazzo, fra i 9 e i 16: e sempre mi hanno incantato, pagina per pagina, a cominciare dalla Introduzione parodistica e insino alla morale (ambigua) della chiusura: e i preti-frati-monache-Cardinale non mi hanno mai turbato i sonni, come li turbano a Moravia, si direbbe. La scelta del sec. XVII non è dovuta a intento propagandistico, ma al fascino di quel tempo tridentino-spagnolesco-innominatesco-lombardesco: (che ha prodotto, fra l’altro, il Caravaggio!): il Tadino, il Ripamonti canónico, Ludovico Settàla, don Ferrante, Ambrogio Spìnola fesso e tant’altri non sono frati-preti: e il padre di Gertrude nemmeno, e il dottor Azzècca e il castellano di Lecco nemmeno! Anche la grana dell’Innominato (insufficienza nel motivarlo, secondo M.) è una grana di lana caprina. Ci farei su un articolo (sensatissimo): “sulla necessaria tecnica del «racconto e del dramma che si sviluppa» in subordine alla percezione di un personaggio supporto [Lucìa]”. Ne parleremo, se sarà possibile ...

Legga molto attentamente i Promessi. Ricordi: Spagna, Lombardi, concatenazione di fatti co-necessarî, peste lanzi Tadino… Adda, confine di stato… Innominato è “bbarone” montano, forse un Visconti semi-esule, ai confini dello stato spagnolo-lombardo, sui monti… sfugge in parte all’autorità centrale spagnola (Milano)… «tra Signoria si vive e stato franco…». Gli uomini e le donne agiscono e pensano meravigliosamente… con la sanità profonda di un biologismo e di istinti e istanze biologiche:… certo, sommesse a una fede, a una oscura metafisica… che “per combinazione” si rapprende nella cattolica… Le parole di Agnese, Perpetua, i fatti (difesa personale e generosa avventatezza e umano rispetto dell’autorità, di Ferrer) di Renzo sono fatti biologici stupendamente avvertiti: la cattolica non c’entra… Il Manzoni era un signore, malato di nervi, un po’ fissato sulla cioccolata… come conservatore ha fatto meno soldi di Moravia e Pasolini e Germi e Fellini… la pensione di 12.000 annue, e la nomina a senatore del Regno dopo l’annessione del ’59-’60, glie l’ha data e glie l’ha conferita un certo omarino che dopotutto era il conte Camillo Benso di Cavour, fratello del marchese Gastone, e zio del giovanetto (19 anni) volontario, Augusto di Cavour, morto atrocemente a Góito il 30 marzo 1848, dissanguato sul terreno…

A simili lettere impagabilmente “barocche” fa da controcanto un tono premuroso, lieve, complice, ironico, “pedagogico”, giacché Citati aveva compreso meglio di chiunque altro come parlare a chi celava in sé «una ferita sempre aperta»: «La soluzione migliore sarebbe che Lei venisse insieme a Roscioni sabato 28 maggio. Roscioni resterebbe qui fino al lunedì; mentre Lei rimarrebbe ancora diversi giorni. Penserò poi io a riportarLa alla stazione di Grosseto ... Se Roscioni non potesse venire – ma penso di sì – Lei potrebbe venire egualmente il 28 o il 29, col treno. Non tema: solo Roscioni sa che Lei deve venire qui. Non La tradisco!» gli scrive il 16 maggio 1966 nell’intento di placare le fobie dell’amico; e il 26 giugno: «Avevamo sperato di averla qui, nonostante la sua “pessima scrittura”, nonostante il “pandemonio deflagrato” sul Suo nome, nonostante le “ricorrenti e gravi crisi dentarie” – non invento, cito dal Gadda –; ma Giancarlo Roscioni ci ha detto che lei era sopraffatto da idraulici e artigiani per casa. Non abbiamo perduto tutte le speranze: in luglio, agosto, settembre, forse ottobre – durante i quali spero di essere “disturbato” dalle Sue lettere – restiamo qui; e quando sarà meno caldo, forse potrà muoversi da Roma».

«Gadda ho continuato a vederlo sempre. Con lui facevo come con i ragazzi dell’Avviamento: gli raccontavo storie». E Citati continuerà a raccontargliene sino alla fine: «Mi chiedeva di leggergli I promessi sposi (glieli leggevamo Ludovica Ripa di Meana, Giancarlo Roscioni e io). Il giorno prima della morte gli lessi il capitolo della sorpresa notturna, quando Renzo e Lucia vanno a farsi sposare, dove c’è quella scena straordinaria di comicità e di avventure: mi ricordo che Gadda moribondo rideva con le sue risate sussultorie... È stato l’unico grande uomo che ho conosciuto nella mia vita, come profondità tragica di esperienza e di spirito».

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