Giulio Lilla si guarda attorno e sente il vuoto di fuori espandersi dentro di sé. Intanto le lacrime spingono, il cuore batte forte, le gambe si fanno molli.

La sua stanzetta, quella con i pupazzi ben ammonticchiati in un angolo e la cesta dei giochi che strabordava e il letto con su il piumone di Toy Story, è un deserto. Resta solo la carta da parati degli astronauti, a cui dava dei nomi nelle notti in cui non riusciva a prender sonno perché il buio lo spaventava. Vorrebbe portarsi anche quella, strapparla dal muro e infilarla con le sue cose negli scatoloni in soggiorno, ma la mamma gli ha detto che non si può e che ne compreranno una uguale per la cameretta nuova e che lasciandola lì, la sua carta da parati degli astronauti, faranno felice il bimbo che ci verrà a stare.

Tutte queste cose gliele ha dette dieci minuti fa, e da allora Giulio non è uscito dalla stanza e non ha aperto bocca. Fermo nella camera da letto, fissa gli astronauti uno a uno come per dire loro addio e ringraziarli di avergli fatto compagnia quando il buio voleva divorarlo. E loro, scrutandolo di rimando, paiono dire che no, non può abbandonarli lì: loro non ci vogliono stare con il bimbo nuovo che verrà ad abitare l’appartamento.

E se c’imbratta coi pennarelli? E se ci copre coi quadri? Chiedono gli astronauti. E Giulio sente qualcosa, un liquido bollente, salire dallo stomaco e infiammargli il petto.

Esce dalla stanza, va in soggiorno e si piazza al centro, tra i genitori.

Papà sta trasportando certi scatoloni dalla cucina, l’impila con gli altri che occupano quasi tutto lo spazio. Mamma, accucciata davanti al divano, ne sta riempendo uno con le statuine di porcellana che popolavano la vetrinetta. Dentro gli scatoloni ci sono gli averi dei Lilla: i libri di mamma, gli attrezzi di papà, i giochi di Giulio. Domani i cattivi della ditta di traslochi verranno a prenderli per infilarli nei camion e portarli nella casa nuova.

Li guarda per un istante, scatoloni e genitori, poi prende a strillare.

Con tutta l’aria che ha in corpo, strepita e batte i piedi e mena i pugni, colpendosi le gambe magre. Lui dalla sua casa non vuol andarsene, urla. Non gliene frega niente, del nuovo lavoro di mamma – ragione del trasferimento. Niente della nuova casa – non l’ha neanche vista, ma già gli fa schifo. Niente della nuova città – che dai racconti dei suoi sembra brutta. E loro non possono costringerlo: ha nove anni ed è un adulto, come dicono sempre loro.

Finito il teatrino, con il petto che fa su e giù e le lacrime che premono fortissimo, si ammutolisce e aspetta che uno dei genitori dica qualcosa. E però non parla nessuno. I suoi, zitti, lo ignorano e continuano a spostare e riempire le loro cavolo di scatole.

Ed eccole, le lacrime.

Si butta per terra, si rannicchia in un angolo del soggiorno e comincia a frignare, scavandosi la faccia con i pugnetti chiusi e scalciando l’aria. Allora sente le mani di mamma issarlo su dal pavimento e deporlo con dolcezza nella vecchia poltrona dello studio. La sente accoccolarsi accanto a lui e carezzarlo sulla testa, delicata. E la sente sussurrargli di calmarsi, che è tutto okay.

Poi, niente.

Si sveglia che il soggiorno è desolato, in penombra e tutto immerso in un silenzio che sembra avere corpo. Attorno a sé, Giulio ha la sensazione che l’aria sia pregna di un senso di fine delle cose che non gli piace per niente.

Si tira su dalla poltrona, si stropiccia gli occhi, scrostandosi le cispe, e va in cucina per bere un po’ d’acqua. Papà sta cucinando, in padella sfrigola il suo famoso pollo con le verdurine e la soia. Mamma, il telefono tra la spalla e l’orecchio, parla con qualcuno fumando una sigaretta.

«Hai fame?» lo accoglie papà «Cinque minuti ed è pronto».

Giulio, senza dire niente, prende posto a tavola.

Ha ancora il cuore che galoppa e molta voglia di prendere il martello dalla cassetta degli attrezzi di papà per rompere qualcosa, qualsiasi cosa. Ma sente anche come l’istinto di correre dai genitori e abbracciarli: odia litigare con loro. Tutte le volte che succede, poi, si sente come quando ha indosso una delle magliette di quando era più piccolo che ormai gli vanno strette e lo fanno stare scomodo. ‘Stavolta, però, non ce la fa proprio, ad abbracciarli. A stento è capace di guardarli, i genitori, senza ricominciare a urlare.

La sua casetta. Lo stanno costringendo a lasciare la sua casetta.

Li odio. Li odio. Li odio.

«Era la mamma di Claudia», fa la mamma, spegnendo la sigaretta nel portacenere e infilandosi il cellulare in tasca «Ha detto che se ti va, dopo cena, puoi salire da loro e stare un po’ con Claudia, così la saluti prima di partire».

«Non mi va» risponde Giulio, se le dico addio il trasferimento diventa una cosa vera, pensa.

«Oh, eddai», s’intromette papà, «Dovrai pur salutarla, no? È o non è la tua fidanzata?», chiede ma non pare una domanda e Giulio crede di aver sentito un sorriso nel suo tono.

Claudia è la sua fidanzata, certo. E lei è una delle ragioni più grandi per cui non vuole andar via. Non può mollarla lì, lei ha bisogno di lui, davvero bisogno. Solo che ai suoi genitori non può spiegarlo, il motivo: le ha promesso che non l’avrebbe raccontato a nessuno, quello che le succede.

«Va bene, dopo ci vado», decide lui, «Ma lo faccio perché non ci voglio stare, qui con voi. Okay?»

«Okay», conclude papà; e Giulio sente di nuovo il sorriso nelle parole.

Mangiano, è la loro ultima cena. Le luci della cucina sono tutte accese, ma a Giulio sembra ci sia buio. Le voci dei suoi vengono da lontanissimo.

Mamma e papà parlano di alcune cose che dovranno comprare per la casa futura, poi del nuovo lavoro di lei, poi di altro che Giulio preferisce non sentire. Si concentra sul famoso pollo di papà con le verdurine e la soia, a lui di solito piace moltissimo, è morbido e saporito, ma ‘stasera pare cartone duro e stopposo. Finisce lo stesso prima di tutti; mamma dice sempre che suo figlio mangia come un leone che non vede cibo da giorni. Mette il piatto sporco sul piano della cucina, s’infila le scarpe e dice ai suoi che va dai Rossi.

Quindi esce dall’appartamento. Prende le scale, fa due piani, pigia sul bottone del campanello. Qualche secondo e la signora Rossi apre la porta e lo fa entrare, accogliendolo con un bel sorriso e un’arruffata di capelli.

«Pronto per domani? Contento di avere una bella casa nuova?»

«Signora, posso venire a vivere qui con voi?» risponde Giulio «Posso dormire nella stanza con Claudia, prometto di non sporcare e di lavare sempre i piatti dove mangio e di farmi la doccia con il bagnoschiuma tutte le sere», si ferma un attimo e riflette, «Posso pure rifarmi il letto la mattina. Non sono poi tanto bravo, ma imparo veloce».

Quella se la ride di gusto e gli dice che Claudia è nella sua stanza.

Lui sbuffa e percorre il corridoio.

A Giulio Claudia sembra sempre un fiore, tipo una margherita, o forse un girasole. Profuma di buono, ha i capelli pettinati a tutte le ore del giorno e quando cammina lo fa come se in realtà fluttuasse. E poi è bella, secondo lui. Quando sorride, Giulio sente la pancia sciogliersi. Come quando mamma gli mette la borsa dell’acqua calda nel letto.

Ecco, Claudia, dacché possa ricordare, è la sua borsa dell’acqua calda.

Adesso è seduta sul suo letto, con le gambe incrociate e la tivù accesa – ci sono i Pokémon. Giulio entra e, senza parlare, le si va a piazzare accanto.

«Ciao», lo saluta, poi «Che hai?»

Lui scrolla le spalle e dà un pugnetto al piumone delle Winx.

«Sei arrabbiato?»

Annuisce.

«È perché domani cambiate casa?»

Annuisce per la seconda volta.

«Mhmm. Una scocciatura, mi sa».

Annuisce per la terza volta.

«Vuoi giocare a Monopoli?»

Qualche secondo di silenzio, poi «Io non me ne voglio andare!» sbotta Giulio «E non mi possono far fare una cosa che non voglio. Loro non possono farmi... loro... perché devono costringermi? Perché?» e dà un altro pugnetto al piumone. Poi poggia il mento sulle mani e tira giù lo sguardo.

Claudia sospira forte «Sono i tuoi genitori».

«E che significa?»

«Buh, chessò. Dobbiamo fare come dicono loro, mi sa. No?»

«Ma a me mi piace questa casa, questa città, questa...» si blocca, pensa che sta per piangere di nuovo ma non gli va, di frignare davanti a Claudia.

«Senti», riprende lei «so che è uno schifo, ma ci sono delle cose che si devono fare per forza. Tipo...» alza gli occhi al soffitto, puntellato di farfalle che svolazzano ovunque, e ci pensa su un attimo «tipo il dentista!» squilla poi, allargando le braccia come avesse avuto chissà che idea «A me andare da quel cretino di dentista fa proprio schifo, no? Cioè, mi fa male e fa sempre la spia quando mi mangio troppe Rossana».

«Che sono le Rossana?» chiede Giulio.

Claudia infila una mano sotto al materasso, rovista un po’ e ne pesca una caramellina rossa. La porge a Giulio e lui la scarta e se la infila in bocca.

«Insomma, a me andare dal dentista non mi piace per nulla. Epperò lo so che ci devo andare per il mio bene. Ti ricordi la scorsa estate, quando avevo quel dente marcio che mi faceva un male cane? Me l’ha fatto passare, lui, no? E quindi, sai, pure se non mi piace andarci so che mi fa bene e lo faccio».

«Stai dicendo che trasferirmi nell’altra città mi fa bene?»

Lei fa un’alzatina di spalle e spalanca gli occhi «E che ne devo sapere io, scusa? Però i tuoi genitori lo sapranno di sicuro. E se dicono che trasferirti è una cosa buona, è una cosa buona. Capito che dico?»

«Mhmm», fa lui «Solo che non mi va».

«Mia nonna Maria dice che una diventa grande quando inizia a fare le cose che deve e non quelle che vuole».

«Crescere è una schifezza». commenta Giulio.

«Puoi giurarci».

E ridono tutt’e due.

«Ci guardiamo i Pokémon?» chiede lui.

Si sistemano meglio sul letto, poggiando la testa e la schiena contro la parete. Spengono le luci, sia quella aggrappata al soffitto sia pure l’abat-jour che proietta le stelline. E si tirano addosso il piumone, imbustandosi ben bene. Claudia piglia una manciata di Rossana e, con i Pokémon, le sgranocchiano. Vicini, spalle che si toccano e gambe intrecciate nel calduccio delle coperte.

Giulio ora sta bene. Del trasferimento si è quasi dimenticato, pare il racconto triste di qualcun altro. E potesse esprimere un desiderio chiederebbe che quel momento non finisse mai. Vorrebbe stare così, lì sotto il piumone di Claudia, fino alla fine dei suoi giorni. Ma qualcosa gli dice che per certi versi sarà così. Che in quella stanzetta rosa, in fondo, ci vivrà per sempre. Come se un pezzetto di sé continuerà ad abitare sotto le farfalline di quel soffitto, e con Claudia al suo fianco e il tepore dell’infanzia tutt’attorno.

«Posso farti una domanda?» dice Giulio.

«Mhmm».

«Possiamo essere ancora fidanzati pure se domani parto?» chiede «Ti chiamo tutti i giorni e dico ai miei genitori che voglio che mi accompagnano tutte le domeniche qui da te».

Lei si gira, scollando lo sguardo dai Pokémon, e lo fissa «Ma certo che siamo ancora fidanzati. Noi ci sposiamo, da grandi, no? Lo abbiamo deciso».

È vero, l’hanno deciso mesi fa.

Lui, senza volerlo, sorride tantissimo. Vorrebbe agitare le gambe, fare su e giù come un cane che scodinzola, ma si trattiene.

«Te la posso chiedere io una cosa, adesso?» fa Claudia.

Giulio annuisce.

«Visto che...» si ferma, si porta un ditino alla bocca e se lo mordicchia »visto che non ci sarai più, che sarai nell’altra città. E visto che non ci potremo vedere tanto spesso», si ferma, mastica le parole e una pellicina «Visto questo, ti posso... ti posso chiamare quando... quando succede? Sì, ti posso chiamare quando succede?»

Giulio capisce subito a cosa si riferisce, ma si sente come paralizzato e si piglia qualche secondo per rispondere. Quando sta per aprire la bocca per parlare, lei ha ricominciato.

«È che quando succede e poi parlo con te mi sento meglio, tipo. Lo so, che non potremo vederci e che... buh, sarà diverso, forse. Però, sai, se stiamo al telefono quando succede, cioè dopo che succede... sai, poi forse sto meglio come se siamo assieme per davvero, mi sa».

Lui la fissa per qualche secondo, poi le dice di sì, certo: può chiamargli sempre, soprattutto quando succede che suo papà le ordini di fargli i massaggi sulle cosce e sul pesce – che a Claudia non piacciono proprio per niente perché le fanno venire da vomitare e poi le fanno fare gli incubi.

«Grazie», dice lei.

«I genitori fanno schifo», conclude lui.

«Promettiamo che non ci diventiamo mai, come loro. Adulti brutti».

Intrecciano i mignoli e fanno ondeggiare le manine.

Giulio le sorride, Claudia gli sorride in risposta, e tornano ai Pokémon.

Finiscono un episodio intero, quindi ne guardano un altro, poi un altro ancora. Intanto le carte vuote delle Rossana scricchiolano sotto i loro corpi e il piumone li tiene al calduccio e il mondo di fuori, fatto di genitori e scatoloni e trasferimenti e separazioni e massaggi alle cosce, si allontana sempre di più.

«Senti...» fa Giulio «ma secondo te ci dobbiamo dare un bacio?»

«Che intendi?»

Sperava che lei non glielo chiedesse, il significato della sua domanda, sperava che ci arrivasse da sola, che non dovesse usare altre parole, ma adesso si ritrova a setacciare dentro la sua testa stanca in cerca di una frase che abbia senso. Nel frattempo, il cuore ha preso battere molto veloce, ma in modo bello ora, non come prima, quando stava urlando in casa con i suoi genitori. E pensa che vorrebbe che il suo cuore battesse sempre al ritmo delle parole di Claudia, proprio come adesso.

«Be’, sì», riprende lui «visto che siamo ancora fidanzati e che abbiamo già deciso che ci sposiamo e che quelli che si sposano si baciano lì nella bocca come fanno i genitori, forse...»

«Preferisco di no», lo ferma lei «Almeno questa cosa lasciamola così com’è. Non dobbiamo cambiare tutto così in fretta, di tempo ce n’è tanto, tipo un sacco, e le cose degli adulti le possiamo fare poi».

Si accoccolano un po’ di più sotto il piumone e tornano ai cartoni.

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