Giorgia Meloni ha scelto l’intervista all’emittente americana Fox News per esprimere il suo orgoglio di prima donna che può ambire a guidare un governo in Italia. Nel dibattito che accompagna la campagna elettorale, comunque, questa eventualità non sarebbe passata inosservata.

In settantasei anni di storia repubblicana, nessuna donna ha mai assunto il ruolo di presidente del Consiglio – né, tra l’altro, quello di presidente della Repubblica o di ministro dell’Economia. E i numeri raccontano, nel complesso, il ritardo sull’obiettivo dell’equilibrio di genere nella rappresentanza: le donne restano una minoranza nelle assemblee locali e nazionali; è donna solo una presidente di Regione su venti, e sono sette le sindache su centosei comuni capoluoghi di provincia.

L’elefante nella stanza

Per questo, da decenni, il problema della metà della popolazione sottorappresentata e quello, per molti versi collegato, della leadership femminile, anima discussioni e iniziative nel mondo associativo delle donne e femminista.

Come va trattata, allora, la storia di successo dell’unica donna che si avvicina all’obiettivo del governo, guidando un partito dominato da figure maschili, contro cui nel libro Io sono Giorgia rivendica la sua capacità di competere?

Da destra si levano cori, tra la provocazione e il motteggio: dove sono le femministe, ora che una donna sembra poter infrangere il soffitto di cristallo dei vertici istituzionali?

Non mancano in realtà, neanche in questa circostanza, gli appelli delle organizzazioni che lottano per la parità di genere, affinché sia garantito equilibrio nelle candidature di tutti i partiti. Ma resta l’elefante nella stanza: la prima donna a capo di un esecutivo, in Italia, potrebbe essere lei, la leader della destra radicale, “madre”, “italiana” e “cristiana”, che con i movimenti delle donne non ha nulla da spartire.

Nell’opinione pubblica progressista e nei mondi femministi e Lgbt si moltiplicano, anzi, le analisi e grida allarmate per il programma regressivo di Fratelli d’Italia e alleati in tema genere e sessualità, in particolare per le idee relative all’aborto, alla difesa della famiglia “naturale”, alla lotta contro le visioni trasformative delle strutture di potere derubricate sotto l’etichetta di “ideologia gender”.

Siamo di fronte a una contraddizione? A una impasse teorica e politica? Alla prova definitiva dell’ipocrisia della sinistra?

In realtà, la situazione può apparire contraddittoria, e la contraddizione addirittura insolubile, solo a chi fa dell’appartenenza di genere la condizione necessaria, ma anche sufficiente, per garantire una trasformazione delle forme, dei linguaggi e dei contenuti della politica. O a chi ritiene che le battaglie del femminismo per la trasformazione delle relazioni pubbliche e private tra i generi possano andare disgiunte dalle critiche del razzismo, del classismo, dell’omofobia e di ogni altra forma di dominazione sociale.

Il dilemma

Provo ad analizzare tre questioni ricorrenti, che sfidano – ma solo in apparenza – la logica del discorso e della politica femminista. La prima riguarda, appunto, il dilemma della rappresentanza: il paradosso per cui a beneficiare della spinta per rompere il predominio maschile in politica possono essere donne indifferenti o ostili all’agenda dei diritti delle donne.

Il punto è che il concetto di rappresentanza è complesso e rimanda a diversi significati. Rappresentare è “stare per”, in una visione descrittiva che enfatizza la corrispondenza e somiglianza tra rappresentante e rappresentato. Ma è anche “agire per”, se l’attenzione si concentra sull’attività del rappresentante.

Nella seconda prospettiva, dove viene in primo piano la dimensione sostanziale dei bisogni, delle domande, degli interessi, la capacità di rappresentare non risiede nel riflettere tratti comuni, ma nel perseguire attivamente alcuni obiettivi.

Se quindi l’eventuale successo di Giorgia Meloni può segnare un passo nella direzione di una maggiore presenza di donne ai vertici delle istituzioni, ciò non garantisce in alcun modo un avanzamento nella risposta alle domande delle donne; in particolare, a quelle che trovano espressione nel lessico femminista della liberazione dal patriarcato.

Se allora si provano a distinguere e articolare i diversi aspetti del problema, la resistenza a trasformare la candidatura della leader di Fratelli d’Italia in una bandiera di genere non appare affatto contraddittoria, ma al contrario del tutto ragionevole.

Altri diritti

La seconda questione che spesso emerge, di fronte alle posizioni politiche di donne leader della destra radicale, è il rapporto tra diritti delle donne e altre categorie di diritti, o l’intersezione tra il genere e altre dimensioni di discriminazione.

Perché Giorgia Meloni, come Marine Le Pen in Francia, non manca di sottolineare la sua attenzione ad alcuni problemi effettivi che riguardano vaste porzioni della popolazione femminile: dalla scarsa occupazione al problema degli asili nido, dai congedi parentali alla violenza.

Il punto è che le soluzioni prospettate rispondono ad una logica non universalistica, perché si accompagnano a una visione della famiglia “naturale” e del popolo “nativo” da cui sono escluse importanti fasce della popolazione residente, come quella dei non cittadini o delle unioni tra persone dello stesso sesso. La bandiera dei diritti delle donne è per lo più agitata contro presunti “nemici”: il pericolo dello straniero e dell’“islamizzazione” dell’Europa, o l’ideologia “gender” che minaccia di “cancellare” le madri.

È chiaro che il femminismo di questo tempo, sempre più sensibile ai rapporti complessi che legano il sessismo, il razzismo, l’omotransfobia, il classismo, non può ignorare i risvolti discriminatori e anti egualitari di una simile agenda, anche quando questa fa proprie alcune grandi questioni di giustizia di genere che la stessa politica delle donne ha lavorato a far emergere e ad imporre all’attenzione pubblica.

Donne a destra

La terza questione – o il terzo elefante nella stanza – è l’apparente paradosso per cui le donne sembrano avere più chance di affermarsi in politica a destra che a sinistra. In queste elezioni, mentre le discussioni e le alleanze nel campo del centrosinistra hanno visto un protagonismo quasi esclusivamente maschile, a destra è una donna a dare le carte. Ma il tema non riguarda solo l’Italia.

Alcuni mesi fa, l’occasione per una nuova riflessione sul tema è venuta dall’elezione di Roberta Metsola alla presidenza del Parlamento europeo, seguita a quella di Ursula von der Leyen alla Commissione Ue. Entrambe esponenti di partiti conservatori, come (pur con tutte le differenze che le distinguono) alcune delle più importanti leader politiche di paesi europei, da Margaret Thatcher a Angela Merkel. Senza dimenticare l’ultradestra di Marine Le Pen e – appunto – Giorgia Meloni.

Le interpretazioni di questo fenomeno spesso richiamano la superiorità del modello competitivo abbracciato da leader cresciute negli ambienti politici di destra, rispetto a quello cooperativo più caratteristico delle culture di sinistra. In realtà, soprattutto per le generazioni più giovani, l’attitudine alla competizione, in politica o altrove, è un tratto piuttosto trasversale.

Ciò che invece può spiegare le differenti chance di successo per le donne nei due campi è proprio la misura di distanza o vicinanza dall’agenda femminista. In un tempo in cui la cultura dei diritti e dell’uguaglianza di genere è lungi dall’essersi consolidata, e in tutto il mondo spira forte un vento avverso, la conquista dei ruoli apicali avviene non a dispetto della distanza dai movimenti delle donne, ma proprio in forza di questa lontananza. Una posizione che ne favorisce il profilo rassicurante per un elettorato conservatore.

Ecco perché può prodursi, senza contraddizione, un conflitto tra il protagonismo di singole donne in politica e i movimenti delle donne per i diritti sessuali e riproduttivi, per la parità in tutti i campi e la libertà dalla cultura sessista. E i secondi possono osteggiare apertamente l’ascesa delle prime. Salvo trovarsi, presto o tardi, a doverle difendere dal feroce sessismo del mondo politico, della società e dei media – ovvero da quella radice profonda della subordinazione femminile che le leader di destra rifiutano di vedere.  

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