Come è noto, da quasi vent’anni ogni 10 febbraio si celebra ufficialmente il Giorno del Ricordo, in memoria delle vittime delle foibe. È anche l’occasione per ricordare e rendere omaggio agli esuli giulianodalmati che, alla fine della Seconda guerra mondiale, hanno abbandonato le loro terre, annesse alla Jugoslavia di Tito, e, in generale, per approfondire la conoscenza delle tensioni e delle dinamiche sociali e politiche che hanno drammaticamente segnato quel periodo, ancor oggi rimasto oscuro alla maggioranza degli italiani.

Però si ha l’impressione che buona parte dei cittadini viva quella giornata con un certo distacco, o addirittura con diffidenza, a causa delle interpretazioni ideologiche o delle strumentalizzazioni politiche, di cui appunto il Giorno del Ricordo spesso è stato oggetto. Intendo dire che la lettura storica in passato o è stata “rimossa” come scomoda, o “modellata” in chiave nazionalistica, con implicito atteggiamento assolutorio nei confronti del fascismo, come se la responsabilità primaria della guerra, con tutte le sue tragiche conseguenze, non fosse attribuibile al nazifascismo.

Memoria condivisa

Eppure nel territorio italiano ci sono esperienze meritorie, che hanno permesso una celebrazione partecipata e condivisa, che al contrario dei precedenti esempi hanno visto la partecipazione di un ampia tipologia di persone e di rispettive posizioni politiche. Quello di cui vorrei parlare oggi è il monumento alla memoria delle vittime del confine orientale di Rimini ideato dall’artista di origine fiumana Vittorio D’Augusta, intitolato Biblioteca di Pietra.

In questo caso l’arte contemporanea e la sensibilità dell’artista hanno lavorato con grande capacità restituendo un’opera che corrisponde, senza retorica, polemica e distorsioni politiche, agli orientamenti che ispirano la giornata del Ricordo.

Nella targa posta su un leggio musicale troviamo inciso: «Questa scogliera come biblioteca di pietra, questi massi di pietra come libri, il comune di Rimini dedica agli esuli istriani, fiumani, dalmati e alle vittime dei conflitti di confine e delle foibe ultima tragedia dell’alto Adriatico, area plurale di lingue, tradizioni, genti diverse, sconvolta in passato da nazionalismi e scontri ideologici tornata oggi cuore d’Europa e mosaico di culture». Questa frase insieme al luogo scelto come sede di questa installazione instradano il senso culturale e politico di questo monumento, infatti la scelta dell’artista è caduta sulla diga frangiflutti posta all’ingresso del porto canale della città, quindi in mezzo al mare Adriatico.

Un mare non divide più ma unisce e accomuna i suoi popoli, che come sostiene l’autore «per differenti vicende, hanno assai duramente subito la tragedia della guerra: sono le genti dell’alto Adriatico, istriane e dalmate, slovene, croate in passato contrapposte, e coinvolte negli stessi drammatici conflitti di confine».

Scrittori che uniscono

Due elementi che marcano un cambio di passo interpretativo e quindi il rapporto con la storia di quei popoli che vi è sotteso, un indirizzo già presente nel lavoro della commissione storico culturale italoslovena (sfortunatamente quella italocroata non si è mai riunita), ma che purtroppo sono rimasti sconosciuti ai più per l’avanzare di tesi revansciste tese a rivendicare letture parziali di quella storie e di quei rapporti. I grandi blocchi che costituiscono la diga diventano giganteschi libri, dei “volumi di pietra” che costituiscono e danno forma a questa biblioteca di pietra in mezzo del mare.

Su quegli scogli trasformanti in tomi sono stati apposti 30 nomi di autori dei tre paesi confinanti e dei rispettivi libri che ci parlano e descrivono quelle terre, non solo di storici, ma soprattutto di romanzieri, poeti e scrittori, letterati che attraverso le loro composizioni hanno descritto quei popoli e le loro vicende. Tra questi autori citiamo: Magris, Slataper, Svevo, Madieri, Milani, Mori, Kravos, Saba, Tomizza e tanti altri che hanno arricchito questa letteratura di confine.

Un invito alla conoscenza, un incitamento a lasciare il proprio punto di vista singolare per abbracciarne uno plurale, definito dal maestro riminese «un salutare vento di mare contro eventuali residui di opposte ideologie che porti a guardare a quei luoghi come patrimonio culturale comune, per un futuro europeo di concordia, pur non dimenticando, anzi ricercando, le scabrose verità del passato».

Una riflessione molto simile all’atteggiamento messo in pratica dalla senatrice Liliana Segre, non dimenticare ma non odiare, l’unico modo per far emergere una nuova dimensione di riconciliazione reale e non contaminata da esterne e attuali volontà politiche. Questa biblioteca monumento diventa una forma di land art: il luogo, il paesaggio naturale e antropologico (il porto da sempre antico luogo di scambio di persone quindi idee) diventano parte significativa e costituente del monumento stesso. Proprio questi elementi, fondamentalmente immateriali, sono però portatori di quelle innovazioni concettuali precedentemente descritte hanno anche il potere di tutta la “monumentalità” dell’opera e con essa la sua retorica.

L’artista in tutto ciò non dimentica anche che Rimini è la città felliniana per antonomasia, per questo si pone anche il dilemma su quale potesse essere il giudizio su un opera del genere da parte del regista di Amarcord e così riflette che «forse una biblioteca di pietra da cui aspettare una nave carica di pace, un altro rex» gli sarebbe piaciuta.

Nessuno è senza colpe

In un recente dialogo con l’artista gli ho posto alcune domande, chiedendo innanzitutto quale fosse la sua posizione in merito ai vari passaggi storico-politici che hanno caratterizzato tutto il fenomeno. 

«Le nostre sventure di profughi sono la conseguenza di quella tragedia della Seconda guerra mondiale. Il Giorno del Ricordo rimanda al 10 febbraio del 1947, data del Trattato di pace di Parigi, che ha sancito la perdita, da parte dell’Italia, di quelle terre. Ma la barbarie delle foibe oltrepassa la stessa tragicità della guerra: la loro ferocia non può trovare giustificazioni e, tanto meno, negazionismi», ha risposto.

«Le tragedie di quel periodo, dal ‘43 ai primi anni del dopoguerra – l’eccidio di Porzŭs, le atrocità di Basovizza, di Vines, di Aurisina e di tutte le altre foibe – sono state il drammatico risultato di un odio antitaliano e della equazione italiano uguale fascista, certamente ingiusta, ma inconsciamente radicata e, purtroppo, storicamente avallata da alcuni episodi violenti dell’irredentismo antislavo, come l’incendio nel 1920 del Narodni Dom (la slovena Casa del Popolo a Trieste)».

«Oggi, è giusto dare atto, democraticamente che, senza le pressioni della destra parlamentare italiana, non sarebbe stato istituita appunto questa ricorrenza», ha aggiunto, «come occorre ammettere che troppo lungo è stato il silenzio della sinistra. Nelle vicende dell’Istria e della Dalmazia, dagli esiti della Prima guerra mondiale fino al secondo dopoguerra, tra annessioni sconsiderate, velleità imperialiste, nazionalismi, totalitarismi, esasperati irredentismi, rancori etnici ed ideologici, persecuzioni e vendette, nessun popolo può dichiararsi senza colpe. Alla fine, oltre ai martiri e alle migliaia di vittime delle foibe, ad essere puniti toccò agli esuli, sradicati dalla loro terra e spesso tacciati per fascisti; ai “rimasti”, esiliati in patria e tacciati per collaborazionisti; ai puri dell’ideale comunista – in gran parte operai di Monfalcone – che invece del sogno realizzato, trovarono la prigionia nell’“Isola Calva”».

Il valore di una giornata

Gli ho poi chiesto quale fosse secondo lui il reale valore di questa giornata: «L’istituzione del Giorno del Ricordo», ha detto D’Augusto, «segna un traguardo di riappacificazione e di studio. Al di là della retorica commemorativa, esso mira ad un futuro adriatico di armonia e scambi di civiltà, senza tuttavia azzerare o nascondere le responsabilità: al contrario, cercando la verità e riconoscendo le colpe che, su quelle terre di confine, hanno avuto le contrapposte ideologie totalitarie».

«Se un risarcimento è ancora possibile», ha concluso, «è nella memoria, nella rinuncia alle strumentalizzazioni, nella ricerca di verità, senza le quali i propositi di fratellanza rimangono convenzioni o convenienze di “buon vicinato”, atti di ordinaria burocrazia. L’istituzione del Giorno del Ricordo segna un traguardo di riappacificazione e di studio». 

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