Quando un autore arriva a rispecchiarsi nel suo immaginario è sempre una festa. Dopo lavori più o meno dichiaratamente autobiografici, col suo quarto romanzo Ginevra Lamberti si spinge sino all’orlo del mondo per come lo abbiamo conosciuto finora e lì, mentre tutto si disfa e si perde, traccia un nuovo sentiero, che rimette in circolo il potenziale conoscitivo della fiaba, del mito e del folklore.

Ibridando, con coraggio ed eleganza, l’indagine storica con l’eco-distopia, con la catastrofe ambientale, ne Il pozzo vale più del tempo (Marsilio) Lamberti dà vita a un racconto che punta tutto sugli strumenti conoscitivi propri dell’invenzione letteraria, per materializzare davanti ai nostri occhi le conseguenze, perturbanti e poi tragiche, della volontà di potenza dell’uomo, che tutto desidera e dunque devasta.

Quando si dice che nei romanzi italiani non c’è più immaginazione, creazione e gusto per l’altrove, si dimostra spesso di voler performare a tutti i costi la posa dei castigatori, oppure di seguire con scarsa attenzione le uscite editoriali, come dimostra questo romanzo attualissimo e insieme pieno di tradizione, anzi di tradizioni.

Legami atipici

La protagonista della storia è Dalia, una bambina (poi adolescente) che iniziamo a conoscere all’interno di una specie di ospedale di fortuna dov’è ricoverata assieme ad altri due bambini, tutti convalescenti dopo incidenti diversi ma allo stesso modo inquietanti.

La bambina col naso rotto, quella con la testa di ferro e il bambino soporoso si vedono, si riconoscono. Sono tutti orfani, anche quando non lo sono, soli e vulnerabili come cuccioli dimenticati: «Il bambino soporoso pensa che lui non è un gatto. Sa fare miao, ma non ha il pelo e non ha le orecchie a punta e non ha i baffi e non ha il naso a bottoncini. Dalle palpebre socchiuse guarda i grandi occhi della bambina con il naso rotto. Si chiede se sotto le bende gliene avranno messo uno a bottoncino, così potrà insegnarle a fare miao. E insieme andranno in giro a fingere di essere gatti».

La famiglia di Dalia l’ha abbandonata, o forse no: in ogni caso i segni che Dalia reca sul corpo travalicano la sola offesa materiale, e genereranno a poco a poco una missione.

Uno dei punti di forza del libro sta proprio nello sguardo che viene rivolto alla realtà variabilissima dei legami di sangue, specie in condizioni di precarietà o trauma. Uno sguardo che libera dal condizionamento retorico, e spalanca il campo delle affinità elettive e della genealogia sentimentale.

Uscita dall’ambulatorio Dalia, infatti, non troverà nessuno dei suoi cari ad attenderla: tutti morti o tutti intenti ad occuparsi d’altro. I legami di cura che Dalia vedrà fiorire attorno a sé saranno allora non conformi, atipici, queer: la bambina cresce con la vecchia Fioranna, ex maestra che sa difendersi, prendersi cura dei morti e insegnare a cavarsela nel tempo dell’apocalisse, a conferma del fatto che la famiglia è spesso quella che ci siamo inventati, coi rapporti contingenti e non prescritti, ideali.

In un altro tempo

Tra rabdomanti, macellai di scoiattoli, eccentriche, misteriose signore rinchiuse in alberghi dismessi e cartomanti che hanno preso dimora nelle chiese in cui nessuno ormai va più, le pagine nate dalla fantasia piena di realtà di Ginevra Lamberti sembrano dirci che quando non resta più nulla, quando il corpo è offeso, e il cuore spezzato, ci si può sempre rimettere a raccontare una storia, dato che «le storie non finiscono fino a che non finiamo anche noi».

Nella sua pratica di predizione immaginifica del po’ di futuro che ci resta, Ginevra Lamberti si imbatte nella fusione beffarda e commovente dei piani temporali: Il pozzo vale più del tempo è ambientato in un punto un po’ più avanzato rispetto al nostro, ma lo stravolgimento del mondo, ormai arroventato e sempre più inospitale, crea un ripiegamento della società su sé stessa, e quindi un ritorno al passato. Correndo verso la fine, forse, si torna a fare i conti con l’inizio di tutto.

Realtà e finzione

In questa storia alla fine del tempo le persone muoiono, e quelle che non lo fanno migrano sulle montagne, dove le passioni tristi non tardano ad acclimatarsi e produrre effetti, sommando ferita a ferita. Con un gioco libero e a suo modo scientifico, l’autrice sembra innestare i modelli letterati – Trilogia della città di K. di Ágota Kristóf, La strada di Cormac McCarthy – con tutta una tradizione estetica cara al cuore dei millennial, ovvero quella delle narrazioni fantastiche (anche audiovisive) dal sapore medievaleggiante, con le quali in tanti siamo cresciuti tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta.

Lamberti riesce nel suo intento affabulatorio anche attraverso un notevole lavoro di ricerca storica, dato che, tra le varie sottotrame che animano il romanzo, moltiplicandone i volti e i temi, alcune sono ispirate a fatti realmente accaduti nei secoli passati.

È il caso, giusto per segnalarne un paio, del personaggio di Ronaldina, che si rifà a Ronaldina Roncaglia, persona intersessuale morta sul rogo nella Venezia del 1353, e di quello basato sul macellaio Biagio Cargnio, nella cui bottega, sempre a Venezia, in un periodo tra Trecento e Cinquecento, vennero rinvenuti cadaveri di bambini.

Il pozzo

«La parabola di Dalia», scrive Lamberti nelle note finali del libro, «è inevitabile perché il fallimento di una società che ha abdicato a sé stessa (alla sanità e all’istruzione per tutti, allo stato sociale, alla stessa cura del pianeta) ha conseguenze fatali che si ripercuotono su deboli e incolpevoli. Non volevo, però, che Dalia se ne andasse con la mitezza degli agnelli. Volevo che si facesse carico del pensiero elaborato nel fondo del pozzo da tutte le donne, le bambine, i bambini, le persone abusate piccole e grandi venute nel tempo prima di lei, e che a modo suo da quel buio uscisse».

Il pozzo a cui si fa riferimento è ovviamente anche quello del celebre Discorso sulle donne di Natalia Ginzburg, che viene omaggiato in questo romanzo che ha la capacità di abitare ma anche rilanciare il discorso sul genere, sui generi, sessuali così come letterari.

Collasso ambientale, migrazioni per la sopravvivenza e lotta per le risorse e il cibo sono i propulsori di un romanzo che ne contiene in realtà molti. Il pozzo vale più del tempo, esplorando le previsioni ancora oggi in buona parte ignorate da chi detiene il potere, accetta la sfida di (pre)sentire il futuro, e lo fa dal punto di vista, vitale e struggente, dell’infanzia violata, dei suoi simboli e giochi: «Ai bambini, per metterli in guardia, non era stato insegnato che cadere in un pozzo voleva dire morire, perché i bambini la morte la potevano imparare ma in loro c’era troppa vita per poter credere alla propria; ai bambini era stato insegnato che cadere in un pozzo voleva dire cadere in un buco dove sarebbero stati soli per sempre, perché i bambini capiscono al solitudine».

Che tutto questo avvenga riconciliando contemporaneità e immaginazione, intuizioni sul presente e sapienza narrativa, è il piccolo miracolo di questo libro, personale eppure pieno di mondo, in cui l’autrice torna nei luoghi tipici della sua narrativa, il profondo Veneto, ma questa volta portando tutta sé stessa, davvero sé stessa, ovvero la sua fantasia tenera e spietata.

Una fantasia bambina, dunque primigenia, ma che ha imparato ha difendersi, cioè che sa sempre dosarsi e dosare, evocando immagini meravigliose o terribili ma avvalendosi, mentre lo fa, della via del sottrarre, del contegno arioso e dell’ironia, in un equilibrio formale raro.


Il romanzo di Ginevra Lamberti, Il pozzo vale più del tempo (Marsilio), è fra gli 82 libri proposti per l’edizione di quest’anno del premio Strega. Venerdì 5 aprile il comitato direttivo sceglierà i 12 libri destinati a concorrere. Il 5 giugno sarà proclamata la cinquina finalista. L’elezione del vincitore sarà il 4 luglio


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