Ingeborg Bachmann arriva a Roma con il proposito di rimanerci due mesi e invece, dopo un anno, teme di non riuscire ad andarsene più. Parla bene l’italiano, pressoché senza accento, e vive in piazza della Quercia «conducendo però una vita doppia, perché nel momento che entro nel mio studio sono a Vienna e non a Roma». Collabora con un paio di radio tedesche e con un giornale, così sbarca il lunario nella capitale, lì dove anche se il tempo si fa umido e il cielo ingrigisce fioriscono le mimose e le bastano pochi spiccioli per un mazzo di narcisi dei Colli Albani.

Nel suo nuovo libro, A Berlino – Con Ingeborg Bachmann nella città divisa, appena pubblicato dall’editore Giulio Perrone, Ilaria Gaspari fa il viaggio al contrario, e raggiunge la città in cui la poetessa abitò fra il 1963 e il 1965, quando aveva tra i 37 e i 39 anni. In una città che non è di nessuna della due, Gaspari ha scelto di incontrarla. In una città in cui Ingeborg Bachmann non visse anni felici.

La felicità è in Italia

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In un’intervista disse di essere diventata felice in Italia, le piaceva mangiare, andare per strada, guardare le persone, «e questo è assolutamente vero per sei giorni su sette». E se c’è chi può riconoscere la differenza tra un quadro americano e uno europeo concentrando la propria attenzione sulla cornice e sul tipo di vegetazione che appare in quegli intarsi (l’acanto per il vecchio continente e le foglie di tabacco o di mais per il nuovo mondo), c’è chi può accorgersi altrettanto facilmente che le poesie della Bachmann diventarono più sensuali durante la villeggiatura romana: in effetti così notò un critico e lei era «propensa a dargli ragione».

E un altro critico, che si era assegnato la fatica di individuare le parole più frequenti nelle sue poesie, scrisse infine questa lista: notte, luce, occhi, vento, paese, sole, cielo, mare. Vogliamo scommettere che le ultime tre ricorrono più assiduamente durante la permanenza romana?

Lottatrice

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Da bambina Ingeborg Bachmann, dalle compagne di classe al ginnasio dalle Orsoline in cui aveva studiato nella cittadina natale di Klagenfurt, era chiamata “piccolo elfo” o hibou, il gufo. Aveva cominciato a scrivere poesia a dieci, 12 anni, quasi negli stessi giorni in cui Hitler salutava la folla cittadina dal balcone dell’Hotel Sandwirt.

«Certo che voglio andarmene, ma non per studiare, e non voglio affatto sposarmi, neanche con un inglese in cambio di un paio di barattoli di conserve e di calze di seta», scrisse in quegli anni quando ancora viveva nella casa dei genitori. Lascia così il paese duramente bombardato e va a Innsbruck a studiare filosofia e dopo un semestre è all’università di Graz, e dopo un altro semestre è a Vienna. L’Opera e la Cattedrale di Santo Stefano sono state distrutte e Ingeborg Bachmann è sola, ma è tenace: «Forse si può dire addirittura che ho una natura da lottatrice», scriveva di sé stessa.

Ilaria Gaspari disegna la mappa di Berlino prima ancora di arrivare a destinazione, recupera le fotografie dell’autrice e le sue registrazioni video, e vi ritorna dopo esserci già stata quando aveva vent’anni e lavorava a una tesi sull’idealismo e «soffrivo di nostalgia per tutto, per la mia vita interrotta di studentessa a Pisa, per la lontananza da casa, per la solitudine; per la lingua che parlavo in modo ridicolo e a tratti incomprensibile, ficcando in ogni conversazione parole del lessico filosofico di inizio Ottocento».

In una sera di fiaccole e fuochi d’artificio Ingeborg Bachmann, che aveva lasciato l’Austria, raggiunse Ischia. Trovò una piccola abitazione da cui lo sguardo «si perdeva sui vigenti in fiore, fino alle gole e ai pendii del bellissimo monte Epomeo» e assistette alle prove generali della Traviata di Luchino Visconti con Maria Callas.

Scriveva talvolta a mano, oppure a macchina, altre volte sul dattilografo. Pare spendesse con noncuranza i pochi soldi, fino all’ultima moneta, soprattutto per i libri. Era una lettrice irrefrenabile, al punto da augurarsi che esistessero delle cure di disintossicazione, per manie di quella stoffa.

Il legame con Roma 

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Andò via da Roma e poi ci ritornò, lasciando seppure dispiaciuta Parigi ma si sentiva spersa nei giorni che precedevano l’inizio del nuovo anno. Trovò allora un appartamento in via Vecchiarelli 38. Disse che probabilmente sarebbe rimasta a Roma anche se la città avesse esercitato una cattiva influenza sulla sua scrittura. Nel breve saggio Quel che ho visto e udito a Roma (Quodlibet, 2013; tradotto da Kristina Pietra e Anita Raja), che qui Gaspari evoca scegliendo come titolo per una parte del suo libro Quel che ho visto e udito a Berlino, provò a spiegare così cosa la trattenesse nella capitale: «Si dice che Bernini abbia dato alle colonnate di San Pietro il profilo di due braccia che accolgono l’umanità in un abbraccio. (…) Fa parte del fascino di Roma, almeno per me, il fatto che mi sembri, almeno tra le metropoli che conosco, l’ultima in cui si possa avere un sentimento di patria interiore».

A Parigi Ingeborg Bachmann aveva conosciuto lo scrittore svizzero Max Frisch: si erano incontrati in un caffè davanti a un teatro. Quella sera non andarono allo spettacolo, ma rimasero insieme tutta la notte, fino a far colazione, all’alba, accanto ai «macellai dai grembiuli insanguinati». Fu uno degli amori, come quello per il poeta Celan, che sbranò la sua vita.  Provarono a vivere insieme a Zurigo, ma appena lui si ammalò di una brutta epatite la allontanò. Tentò di riconquistarla una volta guarito, le chiese di sposarlo. Lei allora era per la seconda volta a Roma e rifiutò la proposta matrimoniale, ma lo riprese con sé. Andarono a vivere in via Giulia 102, gelosissimi l’uno dell’altra. Ingeborg Bachmann si ammalò gravemente dopo la separazione: scoprì di dipendere dall’alcol e dai farmaci e si ricoverò in ospedali e sanatori a Baden-Baden, a St. Moritz, a Vienna, a Zurigo e a Berlino.

Al giornalista che le chiese, qualche settimana dopo l’uscita del romanzo Malina, come vivesse “un così grande successo”, lei rispose che, potendo vivere di pane e yogurt e non avendo bisogno di caviale, la faccenda non la preoccupava granché. Aggiungendo, per di più, che nello stesso periodo in cui il suo libro ne aveva vendute diecimila, Love Story aveva già venduto mezzo milione di copie.

L’ultimo ritorno 

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Tornò a Roma, per l’ultima volta, nel 1965, stavolta in un appartamento in via Bocca di Leone, in un antico palazzo rinascimentale. I sonniferi, i sedativi, gli psicofarmaci, il Mogadon, il Medomian, il Seresta le erano ormai indispensabili, ma nelle farmacie avevano messo di venderglieli e così lei se li doveva far procurare dagli amici. «Accoglimi, deserto. Accogli l’ombra nera che si addentra smarrita in te», scriveva nel Libro del deserto. E anche: «Soffro d’invasione, soffro per il cammello scannato, per le zanzare sul lago, per le battutine di una vecchia amica, soffro perché qualcuno ha un certo cancro alla laringe, soffro perché tutto è inguaribile».

Nelle passeggiate berlinesi di Ilaria Gaspari accanto a lei sfila non solo la città di adesso ma anche la città di allora, e non solo la Bachmann di quegli anni ma anche la Bachmann che da lì se n’era andata via presto.

All’alba del 26 settembre 1973 telefonò alla sua padrona di casa. Le disse di essersi bruciata e le chiese se potesse andare da lei, portandole una pomata. Quella arrivò dopo mezz’ora e fu la stessa Bachmann ad aprirle la porta, completamente ustionata: sul pavimento c’era lo scialle di lana bruciato e nel bagno la camicia da notte carbonizzata. Era chiaro che dovesse sbrigarsi a portarla in ospedale e, non trovando un documento d’identità della scrittrice, la donna prese la traduzione italiana di Malina. Secondo il medico che la visitò alla clinica Sant’Eugenio, Bachmann era svenuta con una sigaretta accesa tra le dita.

Poche volte avrebbe ripreso conoscenza prima della mattina del 17 ottobre quando, per via delle terribili ustioni che ne divoravano il corpo, morì. Nonostante lei avesse voluto essere sepolta nel cimitero del Testaccio, la sua salma per volontà della famiglia fu invece trasferita nella città natale.

Alle fiamme aveva dato il diario di Max Frisch dopo aver scoperto da quelle pagine una sua relazione con una studentessa e già tra le fiamme, anni prima, Ingeborg Bachmann aveva scritto: «Con la mia mano bruciata scrivo della natura del fuoco».

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