L’idea mi è venuta dopo l’aperitivo per il lancio del libro di poesie di Giorgia Soleri.

All’invito confidenziale, anticipato via mail e ribadito su Whatsapp dalle addette stampa, ha fatto seguito repentina la mia domanda: posso portare anche il mio ragazzo?

Ma certo, è il benvenuto, vi aspettiamo.

Ed eccoci dunque avanzare lungo le maestose scale dello stabile signorile verso l’evento esclusivo – secondo te c’è anche Damiano? La content creator, lei pure tra gli invitati, che il giorno prima mi ha scritto in direct: ci speriamo tutte. Eccoci, io e il mio +1, mano nella mano su fino all’appartamento con doppio affaccio: Buenos Aires/Spontini. Appartamento meno ampio delle aspettative, piuttosto stipato quindi lo stuolo sovreccitato di scrittori, giornalisti e influencer di vario ambito – comicità, cucina, femminismo – e stazza, tutti insieme, a socializzare di colpo, volenti o nolenti, col supporto di flute di prosecco e micro tartine dai colori in palette.

Dell’evento resta traccia sul mio profilo Instagram: lo scatto con Daria Bignardi e Tea Hacic, noi tre abbracciati sul balcone che dona l’inusuale scorcio sopraelevato sugli ingorghi di auto di Lima e piazza Argentina al tramonto. Caption: le brave ragazze vanno in paradiso, le cattive anche sui terrazzini in Buenos Aires.

Restano le foto ma soprattutto l’idea, il salvifico proposito: organizzarne uno anche io, in location similmente privata e borghese, altoborghese, paventando una nuova uscita editoriale, che invece non c’è neppure sotto forma di intento/contratto, dato che sono mesi che non vedo per me alcun futuro editoriale. La ragione accordata, nell’intimo, al coro degli scettici, con cui finisco per concordare: quello che aveva da dire l’ha detto. E ancora: un grande abbaglio collettivo, si è rivelato quello che tanti pensavano: un bluff.

Organizzare un evento del genere ma per regolare i conti, liberarmi dal male che mi stritola e affossa da mesi, anzi ormai anni, un male che si dia il caso abbia nomi e cognomi. Predisporre un tipico, irrinunciabile ritrovo milanese bollicine e finger food per metterli in trappola, fargliela pagare.

Ho già scelto musica e arredi: tovaglie color prugna e tovaglioli carta da zucchero, compilation musicale di intensità crescente, per coprire eventuali grida. L’essenziale sono le stanze: almeno sei quelle necessarie, compreso il bagno e il salone. Sei, quanti i primi invitati, che saranno poi anche gli unici, inconsapevolmente unici. Sei trattamenti speciali – non escludendo una seconda data – per tornare a vivere, ovvero sentire di nuovo scorrere il magico flusso della creatività, un minimo di benessere psichico è essenziale all’artista (diffidate di chi tesse le lodi della creazione che s’irradia dal dolore, il male disarticola qualunque linguaggio).

Un malessere inguaribile

Ora, qua non è affatto preveggenza, quanto piuttosto consuetudine con le risposte già pronte con cui oggi ci riempiamo la testa e la bocca, consuetudine che mi porta a sapere già cosa state pensando: fatti aiutare, esistono altre soluzioni, percorsi, figure professionali apposite, e soprattutto: pensa alle conseguenze di un atto del genere (serie di atti).

Non crediate che non ci abbia provato, non ci stia già provando.

Facendo appello a tutte le risorse in mio possesso.

Tutti i mercoledì mattina, dopo la lezione di Iyengar yoga in zona Solari/Sant’Agostino, mi sottopongo alla mia ora abbondante di psicoterapia a orientamento lacaniano. Quasi trecento euro mensili ripercorrendo gli stilemi di sempre, il pattern stranoto: lo sguardo genitoriale mancato – mamma dipendente affettiva, papà egopatico – il bisogno di primeggiare come dispositivo compensatorio, la tendenza a stare nel conflitto introiettato in famiglia, l’invidia, la competizione e quindi l’odio verso chiunque metta in discussione primati e conquiste.

Persino con gli affetti più duraturi: la tendenza a sfottere e umiliare gli amici nei loro momenti di felicità – promozione lavorativa, favore ricevuto da terzi, colpi di fortuna.

Ogni gioia altrui una conferma della propria miseria (la dinamica esclude fidanzato e gatti, coi quali mi identifico, il senso del sé è capace di estensione sovrapersonale).

Non so come riescano a sopportarmi, dico, sono un amico difficile. Mi faccia un esempio, replica la terapeuta. A Marika, la mia amicizia più longeva, la prima persona con cui ho fatto coming out, negli anni di liceo e università mai prestati gli appunti, onde evitare l’emulazione di performance, il pareggio o sorpasso scolastico. Il tentativo implicito di farla scivolare verso i voti più bassi, l’insufficienza, la bocciatura. Dio fa che non passi l’esame.

Già da anni mi chiedo, e ora vi chiedo: una volta compresa l’origine e la storia della propria disfunzione, come si fa a raddrizzarla? Nessuno ci insegna a passare concretamente dal piano della spiegazione a quello della correzione (esiste il passaggio?). E siamo sicuri che sia davvero questione di genealogia del trauma e non, più semplicemente, di malvagità, inclinazione naturale alla sottomissione dell’altro, a divorare il prossimo per ricavare, dal vuoto che lascia, più spazio per sé?

Mettiamo il caso che ci sono nato – l’astrologia avvalora l’ipotesi: Gemelli ascendente Leone, Luna in Ariete, triade ultraegoica.

Ho provato con la terapia cognitiva e quella sistemico-famigliare, la gestalt, la psicodinamica e la mindfullness. Ma tutto si è fermato al mero prendere atto.

Il successo è un ologramma

Vorrei qualcuno che vivesse al posto mio, un angelo buono al posto del piccolo demonio spietato che vuole il mondo tutto per sé. Perché a un certo punto di sé stessi ci si stanca. La pretesa di avere l’esclusiva, costi quel che costi (il costo qui si quantifica in vite umane). Il bisogno del piedistallo che separi ma non isoli, che innalzi e al contempo renda gli altri mero pubblico, fondale indistinto di ammiratori. Dicevo, come si passa dal vedere al modificare? E inoltre: vogliamo davvero modificare?

Nonostante la terapeuta escluda il disturbo narcisistico da me ipotizzato ripetutamente anche in analogia a quello paterno – diagnosticato il quale, le spiego, si aprirebbe tutto un iter specifico e univoco di cose da fare: protocolli, farmaci, mettiamo anche un ricovero – il tema si incardina comunque lì. Un soggetto bisognoso di continui segnali di riconoscimento/apprezzamento dal consesso sociale, ipersensibile all’opinione altrui, adeguato parlare di dipendenza. Vagando con lo sguardo lungo i muri e il soffitto del suo studio, poggiandolo su quadri e statuette orientali, arrivo a dirle, mano al centro del petto: io, di mio, non sento niente. Vuoto, dentro di me c’è il vuoto. E con la mente copincollo un’immagine della Nasa al posto dello sterno. I buchi neri non sono osservabili direttamente, la sua presenza si rivela solo mediante gli effetti sullo spazio circostante.

In aggiunta: metti un soggetto del genere nel tempo in cui viviamo.

Autostima bassa anzi inesistente, sulla quale si erigono costruzioni grandiose, il bisogno ossessivo di giganteggiare, puntualmente poi smentito dalla realtà.

Non nel senso del fallimento, ma dell’insufficienza senza rimedio: nessun trionfo in me si fissa, mette radici, a nessuna vittoria alla fine io credo. Inutili i parametri esteriori, bottino di premi – sei, sette col primo libro – e copie vendute – quarantamila, cinquanta –, anzi: ora che ho qualcosa da perdere non faccio che pensare al giudizio e al successo degli altri. A sognarne in segreto la rovina, l’annientamento, il tracollo, affinché io non torni nel canale di scolo, nel fosso miasmatico di chi non conta niente.

Recente presa d’atto: ora che ho qualcosa da perdere sto peggio di prima.

Il mese scorso, sulla poltroncina dello shooting di Vanity Fair, total look Fendi scelto per me da Anna Dello Russo, l’intervistatrice mi chiede cos’è il successo, e io dico: un ologramma.

Il successo lo sentono solo quelli che non lo vivono, esiste solo da fuori, dentro c’è sempre e solo la fame, l’inestinguibile morsa. E avrei potuto fornire una carrellata di artisti che sembravano avere tutto – Jimi, Kurt, Whitney, Amy – e hanno scelto di darsi la morte (sempre l’astrologia suggerisce la somiglianza tra il mio tema natale e quello di Marilyn).

Dunque procedere, traslare la paranoia in azione, rimedio pratico.

La mia terapia

Da qui l’idea dell’evento terapeutico: mettere in piedi una serata di convivialità, pubbliche relazioni, tipicamente milanese e, con la complicità dell’attrattiva mondana, sistemare le cose.

Limo il piano con settimane di prove e correzioni di tiro, tutto nella testa: ogni ospite, dopo i drink (con sedativo), all’accensione della musica dovrà raggiungere una delle stanze, bendarsi, infilare le cuffie bluetooth fornite all’ingresso, e aspettare seduto l’esperienza personalizzata – ovviamente legata ai temi del libro inesistente, qualcosa connesso al corpo, dirò, e qui sarò sincero. Seguirà – sono io stesso a fornire a inizio serata le istruzioni a cui ogni invitato dovrà attenersi – la condivisione di pareri e impressioni nel salone principale (condivisione che non avverrà mai).

Tutto chiaro? Tre due uno, si parte.

La prima a cui penso è l’anziana scrittrice omosessuale impegnata per i diritti civili che, tra un incontro sul bullismo a scuola e l’altro, nella sua rubrica, la settimana stessa dell’uscita in libreria, ridicolizzò furiosamente il mio esordio con una carica di sarcasmo mai vista su quella pagina (e mai più replicata). La stessa che, in occasione dell’annuncio dei finalisti del Campiello, scrisse in un post su Facebook: che entri Bazzi e non (nome di altro autore che ometto) è il segnale lampante della discarica culturale in cui siamo finiti.

Entrando, senza parlare, un colpo di martello al centro del cranio. Poi spezzarle le dita delle mani, uno alla volta e all’insù, scardinando le nocche fino a sentire il cedimento dei legamenti, sarà un buon prologo prima di procedere all’eviscerazione dei bulbi oculari (per questo, prendo nota, i cucchiai del catering dovranno essere di metallo e non di plastica), e alla recisione profonda della lingua. Un pozzo nero dietro le labbra, dove risuoni all’infinito la colpa e l’invidia, dato che tutto è nato – anche nel suo caso – da invidia e malriposta competizione (con la mia editor dell’epoca ce lo dicevamo: fuoco amico, e poi: sintomo di personalità che teme i giovani). L’età e la scarsa prestanza fisica giocheranno a mio favore, confidando nella repentina perdita di conoscenza.

Quindi sarà la volta del giornalista ossessionato dal politicamente corretto, che pianifico – logistica permettendo – di appendere privo di vestiti a uno di quei robusti ganci da mattatoio e vedere scalciare prima di procedere a sfilettargli la carne di dosso, modello kebab: a ogni stringa di muscolo strappata rileggere la sequela di tweet, dato che sono stati innumerevoli quelli contro la mia persona, nel corso del 2020 ma non solo. Per le accuse di vittimismo/strumentalizzazione della malattia, affettarlo a poco a poco, come la vecchia scorticata di Basile. Di fetta in fetta, fino a lasciar penzolare una specie di torsolo colante, oliva denocciolata a mano, a cui chiedere, un attimo prima del trapasso: che bisogno c’era? Oppure, sussurro finale all’orecchio: si dia il caso che le vittime esistono.

Da lì passerei poi alla stanza in cui aspetta il suo turno lo scrittore toscano che per mesi ha condiviso nelle storie di Instagram gli screenshot delle chat coi suoi amici con cui si divertiva al tiro al piattello con il mio nome (censurato negli screen). Nel suo caso non mi dispiacerebbe affidare al potere del fuoco la risoluzione, procedere col ferro arroventato per divertirmi un po’ con torace e collo prima di occuparmi del volto, da grigliare come le costate di cui non mi nutro da quasi un ventennio, mandarlo al creatore tra i fumi odorosi della sua stessa combustione.

Quindi mi occuperei dei rivali, colpevoli del mero fatto di desiderare, perché non pensiate che questa festa abbia solo lo scopo della vendetta, della punizione di torti realmente subiti. La salvezza è un discorso altro rispetto alla giustizia.

E qui si tratta di mettersi in salvo.

Forse ancor più urgente infatti è la finalità igienico-preventiva di questo aperitivo a inviti: mi preme eliminare alcuni degli avversari a cui penso più spesso nella sconfinata gara che i social – e questa città – rinnovano di minuto in minuto nel teatro della mente.

Gente semisconosciuta che ha venduto un decimo/ventesimo di quello che ho venduto io (e certo non viene fermata per strada), d’accordo – la terapeuta che rinnova l’invito al dato di realtà –, ma non importa. Perché dai nostri profili noi vediamo scorrere i risultati altrui e li sommiamo, confrontandoci implicitamente con questo unico, abnorme gigante di talenti e fortune, che di giorno in giorno s’accresce e, sfilandoci davanti, procede a umiliarci.

Inutile tentare di stare al passo, produrre, esserci di più: il mostro è sempre troppo più grande di noi, sempre più lucente, dunque più forte (la forza oggi si misura in termini di scintillio, lucentezza). Troppe le interviste, ospitate, recensioni, lezioni, conferenze, pubblicazioni che si sommano, collassano le une sulle altre, ammonticchiandosi su fino all’empireo, troppi i premi, le traduzioni, le alleanze opportunistiche – da noi lette come tali – celebrate con selfie e sorrisi, nelle quali, all’occasione, siamo i primi a fiondarci.

Se il confronto instillato dal digitale è impossibile, l’unica cosa da fare è allora ristabilire la legge del corpo, tornare alla carne, pulire quest’angoscia col sangue.

Gli occhi degli altri

Dunque io vi devo giustiziare, miei nemici reali e presunti, presenze che mai danno tregua, sopprimervi nella testa e nella realtà, mettervi a tacere una volta per tutte, mozzando, lacerando, evirando, affinché si plachi questo mormorio perpetuo che accusa e svilisce – non conti niente, è già tutto perduto, tra un attimo verrai dimenticato. Questo mormorio che ci sveglia e ci perseguita anche nel sonno, che condisce i nostri pasti, dilaga nei gesti anche quando sembriamo intenti a fare altro, gioire, esultare.

Nonostante intuisca che anche per tanti potrebbe essere come me, suppergiù come me, peggio che per me: condannati al sospetto reciproco e a coltivare il contatto umano strategico, noi siamo piccoli animali frenetici inscatolati e pronti a cibarci l’uno dell’altro. Funzioni, non siamo ormai altro che funzioni, mosse dalla sola paura che oggi davvero sa paralizzare, atrofizzarci: quella di non essere visti.

La paura di non essere rivitalizzati, di ora in ora, minuto in minuto, dall’occhio iridescente dell’altro, migliaia milioni miliardi di occhi santi, che per un attimo ridestano le nostre membra, rimettono in circolo il sangue, la voglia di vivere.

A fine serata, quando avrete tutti smesso di respirare, mi lascerò alle spalle i vostri corpi mansueti, e allargando le braccia da quel balcone sospeso sopra la quiete della città che ho tanto voluto e alla fine mi sono preso, tra i neon e i lampioni, seppur imbrattato dalla testa ai piedi, tornerò finalmente al sicuro, e quindi libero.

Chiuderò per un attimo gli occhi e, dentro il più bel respiro della mia vita, il riverbero delle vetrine sul viso sarà una miniatura dolcissima del futuro in arrivo.

La promessa che non sarà più ombra né rifiuto, più minaccia né rischio.

Ma bagliore nuovo, e ancora amore.

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