Dice Thomas Bernhard o meglio un suo personaggio, la voce narrante del Soccombente, che New York è non solo la città più bella del mondo, ma anche quella con l’aria più salubre. In nessuna altra parte del mondo, dice il personaggio, si respira un’aria migliore.

Penso abbia ragione e di poter dare per scontato che, quando parla dell’aria di New York, il personaggio non si riferisca riferisca alla concentrazione di sostanze inquinanti ma a qualcosa di ineffabile e tuttavia distintamente percepibile.

Non per niente, in quella stessa pagina la voce narrante del Soccombente aggiunge che New York è l’unica città al mondo nella quale un uomo d’ingegno può respirare liberamente non appena vi mette piede. Sono molti anni ormai che manco da questa città e non saprei dunque dire se sia ancora così, ma l’aria di cui parla quel personaggio la conosco e l’ho respirata a lungo.

È stata in effetti la prima cosa che mi colpì la prima volta che la visitai: la sua aria, così tersa e piena e elettrica da riempirti i polmoni e ogni fibra, proprio come dice quel personaggio. Mi colpì all’istante, più dei suoi grattacieli e dei misteriosi sbuffi di vapore che salivano dalla città sotterranea, e seguitò a colpirmi anche più tardi, quando, a distanza di circa un anno, ci tornai, stavolta per viverci.

Possibilità

Nell’estate del 1990 annunciai infatti ai miei e agli amici che mi sarei trasferito a New York per qualche tempo, in via temporanea, anche se dentro di me contavo di restarci e non tornare. Speravo che vivendo in una città dove tutti erano o sostenevano di essere artisti, avrei ritrovato la mia vocazione perduta di allora, dipingere.

Somigliavo infatti in modo preoccupante a Wertheimer, il pianista di cui parla la voce narrante di quel romanzo di Bernhard. Non avevo incontrato un Glenn Gould della pittura ma ero anch’io un soccombente. Del resto, se si è onesti e soprattutto abbastanza severi con sé stessi come soltanto i giovani sanno esserlo, non serve conoscere persone geniali per stabilire di non essere un genio.

A me era bastato frequentare musei e gallerie, sfogliare cataloghi d’arte. Prima ancora di terminare i miei studi all’Accademia di Roma, la città in cui ero nato, avevo capito che il talento mi aveva scansato. La natura era stata perfida, me lo aveva concesso in dose sufficiente soltanto a illudermi di poter diventare un artista, ma non più di questo e quando lo capii smisi di dipingere senza tuttavia volerlo davvero.

Mi ero sì convinto di non avere la stoffa necessaria ma davo al contempo la colpa dei miei insuccessi a quello che avevo intorno, agli altri, a una vita che mortificava l’ispirazione. Proprio per questo andai a New York: per trovare l’ispirazione che mi mancava e ritrovare la vocazione perduta.

In realtà, più che l’ispirazione, mi mancava il coraggio di accettare fino in fondo che non ero un pittore di genio o continuare a dipingere fregandomene di quanto fossi mediocre come artista. In particolare mi mancava il coraggio di lottare coi miei limiti malgrado sapessi che in tutta probabilità era una battaglia persa; soccombere davvero cioè.

Comunque sia, eccomi a New York. La sua aria salubre odorava non soltanto di libertà ma della sensazione che tutto fosse possibile, magari perfino restituirmi l’ispirazione perduta o infondermi il talento che mi mancava. Nessuna delle due cose è mai accaduta, ma in questa città ho vissuto un periodo felice, forse il più felice della mia vita.

Frequentavo pittori e sedicenti artisti, giravo per gallerie, andavo alle inaugurazioni delle mostre, alle feste che seguivano le inaugurazioni; avevo perfino trovato un lavoro e anche se vocazione e ispirazione latitavano, le ombre erano tornate a risplendere di promesse, nonostante vivessi in una condizione di semi-illegalità, lavorando senza un permesso di lavoro, uscendo dal paese e rientrandovi a intervalli di tre mesi, accumulando timbri sul passaporto.

Molte delle persone che frequentavo avevano i miei stessi problemi. Non so bene per quali vie finissi a incontrarle, ma i reietti, si sa, finiscono per riconoscersi, fare gruppo, scambiarsi storie, ansie e possibili soluzioni.

Come in un film 

Una notte, nel mezzo di una festa, finii su un tetto di Manhattan a conversare con una ragazza inglese, anche lei negli Stati Uniti con un semplice visto turistico. Non ricordo più se ne ero invaghito; immagino di sì, conoscendomi. A un tratto, di punto in bianco e all’apparenza senza darci grande peso, mi disse che aveva smesso di lasciare il paese allo scadere dei tre mesi.

La cittadinanza britannica la poneva certamente in una posizione diversa dai messicani con cui mi confrontavo di solito, ma restava comunque una clandestina. Ero impressionato; mai sarei stato capace di trasgredire una legge con altrettanta disinvoltura. Le chiesi come riuscisse a vivere a quel modo.

La domanda implicita era però un’altra ovviamente: dove trovasse il coraggio che io non avevo. It’s me, disse, I live on the edge. Dopodiché siamo rimasti in silenzio a guardare le mille luci di New York, per dirla con il titolo di un noto romanzo nella sua versione tradotta.

A cosa abbiamo pensato in quegli istanti? Lei (forse): ma cosa aspetta a baciarmi, ‘sto scemo? Oppure (eventualità peraltro assai più probabile) a niente. Io pensai invece qualcosa che avrebbe cambiato per sempre il corso della mia esistenza. Pensai che quel momento – noi due di notte su un tetto tra i grattacieli di New York e quella battuta perfetta, It’s me, I live on the edge – sembrava la scena di un film.

È una cosa che ho sempre pensato da allora e forse pensavo già da prima, pur senza rendermene conto: che c’è almeno un momento nell’esistenza di una persona in cui la vita, anche solo per pochi istanti, somiglia alla scena di un film o non ci appare comunque così irrimediabilmente diversa, lontana dalle vite che vediamo al cinema.

Ciò che non ho pensato quella notte, perché non lo avevo ancora capito, non essendo ancora uno scrittore ma soltanto un pittore mancato, è che poco importava che quel momento somigliasse davvero alla scena di un film.

Il nocciolo della questione è che lo stavo contemplando come se lo fosse; che ero più interessato a guardare la vita come si guarda un film che a viverla davvero, a staccarmi con una parte di me dal mio corpo, dai miei pensieri emozioni azioni, per contemplare da fuori me e quel che avevo intorno.

Anziché restare incantato, come l’amica inglese, dai grattacieli che sfavillavano nella notte, dal silenzio calato tra di noi, da un senso di attesa che poteva tradursi in un bacio o in niente; anziché assaporare il momento, lo sottraevo al flusso caotico di una vita piena di intoppi e magagne, per convertirlo in un’immagine perfetta, tagliata e montata come in un film.

Esterno notte: due ragazzi conversano su un tetto, lei dice a lui I live on the edge, qualche secondo di silenzio, controcampo sul panorama di New York, stacco. Perfino la mia memoria ha selezionato quei momenti con una logica da montaggio cinematografico. Nei miei ricordi, infatti, dopo quei secondi di silenzio, c’è il vuoto.

Non so cosa sia successo, non so se e quante volte ho rivisto quella ragazza. Posso solo dire che quello è stato il momento in cui ho cominciato a pensare da scrittore. Di lì poco infatti, in un negozio sulla Quattordicesima, ho acquistato una macchina per scrivere elettronica; eravamo in un’altra epoca e si usavano ancora le macchine, per scrivere, anche se cominciavano a somigliare agli odierni computer.

L’approdo alla scrittura fu naturalmente un processo molto più lungo e tortuoso di come lo racconto qui e tuttavia, convertito nel ritmo di un film, lo si potrebbe ridurre nei seguenti termini: esterno notte, la ragazza inglese dice I live on the edge, qualche secondo di silenzio, controcampo sulle luci di New York, stacco, esterno giorno, io davanti alla vetrina di un negozio, controcampo sul dettaglio di una macchina per scrivere esposta nella vetrina.

Se ricorro con tanta insistenza alla similitudine filmica non è soltanto perché amo il cinema né perché il cinema, almeno per le persone della mia generazione e probabilmente di quelle precedenti, è l’epitome di un’alterità fatta di distanze incolmabili e dolori insanabili che separa la vita dalla sua rappresentazione ma riesce comunque – nonostante queste distanze e dolori o forse proprio grazie a queste distanze e dolori – a risultare credibile e consolatoria.

La narrazione 

Ricorro al cinema per rimarcare la falsificazione e dunque le insidie che ogni racconto, incluso il più vero comunque contiene. E sia chiaro che quando parlo di falsificazione non penso alla letteratura come menzogna – immagine per me insopportabile, tanto è frusta e vuota e anche inesatta – né ho in mente la narrativa di pura finzione.

Se uno scrittore mente è semplicemente perché vuole o ha bisogno mentire, e lo fa come qualunque altro essere umano e non perché indotto o obbligato dalla letteratura. È nel racconto che si nasconde l’insidia della falsificazione – che è cosa diversa dalla menzogna – ma contrariamente a quel che molti pensano, la letteratura, inclusa quella di pura invenzione, non è fatta di solo racconto.

Negli anni in cui mi sono formato, la narrazione era vista – perlomeno nell’enclave artistica – come fumo negli occhi, qualcosa da evitare come la peste, il contrario di quel che l’arte doveva essere.

Quando si voleva liquidare un pittore o una sua opera, bastava dire che era narrativa. Definire narrativo un dipinto equivaleva quasi a un insulto; più un dipinto sembrava raccontare più era mediocre e passatista. La grande arte moderna infatti, da Caravaggio in poi, era antinarrativa e si affidava pertanto alla forza epifanica e rivelatrice della pura visione. Il bravo pittore era quello che sapeva far vedere le cose e non sceglieva la scorciatoia inquinante del racconto.

Dagli anni della mia formazione, il mondo è certamente molto cambiato; la narrazione dilaga ovunque, tanto che nessuno – nemmeno nel ristretto ambiente dell’arte d’avanguardia, ammesso che abbia ancora senso parlare in termini di avanguardia – individua più nella narrazione un limite, semmai il contrario. Del resto in quegli anni ormai lontani lo stupido verbo spoilerare non era ancora entrato nel vocabolario corrente.

Anticipare aspetti della trama di un film o di un romanzo non veniva considerato intollerabile, salvo che si trattasse dell’identità dell’assassino in un giallo. Senza paura di apparire nostalgico o un dinosauro di altri tempi, mi sento di affermare che questa riduzione ormai diffusa e consolidata del racconto a una pura catena di eventi ordinati in modo da tenere sulla corda il lettore o lo spettatore è una forma di pericoloso obnubilamento.

Abbiamo smesso di imparare dai bambini che preferiscono ascoltare le storie a loro già note, quelle di cui conoscono il finale e gli snodi della trama, le vie per cui il destino dei personaggi giungerà a compiersi. Nei pensieri dei bambini, la fine di una storia rappresenta un problema marginale; quel che a loro preme è la ripetizione, la conferma che una certa cosa andrà in un certo modo. In questo, a differenza degli adulti, somigliano più agli scienziato e in parte anche ai pittori che non quello al re di Persia irretito dai racconti lasciati in sospeso da Shahrazād.

Se sono soliti reclamare – a volte fino allo sfinimento – il racconto di una storia già sentita è per osservarla, come lo scienziato osserva ripetutamente un fenomeno naturale che sta studiando o il pittore torna a guardare infinite volte uno stesso paesaggio o la persona che sta ritraendo.

Da pittore mancato, prediligo i libri e le storie che funzionano come ritratti e un ritratto è sempre un fantasma, l’immagine di una persona che non c’è più o almeno non è davanti a noi a raccontarci la sua storia, una storia che possiamo solo intuire, immaginare o ascoltare da chi ha fissato quel volto in un quadro, un dipinto, un racconto. Un libro esemplare in questo senso è Il grande Gatsby, che prima di essere un racconto è il ritratto che Nick Carraway, la voce narrante del romanzo, fa del suo amico Jay Gatsby.

O, per tornare a Bernhard, Gelo, dove un giovane tirocinante in medicina è mandato in uno sperduto villaggio tra le montagne a osservare i comportamenti bizzarri di un pittore che ha bruciato tutti i suoi quadri. O ancora, per spingersi fuori della narrativa di invenzione, la storia di un’amicizia in cui Gershom Scholem ritrae Walter Benjamin.

Tutti questi libri hanno per protagonista un assente, uno scomparso, un defunto, la cui storia prende forma per interposta persona. Qualcosa di molto simile avviene anche nei libri dei qui presenti Matteo B. Bianchi o Carmen Pellegrino, La vita di chi resta e Dove la luce.

Non sono libri che leggiamo per sapere come finirà la storia. La fine, almeno secondo la convenzioni della trama, è nota e lo è perché partono proprio da lì, dalla fine, facendone il cuore del racconto. E anche quando questa fine non ci viene subito espressamente rivelata, come nel Grande Gatsby, il fatto che la voce narrante non sia quella del protagonista lascia comunque presagire una perdita, una lontananza, un fantasma.

Respirare fantasmi  

Tutto questo vale anche per i luoghi. Arrivai a New York qualche anno dopo il 1985, quando l’East Village contava più di settanta gallerie d’arte comprese nello spazio di appena quattordici isolati, e poi locali e bar e gruppi come i Sonic Youth, e nuovi modi di ballare e di sballarsi.

C’erano l’house music e un posto come il Paradise Garage e gente come Keith Haring o Basquiat e una disposizione allegra, incondizionata e disinvolta, aperta a qualunque sorta di sperimentazione. Tutto quel che sembrava degno di accadere nel mondo, accadeva nello spazio di poche strade. Nel giro di pochi anni, di quel mondo fantastico restavano solo le rovine. È in quel desolato scenario da day after che trovai casa, sulla Decima Strada, tra la Prima Avenue e Avenue A.

Ricordo il villaggio di stracci e cartone costruito dai senzatetto nel parco di Tompkins Square, i locali sfitti e in rovina, gli spacciatori sotto casa giorno e notte, l’odore della povertà, del nulla e della malattia, perché erano gli anni dell’Aids.

Ricordo di come tutti parlavano dei loro amici che erano morti e di quelli che lo sarebbero stati da lì a poco. Della paura che prima o poi sarebbe capitato anche a te. E di tante altre cose che erano altrettante paure. Del sesso, degli altri, di te. Ricordo i sieropositivi che si aggiravano per Alphabet City con i guanti alle mani anche d’estate e il volto nascosto da sciarpe e occhiali neri. Ricordo con quali occhi impauriti ma anche incantati contemplavo quella desolazione.

Osservavo i ruderi di un’epoca e i fantasmi che ancora li abitavano dicendo a me stesso che non erano il ritratto di un fallimento ma di vite vissute. Osservavo il vicinato in rovina e immaginavo il tempo che non c’era più e le persone che si erano perdute e sprecate pagando un prezzo carissimo.

Non conoscevo le loro storie, non di tutti almeno, ma le vedevo, quelle storie, le respiravano nell’aria e le trovavo belle e commoventi. Respiravo l’aria salubre di New York, respiravano fantasmi ovvero quel che avrei fatto per il resto della mia vita, anche se allora non lo sapevo, perché in fin dei conti questo è scrivere: osservarsi e osservare, respirare fantasmi.


Tommaso Pincio presenterà questo testo alla terza edizione del festival Multipli Forti. Voci dalla letteratura italiana contemporanea, promosso dall’Istituto Italiano di NY diretto da Fabio Finotti con la
collaborazione della FUIS e la cura di Maria Ida Gaeta. L’Italian Literary Fiction Festival come sempre prevede la partecipazione di circa venti autrici e autori, vedrà il coinvolgimento di studiosi, editors, publishers, traduttori e si svolgerà in New York City il 10-11-12 aprile in varie sedi (Istituto Italiano di Cultura, casa italiana - NY University, Hunter College, CIMA, Rizzoli Bookstore).

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