Se sei una donna, conciliare figli e lavoro non è possibile, oggi, in Italia. Un’affermazione tanto vera quanto sconfortante che scaraventa la mia generazione – quella delle quasi quarantenni, che all’alba del millennio hanno compiuto 18 anni pensando che quella coincidenza fosse un segno di buon auspicio per il futuro – in un corto circuito temporale che ci fa sentire molto vicine alle nostre mamme e nonne in quello che avevamo giurato a noi non sarebbe successo: restare schiacciate dal carico mentale e di cura familiare.

Super mamme

LaPresse Piero Cruciatti/LaPresse

Settant’anni di scarto non sono stati sufficienti a cambiare un modello culturale e oggi, anche se qualche passo avanti è stato fatto – credo più negli equilibri familiari che nel sistema sociale che dovrebbe sostenerci – ci ritroviamo a destreggiarci tra casa, lavoro e figli.

Nasce così il mito della super mamma, quell’essere mitologico che può fare tutto da sola e bene, che non si stanca mai, che non ha desideri e passioni perché tutto il suo io è gratificato dal suo essere, appunto, una super mamma. Sentirselo dire per strada è fastidioso quanto un complimento non richiesto: dietro quel “super” si nasconde una trappola, perché sottintende che siamo una categoria superiore rispetto alle altre mamme, secondo non si sa bene quali criteri – lavoro? Numero di figli? Velocità con la quale raccogliamo le cose che i bimbi lanciano a terra?, che ce la siamo cercata e quindi non possiamo lamentarci.

In realtà possiamo farlo, anzi, dobbiamo farlo. Chiedere un sistema che ci sostenga e che ci metta nella condizione di realizzarci come donne, madri e lavoratrici è un nostro diritto ed è una nostra responsabilità esercitarlo per provare a costruire una società più inclusiva per le nuove generazioni.

Mi piacerebbe che le mie figlie, se un giorno si troveranno a fissare, come me, una borsa piena di cappotti invernali che da mesi attende di essere portata in lavanderia e a chiedersi come sia successo che è arrivato dicembre e il freddo ed è ancora lì, non provassero questa odiosa sensazione: inadeguatezza e colpa (ma perché poi? Si chiede la me stessa razionale).

Aspettative sociali

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«Vedrai, un giorno dovrai scegliere tra famiglia e lavoro» mi dicevano da ragazzina e credevo che a un certo punto, nella vita, sarebbe comparso il grande signore dei grigi che mi avrebbe fatto questa domanda secca e io, che allora pensavo avrei girato il mondo, ero piuttosto sicura della direzione che avrei preso.

Oggi, vent’anni e tre figli dopo, posso dire che il grande signore dei grigi ha un nome ben preciso – cultura patriarcale – e non te la cavi con una domanda secca tipo quiz televisivo ma ogni singolo giorno della vita di donna, madre e lavoratrice, ti trovi davanti a una serie di difficoltà tali che la questione te la poni da sola.

Il carico mentale e il senso d’inadeguatezza che le aspettative sociali caricano sulle spalle delle donne è enorme perché ti chiedono, in sostanza, di lavorare come se non avessi figli, di essere madre come se non lavorassi e moglie come se fossi disoccupata e senza figli. Se provi a trovare un equilibrio tra le cose, a modo tuo perché non ci sono tutti questi modelli ai quali ispirarsi, diventi un’anomalia del sistema e il pensiero diffuso è che tu non stia facendo bene niente.

Se non hai le spalle larghe e un contesto economico-familiare-lavorativo che ti sostiene anche solo parzialmente, quel pensiero diffuso diventa il tuo e allora eccola lì, la grande questione che ti poni da sola: ha senso che debba fare tutta questa fatica? Se chiedo aiuto vuole dire che non sono abbastanza brava, capace, adeguata? Meglio mollare qualcosa, tipo il lavoro? Una corsa a ostacoli concreti ed emotivi che il più delle volte porta alla rinuncia professionale.

A dirlo non sono io ma i dati Istat sull’occupazione di donne con figli che vivono in coppia: il 53,5 per cento. Significa che la metà delle donne con figli scelgono di non lavorare.

Vorrei soffermarmi sul verbo scegliere perché riguarda solo una fetta di quelle madri che per motivi assolutamente non giudicabili decidono liberamente di non lavorare. La restante fetta, che secondo me è piuttosto corposa ma lo dico io e non l’Istat quindi non ha giustamente rilevanza statistica, sono costrette a lasciare il lavoro o a non cercare un’occupazione – concetto molto lontano da quello di scelta – perché facendo due rapidi conti realizzano che la cosa, semplicemente, non è fattibile.

Butto lì qualche situazione non in ordine d’importanza: vivi lontano dai nonni o questi sono molto anziani, non hai i nonni, la retta del nido è metà del tuo stipendio (e già sento il commento del familiare a caso che dice «ma allora tanto vale che ti occupi dei figli» e lo moltiplico per mille con effetto eco che manco in montagna da Heidi), non hai avuto accesso al nido (solo il 26,3 per cento dei bambini e bambine sotto i 3 anni lo frequenta, giusto per dire), tua figlia si ammala e al lavoro fanno questioni su permessi e ferie – sempre se hai un contratto e non sei libera professionista o precaria – mettendo pressione, e pagare baby sitter e retta del nido non è sostenibile, il monte ore del nido non è sufficiente a coprire il tuo (del resto chi finisce di lavorare entro le 16.00 se non un part time) e devi aggiungere la spesa di una baby sitter e infine, guarda un po’ che sorpresa, visto che guadagni meno del tuo compagno/marito, la scelta su chi deve rinunciare al lavoro è già presa in partenza. Come nei videogiochi, se sei una madre single passi al livello di difficoltà superiore.

Quindi no, la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, per una donna, non è possibile in questo sistema e chi ci prova lo fa a un costo di fatica altissimo, molto più di quella che già naturalmente dovrebbe spendere come donna, madre, lavoratrice, compagna o moglie.

Perdere pezzi

Finisce che, per sopravvivere, si eliminano dei pezzi, che sia il lavoro o un interesse che non si ha più il tempo di seguire, le amicizie, la cura di sé, a volte a saltare è la coppia stessa. Pezzi di vita che sono parti importanti che contribuiscono a definirci, a costruire il nostro io, a renderci ciò che siamo.

Ogni giorno io e altre migliaia di donne giriamo come delle trottole per gestire la logistica – sì, proprio come un’azienda di trasporti o l’esercito – degli spostamenti dei figli tra scuola e attività, gli impegni lavorativi, la cura della casa, gli imprevisti che ogni giorno compaiono lungo il cammino come i sassolini di Pollicino, le proprie fragilità e l’esserci come madri e compagne e mogli.

Anche se è difficile tenere tutto insieme – tre figli, la vita in coppia, il lavoro part time, l’attività di autrice, qualche chiacchiera con le amiche, un bel viaggio di famiglia – e a volte mi sembra di riuscirci solo con dei gran giri di scotch, non credo sia giusto, verso me stessa ma anche verso le mie figlie e mio figlio, accettare che sia il sistema a scegliere chi posso essere.

Quando è nata la mia prima figlia credevo che avrei mantenuto il controllo su tutti gli aspetti della mia vita ma oggi, nove anni dopo, posso dire con estrema tranquillità che se non ho il controllo su una borsa di cappotti invernali da portare in lavanderia difficilmente lo avrò sul resto. E va bene così.

Ci sono giornate dove riesco a essere molto vicina all’idea che ho di me stessa e sono felice. Altre dove le cose non funzionano, il senso d’inadeguatezza sale a livelli di guardia e mi sforzo di pensare che andrà meglio domani.

L’esercizio mentale che porta ad accettare di disattendere il modello di successo mi aiuta molto nella gestione della vita quotidiana: non voglio essere iper produttiva per dimostrare che posso fare più degli altri nonostante sia una donna con figli e non voglio competere con le madri performative che non sono mai rimaste senza tovagliolini al nido.

Semplicemente, ha smesso di interessarmi. E in quel momento – quello in cui ho capito che potevo decidere di essere altro dal modello imposto dalla società – mi sono sentita sollevata e anche coraggiosa.

Perché, diciamocelo, fare tre figli è un atto rivoluzionario. Significa credere così tanto nel futuro da mettere al mondo tre vite, impegnarsi per non perdere pezzi di sé stessa lungo la strada e usare il proprio corpo come atto politico per cambiare la narrazione femminile dominante e costruirne una più realistica.

Perché usare il proprio corpo come atto politico non può essere legato solo alla scelta di non avere figli ma anche a quella di averne e, in generale, ogni volta che una donna si autodetermina, decide del suo corpo e di sé stessa, stabilisce le regole della sua vita. Con tanta fatica, sì, ma riprendendosi la sua voce.

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