È la prima volta che mi capita di prendere un treno per partecipare a un funerale. Per una persona che non conosco, per di più. Ma questi sono giorni in cui seguo l’istinto: e l’istinto mi dice, confusamente ma insistentemente, che venire oggi aveva un senso profondo, era la cosa giusta da fare.

Giusta nei suoi confronti, ma soprattutto, confesso, nei miei. Per ricordare a me stesso quanto devo a Roberto Calasso.

Leggere

Cosa significa leggere? Fondamentalmente, cambiare se stessi, nient’altro.

Ogni arte propriamente detta – letteratura, musica, pittura, scultura – ci esprime, fa uscire qualcosa da noi verso il mondo. È un pezzo di noi che esce fuori. La lettura, al contrario, ci imprime, porta un pezzo del mondo dentro di noi. Leggere non produce. Ma ogni buon libro ci modifica un po’, ogni libro eccezionale produce grandi sconvolgimenti. Leggere, quando funziona, è una costruzione dell’identità.

Le parole lette definiscono ciò che siamo e pensiamo, perché, implacabilmente, pensiamo parole. Pensiamo parole che articoliamo in frasi che formano concetti che si incastrano in sistemi di pensiero, che è poi quello che vagamente i libri cercano di imitare, infilando linearmente una serie di paragrafi come perle in una collana, uno dietro l’altro, per esporre una riflessione o raccontare una storia.

Un lettore (cioè uno che legge spesso, che ha bisogno di leggere) legge per vivere, perché ha imparato a filtrare il mondo anche attraverso i libri. Ogni lettore associa un libro ad un periodo della sua vita, a un luogo, e non di rado capita anche il contrario. Ogni biografia di un lettore è un serpente di libri, unico e irripetibile, come un fiocco di neve e un’impronta digitale: non esisterà mai nessuno al mondo ad aver letto i nostri stessi libri, quelli e solo quelli, in quell’ordine. Ogni lettore è la sua biblioteca.

Arrivato nel cortile della chiesa, mi metto in disparte. Riconosco i familiari e i colleghi di Adelphi, che poi era solo un altro tipo di famiglia. C’è qualche scrittore, qualche politico. C’è anche qualche altro lettore, giunto lì come me per affetto. È strano usare questa parola per una persona che non conosciamo davvero, ma il sentimento è lo stesso. Che sia un cantante, un attore, uno scrittore, la modalità è la stessa: ci abbiamo passato del tempo insieme, e ora fanno parte di noi.

Sarebbe bello ridefinire i nostri criteri di “importanza” intellettuale cercando di valutare l’impatto, l’influenza di una persona sulla cultura di un paese. Potremmo quindi ridisegnare il canone non solo con gli autori – sempre necessari, mai sufficienti – ma anche con gli editori, i traduttori, gli editor.

Sono loro gli sherpa nascosti e pazienti che solitamente portano un libro da una lingua a un’altra, da un passato a un oggi, dall’invisibile al visibile. Silenziosi e fondamentali, come sempre l’infrastruttura quando funziona bene.

Per comprendere la straordinarietà dell’impatto di Roberto Calasso, è bene aiutarsi con dei numeri: sessant’anni ai vertici di una casa editrice importante; una ventina di libri scritti di suo pugno, pubblicati in trenta lingue; oltre duemila libri pubblicati dalla casa editrice, dei maggiori scrittori di sempre.

Senza fare confronti – cosa che vorrei fare, ma con chi? – i calcoli sono semplici: in maniera diversa, il suo lavoro ha avuto un’influenza sulla vita di milioni di persone. Per alcuni potrà essere solo stato un Siddharta letto in gioventù, per altri un lunghissimo e appassionato dialogo che perdura negli anni, con decine di autori diversi e dozzine di libri, e che continuerà ancora.

Nel mio minuscolo caso, uguale a molti altri, la sua influenza è stata semplicemente incalcolabile, costruita su centinaia di libri, tutti ora attorno a me. Non so contare quanti giorni, quante settimane ho navigato nel labirinto che Calasso ha tessuto per me – per milioni di lettori, il nostro numero è legione – e di cui era insieme Dedalo, Arianna e Minotauro. Architetto, guida e insieme il mistero al centro.

Senza conoscermi e senza mai parlarmi, Calasso ha instaurato come me una conversazione che dura da più di vent’anni. Più simile ad un monologo, in verità. Per una volta, però, posso rispondere anche io: capisco dunque che sono qui oggi per rendere omaggio, per dimostrare affetto con una presenza, per una volta. L’unica cosa che posso offrire.

Bobi

È significativo che Calasso sia morto il giorno della pubblicazione di due suoi libri, diversissimi dalla sua produzione precedente. Autobiografici entrambi: Memé Scianca sui suoi primi anni da bambino, dedicato ai figli Josephine e Tancredi. L’altro non ha una dedica, ma è tutto nel titolo: Bobi. Due titoli che sono un testamento affettivo: il proprio nomignolo di bambino, e il nomignolo dell’uomo più importante della sua vita. Nonostante gli anni di distanza, due fratelli con lo stesso nome: affini, adelphoi.

Di Bobi Bazlen, eterno mistero, l’editoria continua ciclicamente a occuparsi: c’è il romanzo di Daniele Del Giudice, ci sono le biografie e le tesi di laurea. Giusto alla fine, è arrivato questo ricordo di Calasso.

«”Andiamo da Bazlen”» mi disse Zolla, senza avvertirmi prima. “Vittoria vorrebbe sentire che cosa dice del suo Williams”». Era una scelta di poesie di William Carlos Williams, che sarebbe apparsa vari anni dopo - e che Bazlen era allora un fantomatico consulente per Einaudi. In quel giorno lo vidi la prima volta».

In questo incipit all’apparenza così sobrio c’è in realtà un libro intero, forse più di uno: Vittoria è Cristina Campo, all’epoca legata sentimentalmente allo studioso Elémire Zolla. Il giovanissimo Calasso frequentava il loro salotto romano, assieme ad altri intellettuali come Guido Ceronetti, Pietro Citati, Mario Praz, Rodolfo Wilcock. Tutti poi finiti in Adelphi.

Bazlen è un mistero perché non si dà un uomo di lettere che, come diceva Cottafavi su questo giornale, incarni così perfettamente la figura di Bartleby e la sua “preferenza di no”, cioè: un intellettuale che scelga di non scrivere. Il pochissimo che Bazlen scrisse è molto ermetico, aforistico e probabilmente comprensibile solo a chi conoscesse quella voce e quei riferimenti; il sostrato culturale di cui quelle brevi parole sono solo piccolissima parte. Ogni parola ne sottintende molte altre, non dette. Un tratto che, in maniera diversa, erediterà anche Calasso.

Bazlen scelse di non fare, ma di essere: molto del suo fascino viene dalla difficoltà di immaginare un uomo di genio che non facesse altro che leggere libri, in diverse lingue, in una personale e continua esplorazione, avanti di venti o trent’anni sui cataloghi delle grandi case editrici italiane, alle quali continuava a consigliare autori che anni dopo si sarebbero affermati come i grandi del secolo.

Si inventò praticamente un’arte: il suggeritore di libri, il sussurratore di mondi. Inadatto a ogni lavoro di routine, a ogni impiego, trovò il suo destino – vorrei dire, la sua forma – in una piccola stanza romana, su «un letto, dove si svolgevano le funzioni più importanti: leggere, scrivere, dormire».

L’oceano di Melville

Non riuscirò mai a capacitarmi del fatto che Calasso aveva appena vent’anni quando frequentava i vari Bazlen, Campo, Zolla, Ceronetti, Wilcock. E ne aveva appena ventiquattro quando Bazlen morì, appena in tempo per vedere pubblicato il primo numero della biblioteca Adelphi, L’altra parte di Alfred Kubin. Una esperienza breve e fulminante che non posso che associare – ancora – a Melville.

Diceva Pavese nella prefazione a Benito Cereno, parlando del suo passato da baleniere: «Mai il mare tradisce la fantasia di Melville. È curioso come una un’esperienza durata poco più di quattro anni e conclusa quand’egli ne aveva ventisei, gli abbia invasa tutta l’anima, filtrando a interessarne le radici più segrete». Anche quando doveva descrivere la campagna – quella in cui finì gli ultimi anni della sua vita di scrittore – Melville pensava incessantemente al mare: «Gli aerei bioccoli delle bocche di leone dondolano come spuma e le montagne violacee hanno il violaceo dei flutti, e un pacato meriggio dorme sui prati fondi, come bonaccia all’Equatore…».

Per Melville, non c’è nulla che non possa essere ricondotto all’oceano: è l’unica metafora, l’unico riferimento, l’unica analogia. Calasso non ha mai dimenticato Bazlen: è stato il suo ultimo libro, è morto a due giorni di distanza, cinquantasei anni dopo. Adelphi è il Moby Dick di Calasso.

So che è forzato, ma in questi giorni la voglio pensare così: la storia di Adelphi è la storia di un lutto. La storia di un discepolo che insegue le orme del suo maestro, cercando di esserne all’altezza, per tutta la vita. Ci riuscirà, e diventerà il più grande editore italiano del Novecento. Chissà se lo sapeva.

La messa è conclusa, siamo tutti nel cortile per l’ultimo saluto al feretro. Il mio amico Niccolò mi fa notare una frase molto dolce dei figli di Calasso, che ci fa sentire immediatamente di troppo, che è giusto lasciare la famiglia e gli amici da soli. Ci allontaniamo subito.

Ci ho pensato molto in questi giorni: chissà quanto Bobi debba essere mancato a Calasso. E chissà quanto Calasso mancherà a noi.

 

© Riproduzione riservata