Francesco Orlando è stato uno dei migliori critici letterari della seconda metà del Novecento in Italia; sottovalutato all’epoca, ormai gli si riconosce il merito di avere rivoluzionato il modo di applicare la psicanalisi alla letteratura – non più soltanto “spiegare” le opere alla luce delle scoperte di Freud (il complesso di Edipo, l’omosessualità latente, l’istinto di morte), ma passare dal contenuto alla forma vedendo nell’opera letteraria la più evoluta delle “formazioni di compromesso” freudiane oltre al sogno, al lapsus e alla barzelletta. Un meccanismo espressivo che ha il suo fulcro nell’emersione di ciò che è represso (e non necessariamente rimosso), contro la pressione delle istanze culturali repressive: a partire dalla famosa “negazione freudiana” per cui si dice “no” per lasciar emergere un più profondo “sì”. Orlando ha applicato questo metodo a Racine, a Molière, all’illuminismo francese, alla letteratura fantastica e alla tematica degli oggetti desueti; non l’ha applicato all’autore che forse più a lungo e più intimamente l’ha accompagnato nel corso della vita, cioè alla Recherche di Marcel Proust.

Saggi sorprendenti

Esce ora la raccolta dei suoi interventi proustiani (In principio Marcel Proust, nottetempo), grazie al lavoro dell’amico ed esecutore testamentario Luciano Pellegrini. Cinque saggi scritti tra il 1973 e il 2010, ma che tengono conto di un suo corso tenuto alla Scuola Normale di Pisa nel 1968. Saggi sparsi, non il libro compatto ed esaustivo che ci si sarebbe aspettato da un sistematico come lui; la ragione (ma ci tornerò alla fine) è forse proprio nell’impossibilità per lui, per le sue remore e inibizioni personali, di applicare a Proust la dialettica represso/repressione.

Sono sostanzialmente saggi che compongono un reticolo tematico del grande romanzo; ma la sorpresa, per chi di Orlando ha un’idea vaga, è trovarvi un forte interesse storicista di stampo marxista. A partire da una famosa intuizione di Benjamin, Orlando sottolinea che il mondo della Recherche è un mondo che vive di rendita, che tra una chiacchiera mondana e l’altra si informa dell’andamento della Borsa (i “tagliatori di cedole” di cui parlava Lenin); nel pieno dell’età in cui si affermano l’imperialismo e la divisione del lavoro, la borghesia vuole occultare le proprie basi materiali e quale maschera migliore della classe non produttiva per eccellenza, l’aristocrazia in una Francia repubblicana?

Snobismo

Per questo, dice Orlando, il romanzo più significativo dell’epoca doveva essere scritto da un “sublime mondano” e non da uno scrittore di mestiere come Zola; per questo il romanzo doveva avere come spina dorsale lo snobismo, che consiste nell’attribuire un prestigio fittizio a chi non ha nessun significato economico. Ma lo snobismo è anche un’espressione tipica di quel che l’antropologo René Girard ha chiamato “desiderio triangolare”, cioè il desiderio basato sul desiderio altrui (origine del moderno consumismo); snobismo e gelosia amorosa hanno la medesima struttura. Qui rispunta Freud, nella forma classica che oggi meriterebbe parecchie gogne mediatiche; il mondo proustiano nega due volte la produttività, sia in quanto popolato da un ceto di rentiers sia in quanto dominato dal desiderio omosessuale a sfondo sadomaso – perversione improduttiva per eccellenza perché (è Orlando che parla) «non può venirne fuori una prosecuzione della specie umana».

Parlando di Proust, sembra che Orlando non riesca a sottrarsi al contenutismo: per esempio ricorre al luogo comune della “scena primaria” (il fantasma del coito tra i genitori nelle fantasia del bambino) per illuminare una delle caratteristiche tematiche tipiche della Recherche: la conoscenza vera non avviene mai quando si cerca qualcosa volontariamente, ma soltanto quando si smette di cercare e allora il miracolo accade. Vedere prima di sapere, come insegnava l’impressionismo ma anche come intuiva Dostoevskij, il mondo svelato come sorpresa e trauma.

La metafora

La realtà è in continua metamorfosi, i personaggi della Recherche ogni volta che compaiono ci mostrano una faccia diversa del loro prisma; la metamorfosi crea angoscia e la salvezza arriva soltanto con un misterioso capovolgimento della scena primaria in estasi pura, mediante la memoria involontaria che abolisce il tempo e ci avvicina a una quasi metafisica Unità. L’unità che si oppone alla metamorfosi è la metafora; la scoperta finale di Proust (simile in questo al poeta di una generazione precedente, Stéphane Mallarmé) è che la sola vera vita è la letteratura.

Qui Orlando sembra fermarsi come consentendo, dimenticando che questa scoperta viene dopo la presa d’atto della vecchiaia e della morte, e che il prezzo di questa scoperta è una rinuncia alla vita. La Recherche non si conclude certo con un happy end, nonostante tutti gli sforzi dell’autore per farcelo credere (la “scoperta di una vocazione” e compagnia cantando).

C’è un passo dei saggi orlandiani che mi ha colpito, perché forza la lettera di Proust: «La letteratura è quella istituzione che può permettere di entrare l’uno dentro l’altro agli esseri umani», letteratura come analogo e sostituto del coito. Qui entro in un terreno delicato, perché Orlando l’ho conosciuto bene tra gli anni Sessanta e Settanta, ed è sempre temerario interpretare un critico come se fosse un narratore; ma è anche l’unico modo, credo, per restituire a un saggista come lui la sua dignità letteraria.

Uno dei cinque saggi è dedicato a una lettera scritta dal personaggio forse più memorabile del romanzo, il Barone di Charlus, a un ragazzo di cui si è innamorato; leggendola, mi è stato impossibile non ricordare le acrobazie retoriche e autolesioniste (spesso con un alto tasso di ridicolo) che Orlando metteva in opera per nobilitare le proprie infatuazioni omosessuali. Luciano Pellegrini, di fronte a una ipotizzata equazione Orlando/Charlus, sostiene che «ogni critico può usare scientificamente il proprio vissuto»; impeccabile, anzi non c’è saggistica (tale considero quella di Orlando, malgrado le sue insistenze sulla “scientificità” neutra del suo lavoro) che non incameri grandi dosi di autobiografia dello scrivente; a patto di non reprimerla, perché questo può costituire un limite.

Condizionamenti

Torno alla domanda iniziale: perché Orlando non ha mai scritto un libro unitario su Proust? Pellegrini va per la strada giusta, ipotizzando che c’entri il conflitto mai risolto col “sublime dilettante” Tomasi di Lampedusa e fa a Orlando la domanda decisiva: quale è secondo te il represso nella Recherche? Orlando prima risponde imbarazzato che sarebbe «il diritto di ritagliare mentalmente il mondo con modalità terminologiche e concettuali inedite» contro la repressione del conformismo (quindi in fondo proponendo se stesso come esempio di trasgressione riuscita), poi più sinceramente che il represso sarebbe la «vita esteriore e pettegola» di cui Proust, sotto la riprovazione, sente indubbiamente il fascino.

Io ricordo bene, nei nostri anni di sodalizio, una visita in Normale di Michel Foucault e l’orrore che Orlando dichiarò per la sua “leggerezza” e il suo “esibizionismo” omosessuali, gli stessi che attribuiva a me. Con supremo ascetismo, Orlando puntava all’intimità erotica mediante la negazione del sesso; non ha mai accettato che l’orgasmo possa produrre gli stessi momentanei effetti della metafora né si è mai assunto la responsabilità della violenza che necessariamente chi desidera esercita su chi è desiderato. Altro che “vita esteriore e pettegola”, è la vita tout court che Orlando avrebbe dovuto ammettere come il vero represso della Recherche, contro le istanze repressive del sublime monumento compatto come una cattedrale, e per lui davvero sarebbe stata una rivoluzione.

Quello che esce ora da Nottetempo non è un libro organico, è un libro a strati che invita a riflettere su molte cose: su un grande capolavoro, sui condizionamenti di un grande critico, sui miseri ricordi di chi da quei riferimenti intellettuali ha tratto una parte della propria storia.


In principio Marcel Proust (Nottetempo 2022, pp. 240, euro 18) è una raccolta di saggi di Francesco Orlando                

                     

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