C’è chi dice che un esercito di cavalieri, di fanti, una parata di navi sia la cosa più bella sulla terra nera, io ciò che si ama.

Così si apre un celebre frammento di Saffo (fr. 16); ciò: un bisillabo, un pronome dimostrativo, accostato dalla poetessa a un “io” pronunciato forte, a cavallo fra VII e VI secolo a.C., sull’isola di Lesbo. Un pronome che non ha alcuna pretesa di declinazione di sesso o di genere, che racconta da solo tutto quel che c’è da sapere sul modo in cui ci si amava nell’antichità greca.

Una sorta di manifesto che affronta di petto l’estetica eroica dello scontro in battaglia. Son belli sì i cavalieri, i fanti, le navi. E del resto di questa seduzione irresistibile avrebbe raccontato così bene Simone Weil nel suo piccolo e potente: Iliade o il poema della forza, scritto fra il 1936 e il 1939. Sono belli ma non abbastanza, se paragonati all’oggetto del sentimento d’amore.

Che di un uomo si tratti o di una donna non pare avere poi molta importanza; il carattere neutro del pronome serve anche a questo, millenni prima dell’oggi: a raccontare un mondo che non ha bisogno di maschili e femminili, ma solo di un corpo e di un’anima di cui innamorarsi.

Subito dopo aver evocato eserciti e flotte fantasmi, Saffo in verità porta a sostegno della sua idea rivoluzionaria un esempio molto convenzionale e assai noto: Elena, la distruttrice di eserciti, innamorata senza rimedio di un principe troiano, Paride Alessandro. Pronta, per quest’amante che viene da Oriente, ad abbandonare tutto: la casa, la figlia, i genitori e, naturalmente, il marito spartano, Menelao, sospinta dal pungolo d’amore. Ma ecco, sempre nello stesso frammento, la passione di Elena per Paride cedere il passo a un altro sentimento non meno potente: quello della poetessa per Anattoria, l’amica lontana.

Fra i due estremi dell’arco teso, quel ciò che si ama descrive un universo di possibilità e di declinazioni diverse del desiderio di amarsi.

Nel simposio

Platone l’avrebbe mostrato molto bene, a più di duecento anni di distanza dal giorno in cui Saffo si era innamorata per la prima volta nella sua Lesbo, raccontando il celebre mito dell’anima gemella nel Simposio (190b-192e) e un momento in cui la stirpe degli umani doveva ancora trovare una forma definitiva e un modo di stare al mondo. La possibilità di innamorarsi dell’identico a sé o del diverso sarebbe nata proprio in quei giorni primordiali, quando il coltello spietato degli dèi era calato per dividerci in due, come un frutto maturo, costringendoci a cercare per l’eternità la metà da cui siamo stati separati.

Qualcosa a metà strada fra la necessità e la serendipità ci spingerebbe allora verso l’oggetto del nostro amore: non le convenzioni sociali o le circostanze, ma un itinerario segreto, disegnato su una mappa nell’universo delle origini.

Così per Saffo, sotto il grande cielo di Eros, abita l’amore di lei per le compagne, quello di Elena per Paride, di Andromaca per Ettore, quello della dea Afrodite per il bellissimo e sfortunato Adone. L’uno non esclude l’altro e anzi lo comprende. L’apertura di campo, l’orizzonte lungo non significa però libertà assoluta: i Greci, e i Romani, vivevano in un mondo pieno di leggi piuttosto ferree. Ci si amava sì senza distinzione di sesso o di genere, ma anche osservando un copione già scritto che regolava tanto i rapporti eterosessuali tanto quelli omosessuali.

Altre convenzioni

Di questo ci parla per esempio Platone, fra tutti, ma i frammenti di Saffo lasciano in secondo piano la regola, l’etichetta. Forse è stata la sorte benigna, forse, chissà, una scelta consapevole della poetessa, ma dai suoi versi riusciamo a capire ben poco delle convenzioni sociali a cui uomini e donne dovevano attenersi, in materia d’amore. Sappiamo di più del colore più adatto a un nastro destinato a ingentilire una chioma rosso fuoco o della disapprovazione di Saffo per il fratello Carasso, partito per l’Egitto e smarritosi fra le braccia esotiche di una cortigiana.

D’altro canto la leggenda di questa straordinaria ragazza di Lesbo si nutre, anche, delle lacune dei suoi versi e allora per noi è stata nei secoli una direttrice di collegio o una consumata esperta dell’arte del piacere, capace di amare solo le sue compagne, di un amore appassionato. Ha scelto di essere eterosessuale, dai giorni in cui Ovidio l’ha portata in cima a una scogliera bianca, a Leucade, nelle sue Eroidi (la XV), e l’ha spinta a tuffarsi per l’eternità dalla rupe in mare, in una sorta di slow motion ripetitivo, per curare le pene dell’abbandono di Faone, un barcaiolo da nulla che pare non fosse neppure un granché.

È diventata poi “lesbica”, intercettando un mood dispregiativo che non apparteneva di certo agli antichi, ma anche trasformandosi in un’artista totemica capace di ispirare e di incoraggiare intere generazioni di donne scrittrici.

È stata, è anche un’icona Lgbt, non solo per quel pronome neutro che racchiude il mondo intero, ma anche perché a lei, per prima, dobbiamo la descrizione della fisiologia di un amore. In un celebre frammento, il 31, Saffo ci parla infatti della maladie d’amour: una patologia democratica e trasversale che investe le eroine del mito, Catullo, le signorine per bene dell’età vittoriana e tanti altri, persino la Giulietta della tragedia shakesperiana.

Dalla Lesbo del VII secolo a.C., attraverso Saffo, si fa strada un morbo potente che investe il corpo e lo scuote tutto. Allora, nei versi della poetessa, si diventa più verde dell’erba, la lingua si spezza, gli occhi si riempiono di nebbia, le orecchie rombano, contemplando l’oggetto irraggiungibile dell’amore.

Ricondotta alla sua anatomia, la passione amorosa in Saffo smarrisce paradossalmente i contorni del sesso e del genere: è solo paesaggio, umori, suoni, colori. E non importa più chi si è, a cosa somiglia il corpo con cui si ama, a cosa l’amato. Conta solo la tensione del desiderio, quell’Eros che mi squassa dentro come il vento in montagna si abbatte sulle querce (fr. 47).


Questo è un estratto del libro di Silvia Romani “Saffo, la ragazza di Lesbo”, edito da Einaudi (2022, pp. 208) 

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