Certe volte conviene partire dalla fine. È quanto accade con un libro di Alessandro Gnocchi intitolato Il capocannoniere è sempre il miglior poeta dell’anno. Calcio e letteratura (Baldini+Castoldi).

A metà strada tra atlante e memoir, enciclopedia e autobiografia, questo trattatello colpisce per la distanza che intercorre tra la fatica documentaria che deve aver fatto il suo autore, testimoniata dai ricchissimi indici dei nomi e delle opere, e il piacere provato dal lettore.

Ma, come si diceva, partiamo dalla conclusione, ossia dal sommario. Senza cadere in uno sterile elenco, come affrontare, in poco più di cento pagine, un tema pressoché sterminato come quello rappresentato dal gioco del calcio?

Principio mimetico

Abbiamo visto che i libri su questo sport, scrive Gnocchi, dalle poesie ai saggi fino ai romanzi, potrebbero riempire una biblioteca grande come uno stadio, il Colosseo ad esempio. Da Pier Paolo Pasolini all’antropologo Desmond Morris si sprecano le interpretazioni in chiave rituale della partita di pallone: stilizzazione della battaglia, rievocazione di un passato remoto tribale, continuazione con mezzi diversi della tragedia greca. Ebbene, davanti a tale mare magnum, la soluzione suona tanto elementare quanto efficace.

Sfruttando un principio mimetico, i materiali del volume sono stati ripartiti ispirandosi al loro stesso soggetto. In tal modo, ci troviamo di fronte a sei sezioni così suddivise: Riscaldamento, Primo tempo: poesia, Secondo tempo: narrativa, Primo tempo supplementare: cinema e televisione, Secondo tempo supplementare: canzoni, e infine Calci di rigore: la libertà del calcio.

Una volta delimitato il campo, può finalmente avere inizio il nostro gioco, ossia la lettura.

Rappresentazione sacra

Abbiamo già citato Pasolini. A lui si deve il titolo del testo, che si apre appunto con queste parole: «Pasolini disse che il capocannoniere del campionato è sempre il miglior poeta dell’anno». Siamo alle prime battute di Riscaldamento, che prosegue con una notizia leggendaria.

Pasolini fu infatti protagonista, con Bernardo Bertolucci, della partita più famosa nel mondo della cultura italiana. Mentre il primo girava Salò o le 120 giornate di Sodoma nella Bassa, il secondo era accampato tra Parma e il mantovano per il suo Novecento.

Fu la troupe di quest’ultimo ad avere la meglio, però, a quanto si disse, ricorrendo a un inganno. Pare cioè che Bertolucci avesse schierato di nascosto due talenti della primavera del Parma, uno dei quali, stando a voci confermate nel 2021, era Carlo Ancelotti, convocato come finto attrezzista.

La sconfitta non fu senza conseguenze, commenta Gnocchi, e Pasolini imparò la lezione, tanto che, nelle foto di una partita successiva, si riconosce tra i suoi nuovi “acquisti” un certo Fabio Capello...

Pasolini analizzò il calcio come fenomeno culturale, definendolo «l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo». Mentre le altre, persino la messa, sono in declino, il calcio, sostenne, è l’unica rimastaci, l’unica in grado di sostituire il teatro antico.

Secondo lo scrittore e regista, il calcio è un linguaggio e come tale può essere analizzato. Il tutto, anche a costo di qualche spericolata ipotesi teorica, come quando si spinse fino a proporre un’audace parallelo tra i “fonemi” (unità minime della lingua scritto-parlata) e i “podemi” (unità minime del suo amato sport): «Le infinite possibilità di combinazione dei podemi formano le parole calcistiche: e l’insieme delle parole calcistiche forma un discorso, regolato da vere e proprie norme sintattiche. I podemi sono ventidue (circa, dunque, come i fonemi): le parole calcistiche sono potenzialmente infinite, perché infinite sono le possibilità di combinazione dei podemi (ossia, in pratica, dei passaggi del pallone tra giocatore e giocatore); la sintassi si esprime nella partita, che è un vero e proprio discorso drammatico».

Poesia e narrativa

Ma è venuto il momento di passare al Primo tempo, interamente dedicato ai rapporti tra calcio e poesia. Per evitare conflitti d’interesse, confesso d’essere stato citato in queste pagine, le quali, prevedibile ammissione, restano tra le mie preferite.

Agli innumerevoli nomi evocati e commentati con cura e attenzione, vorrei soltanto aggiungerne uno assente, quello dell’irlandese, premio Nobel, Seamus Heaney, che in una sua lirica scrisse: «Con quattro giacche a fare i quattro pali / marcammo il campo, e basta. Aree e corner / presenti come latitudine / e longitudine sotto gobbe e cardi, / da convenire o contestare solo /al bisogno».

Nel Secondo tempo troviamo invece opere narrative consacrate al calcio. Gnocchi riporta minuziosamente numerosi contributi provenienti da scrittori italiani e non. Al loro interno spiccano tre bei ritratti di Luciano Bianciardi, ideatore di una spassosa “Nazionale italiana degli scrittori”, Manlio Cancogni, che con Il mister ricostruì la controversa figura dell’allenatore boemo Zdeneˇk Zeman, e Giovanni Arpino, il cui Azzurro tenebra è il racconto quasi autobiografico delle peripezie del giornalista Arp, inviato al seguito di quella disastrosa nazionale che nel 1974 fu eliminata con disonore dai mondiali.

Cinema e musica

Giungiamo così al Primo tempo supplementare. Come in un immenso delta fluviale, ecco apparire altri due grandi rami del flusso connesso all’epopea calcistica. Adesso è il momento di presentare i frutti offerti prima dal cinema, poi dalla televisione.

Inutile dire che ognuno troverà i titoli a lui più cari, incontrando inoltre non poche scoperte. A tale proposito, vale la pena precisare che Gnocchi ci propone un libro aggiornatissimo, tanto che, tra le sue pagine, ci si imbatte sia in una ricostruzione della vittoria italiana agli ultimi campionati europei, sia in un’analisi dell’ultimo film di Paolo Sorrentino, È stata la mano di Dio, presentato alla recente Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia.

Con il Secondo tempo supplementare è la volta dell’universo musicale. Adesso l’autore non nasconde una certa prostrazione. Il perché è presto detto: «Le canzoni sul calcio sono infinite. Nei capitoli precedenti ho dovuto fare selezione, qui la selezione diventerà una autentica strage. Non sorprendetevi se non trovate brani acclamati come Luci a San Siro di Roberto Vecchioni o La leva calcistica del ’68 di Francesco De Gregori o Linea bianca di Enzo Jannacci o Baggio Baggio di Lucio Dalla o Diego Armando Maradona di Francesco Baccini o Nuntereggae più di Rino Gaetano. Non sorprendetevi se non trovate brani notissimi come Una vita da mediano di Ligabue o La dura legge del gol degli 883 o Notti magiche di Edoardo Bennato e Gianna Nannini. Non ci sono neppure Maradona y Pelé dei The Giornalisti, La vita splendida del capitano di Daniele Silvestri, Tu corri! dei Gemelli DiVersi, Maracanà di Emis Killa. Mi fermo, anche se ci sarebbe molto altro. Ad esempio, i brani che non hanno nulla a che fare con il calcio ma sono colonne sonore di pubblicità calcistiche, dal capolavoro Mas Que Nada di Jorge Ben in giù».

Dopo tale premessa, Gnocchi espone il suo progetto, suggerendo cioè una top ten tutta particolare, al cui interno rientrano tanto i brani che si cantano anche allo stadio (soprattutto nel suo stadio del cuore, lo Zini di Cremona), quanto classici del rock che hanno a che vedere con le curve e i tifosi. Ai lettori il piacere di scoprire quali.

Il linguaggio dello sport

Siamo così arrivati ai titoli di coda, sotto una didascalia, Calci di rigore, che reca il sottotitolo la libertà del calcio.

Al momento di tirare le fila del discorso, Gnocchi si domanda quale sia il vero motivo per cui amiamo questo sport. Ecco la sua risposta: «Quello che piace del calcio è la sua libertà così simile a quella della grande poesia. Quest’ultima ha le sue regole: la metrica, la prosodia, la rima. Il poeta le conosce bene, sempre, anche e soprattutto quando decide di ignorarle».

Segue una spiegazione che verte sull’accostamento tra Giacomo Leopardi e Andrea Pirlo. Come ho già fatto prima, anche in questo caso vorrei integrare le osservazioni dell’autore con una considerazione personale. Sono infatti convinto da tempo che esistano due “regole” curiosamente simili tra loro, pur in campi diversi come quelli della poesia e del calcio.

Da un lato abbiamo il cosiddetto enjambement, dall’altro il fuorigioco. Il primo sta a indicare il punto in cui il periodo o la frase, invece di terminare insieme al verso, lo travalicano, lo scavalcano, lo debordano, per terminare nel verso successivo. Si tratta di una “mossa” talmente importante che, a suo tempo, uno studio di Giorgio Agamben l’ha addirittura elevata a criterio distintivo tra prosa e poesia.

Il secondo termine lo conosciamo tutti, anche se le discussioni sulla sua applicazione sono ormai diventate più accese di quelle sul sesso degli angeli. Ora, provate a spiegare a un bambino o a un profano che cosa sono l’enjambement e fuorigioco: toccherete con mano la difficoltà di descrivere meccanismi tanto complicati.

D’altronde, l’idea di accostare sport e linguaggio (a partire dal tennis) viene da Ludwig Wittgenstein, debitamente evocato dallo stesso Gnocchi. Il grande filosofo austriaco, così vuole il mito, ebbe una illuminazione davanti a una partita di calcio a Cambridge: «Anche il linguaggio era un gioco. Era nata la teoria cardine di Wittgenstein: il gioco linguistico. Se il gioco funziona male, se parliamo male, cadiamo nel caos e nel dolore».

E visto che stiamo evocando grandi pensatori novecenteschi, concludiamo con una notizia niente male. Pare che Martin Heidegger fosse una discreta ala sinistra. Nel dopoguerra si innamorò di Franz Beckenbauer, libero del Bayern Monaco e della nazionale tedesca.

L’autore di Essere e tempo vide in lui l’incarnazione dell’eleganza, al punto da definirlo «insuperabile» nell’arte del dribbling e, nel complesso, un giocatore «geniale». A riprova di come le sirene del calcio siano ormai arrivate a permeare ogni minimo aspetto della nostra cultura.


Alessandro Gnocchi è autore del libro Il capocannoniere è sempre il miglior poeta dell’anno. Calcio e letteratura, edito da Baldini+Castoldi

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