Napoli è stata la prima città europea a liberarsi da sola dai tedeschi. Fu una liberazione precoce, a ridosso dell’armistizio, durante la prima fase dell’occupazione dell’Italia da parte degli ex camerati. Loro avevano la necessità di ritirarsi più a nord dinanzi alle truppe alleate che avanzavano da sud.

Questo era il contesto, ma la liberazione di Napoli fu un merito dei suoi cittadini: gli Alleati, infatti, aspettarono che i tedeschi se ne andassero per entrare in città, mentre questi ultimi intendevano prendersi il tempo di distruggere tutto quello che potesse tornare utile al nemico e di portare con sé migliaia di napoletani destinati a fare gli schiavi per il Reich.

Nelle intenzioni, tra i deportandi, attesi da sorte anche peggiore, c’erano le poche centinaia di ebrei appartenenti alla comunità partenopea. Lo scoppio dell’insurrezione, quindi la necessità di anticipare la ritirata, scombussolò tutti i piani, comprese le deportazioni degli ebrei che poterono iniziare solo successivamente, dalla Roma del 16 ottobre 1943.    

Nel film di Loy

Abbiamo pochissime immagini dell’insurrezione di Napoli del settembre 1943. Spesso, per raccontarla, si usano i fotogrammi del film di Nanni Loy del 1962, intitolato come l’evento storico, Le Quattro Giornate di Napoli. È un bel film che ha pure il merito di aver fatto conoscere al mondo cos’era successo in città. Tuttavia, esso è anche il propugnatore più efficace della versione “giovanilistica” e riduzionista della Resistenza napoletana.

L’idea che trasmette, involontariamente, è quella di una vicenda animata da qualche ragazzino che prende l’iniziativa e sconfigge uno degli eserciti più potenti del mondo, certo il più temuto. Questa degli scugnizzi in armi resterà a lungo un’immagine imbattibile per la storiografia, per quanto smentita dalle ricerche d’archivio più recenti che dimostrano, oramai con grande certezza, che a Napoli combatterono partigiani e patrioti non dissimili da quelli che impugnavano le armi nel resto d’Italia: uomini e donne di età adulta, di ogni ceto sociale e professione, civili e militari, mentre i più giovani (o i più anziani) furono presenti solo marginalmente.

Eppure il mito della scugnizzo  —tanto caro «al ceto politico laurino e democristiano, al governo della città tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento» (Cerchia, La seconda guerra mondiale nel Mezzogiorno), al quale conveniva affermare che la Resistenza di Napoli fosse stato un gioco da ragazzi — è per molti versi ancora duro a morire. Quell’Italia non esiste più, ma l’immagine è comunque rimasta, utile al folclore e alla fiction.

Lo sfastidio

Tuttavia, il film di Nanni Loy ha anche tanti meriti, si diceva. Tra questi, la capacità di restituire l’atmosfera di quei giorni, il sentimento, probabilmente comune non solo a Napoli, di “sfastidio” (chi mi legge mi perdonerà il regionalismo). L’“essersi sfastriati” non è solo noia o insofferenza, è una sensazione di disagio profondo che non può non trasformarsi in azione.

La parola viene dal latino fastidium, il quale a sua volta deriva da fastus e tedium, orgoglio e noia: significa sdegno, disprezzo. Insomma, i napoletani sfastriati erano stanchi e indignati, stufi, pieni di disprezzo per anni di guerra totale, con continui bombardamenti che avevano trasformato la città nel target per eccellenza, e la gente costretta a vivere nei ricoveri, un po’ per gli attacchi continui e un po’ perché le case venivano giù come castelli di sabbia.

Dopo l’8 settembre, i napoletani, come tutti gli italiani, si scoprirono pure nemici degli ex alleati che fingevano di non comprendere che il paese non poteva proprio più continuare una guerra che aveva perso. Loro pretendevano gli uomini, le scorte, le armi, e quando non le ottenevano con le buone, non esitavano a usare le cattive. Per l’Atlante delle stragi a Napoli avvennero, tra l’armistizio e la liberazione della città, ben 75 eccidi, con almeno 273 vittime. Non erano morti in combattimento, ma inermi ammazzati per rabbia o strategia. 

Lo “sfastidio” è il colmo della stanchezza, è la molla che ti fa scattare, che trasforma la rassegnazione  in frustrazione e poi rabbia, presa di posizione, opposizione, rivolta. Questo Loy ce lo racconta, ma soprattutto ce lo dimostrano i fatti, a partire da quanto durano: le Quattro Giornate di Napoli sono infatti durate 23 giorni.

I giorni di liberazione

La sollevazione che portò alla liberazione della città, 27-28 settembre – 1° ottobre 1943, fu infatti preparata e resa materialmente possibile dai giorni precedenti in cui ci si oppose alle pratiche di saccheggio e spoliazione, e ci si ribellò agli ordini di sfollamento e presentazione degli uomini: i tedeschi ne volevano 30mila, se ne presentarono 150.

Sebbene siano migliaia i napoletani che presero comunque la via del lavoro coatto, sul territorio nazionale e nei campi tedeschi, l’insurrezione conclusiva – le “effettive” Giornate – iniziarono proprio quando la Wehrmacht decise di andarsi a prendere la manodopera casa per casa. Fu allora che la misura risultò colma e la popolazione lo impedì con la forza. Il film ce lo racconta usando sapientemente la colonna sonora, quella tarantella tragica di Carlo Rustichelli che a tratti fa venire i brividi.

Lo “sfastidio”, sempre quello, era una molla che agiva su una base, un vissuto, un antefatto: non fu l’espressione di una collera improvvisa, come nelle tante jacqueries pre-moderne. Era invece il frutto dell’“antifascismo di guerra”, coltivato nei ricoveri sotto le bombe, e soprattutto dell’antifascismo “storico”, con i perseguitati del regime che tornavano in circolazione e partecipavano alla rivolta come e dove potevano.

È vero, non ebbero il tempo di organizzarla, di darle un ordine e una direzione, ma ciò non la rese meno politica nel suo svolgersi e nei suoi effetti. Del resto, non erano passati neanche venti giorni dall’armistizio, e viene quindi  «da chiedersi», scrive ancora Cerchia, «in quale parte d’Italia sarebbe stato allora possibile realizzare un pieno e maturo dispiegamento della lotta armata partigiana. Perché invece lo si pretenda da Napoli (…) resta un interrogativo storiografico di difficile soluzione».

La Resistenza di tutti 

A resistere fu tutta la città, donne e uomini come il professore bordighista Tarsia in Curia, l’operaio comunista Cacciapuoti, l’operaia Maddalena Cerasuolo e il misterioso Ezio Stimolo, a lungo descritto come un militare e che forse non lo era, ma che testimonia comunque la partecipazione di quel settore della società alla resistenza popolare. Oltre a loro, ci furono centinaia di altre persone non altrettanto narrate o ricordate, ma senza le quali una resistenza di popolo come quella di Napoli non avrebbe potuto neanche immaginarsi.

Le donne furono tante, sebbene i loro numeri ci siano noti per difetto. A guerra finita, non tutte chiesero un riconoscimento del ruolo svolto e, anche fra quelle che lo chiesero, solo alcune lo ottennero. Nella considerazione dei più, le donne – tutte, pure se avevano fatto la Resistenza nelle terre “riconosciute” del centro-nord – potevano al massimo aver svolto ruoli “ausiliari”, non certo aver combattuto come i maschi.

Si cominciò a distinguere su quanto, dove e come, e a dire che si era stati partigiani solo con una militanza costante, possibile solo in aree occupate a lungo o in circostanze eccezionali, ma solo utilizzando armi convenzionali. Contorsioni della burocrazia e della politica che si sarebbero riversate nella memoria.

Difficile e raramente percorso fino in fondo fu il viaggio del riconoscimento pubblico e della riconoscenza collettiva, per tante donne ma anche uomini meridionali o centro-settentrionali che, magari, avevano fatto la Resistenza civile o disarmata, le staffette o i portaordini, e si erano poi sentiti dire che la Resistenza vera era un’altra cosa.

È un po’ il destino che ha colto Napoli. Grazie alle Quattro Giornate, la lotta partenopea è entrata nella storia della Resistenza, ma un po’ come tutte le infrastrutture del sud: una cattedrale nel deserto, un’infrastruttura solitaria della storia. Invece, quello di Napoli fu un episodio importante, sicuramente il principale nel contesto meridionale, ma non l’unico, non un’eccezione.

Tutto il Mezzogiorno trovò il suo modo di resistere, ai tedeschi, ai fascisti, alla guerra. Dimostrando, tra le tante cose, che lo “sfastidio”, quando diventa politico, come fu per tanti italiani di ogni dove in quel ‘43, sa essere pericoloso. Lo fu per nazisti e fascisti, appunto, a partire da quell’estate di ottant’anni fa, quando iniziò la Resistenza.

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