«Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza». 

Con queste parole, pronunciate attraverso l’Eiar verso l’ora di cena, il maresciallo Pietro Badoglio l’8 settembre 1943 annunciava all’Italia che i suoi vertici politici avevano sottoscritto l’armistizio con gli Alleati. La resa incondizionata italiana era stata firmata cinque giorni prima, il 3 settembre a Cassibile, in provincia di Siracusa, ma secondo una clausola presente nello stesso documento, questo sarebbe diventato effettivo solo al momento dell’annuncio, che avvenne per l’appunto dopo alcuni giorni.

L’accordo tra gli italiani e gli Alleati venne comunicato alla popolazione solo dopo pesanti pressioni da parte di questi ultimi: essi, infatti, pretesero una netta presa di posizione da parte delle autorità governative italiane chiedendo loro di uscire dalle ambiguità degli ultimi mesi. La comunicazione di Badoglio avverrà solo un’ora prima che la notizia dell’armistizio sia diffusa dalla radio alleata di Algeri.

Lo spartiacque

Questa data rappresenta uno spartiacque per tutti gli italiani che hanno vissuto quel giorno, per le innumerevoli implicazioni politico-militari che quell’evento ha significato, in quanto esso ha tracciato una linea di demarcazione fra prima e dopo, poiché le condizioni per ogni singolo cittadino cambiarono radicalmente. 

La Stampa di Torino ha titolato a tutta pagina «La guerra è finita»; gli italiani da diverso tempo agognavano la pace, in tutti modi volevano che la guerra finisse. La sensazione della popolazione è quella di essere finalmente entrati nella fase di pacificazione, per poche ore si vivrà una situazione di calma apparente, si entrerà invece nei più tremendi e sanguinosi mesi che l’Italia conoscerà nella sua storia contemporanea. Venti tremendi mesi trascorsi tra un’inaudita violenza, principalmente per responsabilità tedesca e fascista, infatti i tedeschi trasformeranno l’Italia in un enorme campo di battaglia con lo scopo di impantanare l’avanzata alleata, contemporaneamente i fascisti asseconderanno attivamente questo modo di fare accanendosi su tutti i cosiddetti traditori del regime.

Il 18 settembre Benito Mussolini darà vita alla Repubblica Sociale Italiana, uno stato fantoccio eterodiretto dai tedeschi: la sua nascita segnerà un punto di non ritorno perché provocherà la guerra civile tra gli italiani.

L’alleato tedesco non era impreparato a quest’eventualità, infatti gli italiani avevano già tradito i tedeschi nella Prima guerra mondiale e nel 1939 all’inizio della seconda, non entrando in guerra come previsto dal patto di cobelligeranza, per questo già da tempo avevano progettato il Piano Alarich per occupare il Regno d’Italia nell’eventualità del mutamento delle posizioni italiane nella guerra. Già nella notte tra 8 e 9 settembre i tedeschi si mossero per occupare il territorio italiano e disarmare tutti i soldati italiani ovunque essi si trovassero, circa due milioni di combattenti suddivisi tra Italia (1.090.000 uomini) e stati esteri (900mila uomini tra Francia, Croazia, Grecia e Jugoslavia).

Il calvario dei soldati 

I soldati pagheranno un conto altissimo: chi non riuscirà a scappare tornando a casa, sarà arrestato e trasferito come I.M.I. in Germania o negli stati occupati; faranno questa fine circa 716mila soldati. Di questi, chi avesse giurato fedeltà ad Adolf Hitler, seppur arruolato nell’esercito tedesco, sarebbe potuto ritornare in Italia, mentre chi restava fedele al giuramento e alla patria rimase in quei campi, prima come internato, per non riconoscergli i diritti dei prigionieri di guerra, poi come lavoratore coatto per sostenere lo sforzo bellico della Germania; in circa 50mila non fecero ritorno a casa.

Solo una minima parte, circa 90mila, decise di combattere per gli ex alleati (tutte cifre Anei Treviso Pascale-Materassi). Per lunghi decenni quel no ad Hitler fu dimenticato, per tanti anni le sofferenze e i sacrifici di quei giovani soldati furono ignorati o peggio volutamente non considerati, oggi invece il comportamento degli I.M.I. è considerato una delle prime forme di Resistenza messe in atto dagli italiani. Alessandro Natta, ex segretario del Pci e prima ancora I.M.I., ha combattuto tanto per la memoria dei soldati: «Bisogna ricordare perché con l’altra Resistenza avevamo voluto lottare per i medesimi valori per i quali combattevano nelle città e sui monti i partigiani e i patrioti italiani. Perché tra i reticolati tedeschi eravamo diventati uomini liberi».

L’inizio della resistenza

Con l’8 settembre iniziò anche la Resistenza contro il nazifascismo; gli antagonisti politici del fascismo non avevano perso tempo, all’indomani della caduta del fascismo incominciarono ad organizzarsi, si creò un “comitato antifascista” che il 9 settembre si trasformò nel più noto “Comitato di Liberazione Nazionale” che guidò il movimento partigiano italiano. Le prime forme di resistenza sono soprattutto dei militari: con le battaglie di Porta San Paolo a Roma, Cefalonia, Rodi o Lero, dove i nostri militari cercarono di opporsi all’esercito tedesco. Solo più tardi si svilupperà il movimento partigiano legato ai partiti politici antifascisti.

Per alcuni questa data è considerata la “morte della patria” per come la si era conosciuta in precedenza, il fallimento della guerra fu fatale ad entrambi i poteri, fascismo e monarchia, che per decenni avevano guidato il paese. Galli Della Loggia venti anni fa sosteneva che la Resistenza, a causa delle sue caratteristiche ideologico-militari, non era stata in grado di rimettere in piedi quell’idea di patria risalente al Risorgimento e all’unità d’Italia. Sono sicuramente valutazioni molto difficili da compiere soprattutto perché in molti casi ci si avvale di criteri del tutto soggettivi.

L’alba della repubblica

A me pare abbastanza chiaro che a partire da quella data molti italiani presero coscienza di cosa volesse dire vivere in una dittatura, molti in quei 20 mesi dovettero sovra esercitare in maniera autonoma una coscienza lasciata dormiente per troppi anni. Questa situazione, personale e collettiva, preparò i presupposti per nuove aspirazione degli italiani che da quel momento vollero, e alla fine ottennero, una patria diversa da quella precedente, basata su una nuova concezione dei cittadini liberi e uguali; valori molti simili a quelli propugnati dai vari protagonisti del Risorgimento italiano come Mazzini, Garibaldi e Cavour. Quindi una rinascita e non una nascita. 

In questo senso prendo in prestito le parole di Natalia Ginzburg che così descrive questo cambio di passo: «Le parole “patria” e “Italia”… che ci avevano tanto nauseato fra le pareti della scuola perché accompagnate dall’aggettivo “fascista”, perché gonfie di vuoto, ci apparvero d’un tratto senza aggettivi e così trasformate che ci sembrò di averle udite e pensate per la prima volta. D’un tratto alle nostre orecchie risultarono vere». In questo modo dalle ceneri dell’8 settembre nasceva la repubblica e rinascevano gli italiani. 

                                   

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