«L’udienza fissata per il quindici riuscirà a portare un po’ di luce, anche se, come ritiene Wieser, soltanto una luce giuridica, in quelle tenebre, divenute col tempo stranamente sempre più fitte, che avvolgono l’uccisione della Konrad da parte del marito...».

L’architrave su cui si basa non solo La fornace, romanzo appena ripubblicato da Adelphi dopo anni di latitanza nell’editoria nostrana (l’unica edizione italiana uscì nel 1984 per Einaudi), ma tutta la poetica di Thomas Bernhard è contenuta in questa frase. Vediamo di analizzarla meglio: c’è un omicidio, ma di questo fatto di sangue Bernhard ci avvisa che si potrà arrivare soltanto a una verità giuridica, cioè a una verità parziale, di sicuro la meno interessante, mentre la verità umana resterà nella tenebra, ed è lì che, nonostante l’oscurità infittisca, la letteratura dovrà provare a guardare.

La fornace è un romanzo del 1970 e fa impressione riflettere su questo ribaltamento delle priorità narrative rispetto al diluvio di gialli che nel giro di qualche lustro avrebbe invaso le librerie di tutto il mondo. La verità giuridica, per dirla con l’espressione di Bernhard, che è il fine verso cui tendono tutte le narrazioni di genere, qui viene anteposta alla verità esistenziale e filosofica della vicenda.

Non conta chi ha ucciso chi – sappiamo fin da subito chi è il colpevole, non dobbiamo assistere a nessuna detection per scoprirlo – bensì tutto il resto, come e quando e perché si è arrivati all’omicidio, al gesto apparentemente eccezionale di un uomo agiato che prende a pistolettate la moglie.

Il fatto più importante, la vera epifania, è che per Bernhard quell’atto non ha nessun carattere di eccezionalità, o meglio di mostruosità. L’omicidio non è una aberrazione, uno sbandamento, una deviazione dall’ordinario, bensì un atto lineare, una conseguenza inevitabile, un gesto prosaico di cui si può rinvenire una logica ferrea andando a ritroso nella relazione coniugale della coppia uxoricida (meglio non tirare fuori l’amore con Bernhard, o si potrebbe arrivare a deduzioni catastrofiche).  

Sintassi da boa constrictor

Ma ovviamente il vero surplus di Bernhard risiede nella costruzione sintattica. Dire che è martellante, maniacale, vorticosa, persecutoria, ancora non le renderebbe giustizia. Forse andrà meglio con un’immagine: un boa constrictor che avvolge e soffoca la preda tra le sue spire.

Ecco, Bernhard procede esattamente alla stessa maniera: una volta che ha puntato un tema, state sicuri che gli si avvicinerà gradualmente finché non lo avrà sviscerato per ingurgitarlo, ci volessero anche pagine e pagine cadenzate soltanto da virgole e punti e virgola.

Già, ma di cosa va a caccia il serpente Bernhard? Invece di muoversi nelle foreste tropicali questo strano esemplare ha scelto un habitat apparentemente più rassicurante, strisciando furtivo nei teatri, nei musei e nelle villette austriache.

I suoi temi sono quelli universali, la paura della morte, del disfacimento, del nulla, riflessi nei particolari terreni (caduti nella Storia) del nazional socialismo (si veda L’origine), della grettezza borghese (su tutti Estinzione e A colpi d’ascia), dell’imperfezione artistica (di qualunque espressione artistica: si leggano in questo senso Antichi Maestri e Il soccombente).

Traditore della patria

Figlio di un padre che non conobbe mai e di una madre anaffettiva, giudicato dal suo paese come un nestbeschmutzer (anti nazionalista o traditore della patria), Bernhard ebbe come unico faro il nonno Johannes Freumbichler, anch’egli scrittore. Ma sarebbe ingiusto e di molto riduttivo leggerne l’opera alla luce della sua infelice storia personale.

D’altronde lui stesso scrisse un’autobiografia fittizia (L’origine, La cantina, Il respiro, Il freddo, Un bambino, sono i cinque tasselli che la costituiscono), dove alla fine del viaggio non c’è nessuna crescita, nessun superamento dei nodi nevralgici tipici della giovinezza.

C’è semmai un ritorno al mondo infantile non come fuga dai problemi adulti, bensì come beffardo annientamento del tradizionale romanzo di formazione. L’ultimo libro torna sui passi del primo, e tende a far coincidere attraverso un insolito moto circolare la fine con l’inizio: laddove ogni autobiografia si vuole lineare, qui la figura predominante è quella del cerchio.

Così come altri grandi pessimisti – da Arthur Schopenhauer a Giacomo Leopardi, fino a Emil Cioran – il privato è solo una nota a piè di pagina di un dolore più grande e lacerante, in tutto e per tutto metafisico. I problemi dell’uomo possono essere ruminati all’infinito, mai in ogni caso davvero risolti.

L’unica salvezza, semmai, consiste proprio in questo infinito monologare, in questa frase senza fine cristallizzata in letteratura. E se, com’è stato detto da più parti, la prosa bernhardiana può dirsi anche musicale, lo spartito sarà senza dubbio quello di un requiem per l’idiozia.

Giallo senza giallo

Non si sottrae alla ruminazione neanche su Konrad, il protagonista di La fornace, che se è innegabilmente colpevole dinnanzi alla legge forse potrebbe risultare assolto per la vita. Bernhard pare divertirsi con le regole del giallo perché lascia che a raccontare Konrad sia una congerie di occhi, i funzionari, i commercianti, gli spazzacamini, i pettegoli, gli abitanti del classico paesino gretto austriaco. Ma le opinioni più disparate dei testimoni oculari su di lui più che a costruirlo servono a finire di destrutturarlo.

Dalla polvere delle macerie resta solo questo rapporto coniugale sfinente, in cui l’atto comunicativo è difettato da un eccesso di zelo (come a dire che non solo la trascuratezza uccide i rapporti, che i rapporti non possono non morire, comunque li si viva): Konrad infatti sta redigendo un saggio sull’udito, e usa la moglie come cavia dei suoi esperimenti pseudo scientifici, bisbigliandole di continuo frasi all’orecchio, e non è questa la sorte di tutte le coppie sposate?

Pretendere l’attenzione costante dell’altro, cercare di farsi ascoltare, tentare di non fraintendersi? Bernhard si ferma sempre un attimo prima che la sua prosa nervosa si ingessi in un simbolo o in una metafora protratta, scrivendo un giallo senza giallo, tenendosi la suspense ma rivelando l’assassino alla prima pagina.

Letteratura come esagerazione

Non c’è autore che abbia inteso la letteratura come un’esagerazione più di Thomas Bernhard. Portare alle estreme conseguenze le proprie prerogative per diventare memorabile. Non c’è niente che lasci attoniti quanto il virtuosismo bernhardiano.

«Ripetitivo fino alla nausea, si ha l'impressione di girare in tondo e per ogni pagina di leggerne quattro. Si ha l’impressione che sarebbe potuto terminare dopo 100 pagine ma che avrebbe potuto scriverne anche 1000 sempre sullo stesso tono». Questo è uno stralcio di una recensione prelevata su Amazon, involontariamente illuminante (basta spostare la leva del giudizio da negativa a positiva).

Si tratta dell’elevazione dell’esagerazione, su cui Bernhard rimugina ossessivamente quando viene spedito in collegio. Poi si ricorda di suo nonno, che faceva lo scrittore, e butta giù un racconto al solo scopo di portarlo a Thea Leitner, un’agente letteraria. Leitner non dice una sola parola sul racconto di Bernhard ma, probabilmente mossa a compassione, gli offre di riordinare la sua cantina infestata dai ratti per una pagnotta e qualche scellino.

Come si può leggere in Antichi Maestri: «Anche se sappiamo che qualsiasi arte finisce nella goffaggine e nel ridicolo e nell’immondizia della storia, come peraltro tutto il resto, dobbiamo credere nell’arte grande e sublime, dobbiamo crederci fermamente, diceva. Noi sappiamo che cos’è, è un’arte raffazzonata, fallita, ma non possiamo tenere sempre presente questo fatto, o la nostra rovina, diceva, sarà inevitabile».


Il romanzo del 1970 di Thomas Bernhard La fornace (traduzione di Magda Olivetti, pp. 225, euro 19) è in uscita per Adelphi il 27 settembre

© Riproduzione riservata