La scrittura è una consolazione – un alleggerimento temporaneo del proprio dolore – innanzitutto per chi la fa: pochi autori rendono evidente questa affermazione quanto Emil Cioran. Mentre leggiamo Cioran si ha la contezza del sollievo che prova a inanellare i suoi pensieri.

Così dovremmo sempre mettere in conto, avendo a che fare con i suoi libri, di questa doppia voluttà medica, i suoi pensieri lo curano e ci curano al tempo stesso (e parte della nostra cura proviene dalla percezione della sua).

Ho usato una parola più ampia di “aforisma”, genere per il quale è noto e con cui ha toccato il vertice della sua prosa, perché Finestra sul nulla è un libro scritto ancora nella sua lingua madre, stilisticamente vicino all’immaginario romeno delle lacrime e dei santi, innervato di visione bibliche (il padre di Cioran era un sacerdote ortodosso), non ancora corrotto dal curaro dell’ironia francese.

Trecento fogli sciolti conservati e ritrovati alla Bibliothèque littéraire Jacques Doucet, a Parigi, probabilmente redatti nel 1944, in cui Cioran si prende ancora terribilmente sul serio, nonostante la sua abdicazione a dotarsi di un sistema sia in lui un fatto aprioristico, non discutibile e non negoziabile. Il suo impegno per rendersi un filosofo delle cose e non delle idee è feroce. Anni dopo al Café de Flore nel boulevard Saint-Germain – storico locale degli esistenzialisti – mandò a quel paese Albert Camus, la cui unica colpa era di spingerlo a un’idea di filosofia più impegnata. Il disimpegno e la serietà non sono elementi antitetici – lo annotò in Storia e utopia – per chi intenda il mondo come una sorta di galleria degli orrori o di sogni fortunatamente irrealizzabili.

Bisogna essere seri contro il mondo, al riparo dal mondo, e la garanzia della serietà è il proprio dolore (e si torna a quella particolarità unica di leggere il sollievo al dolore, quando si leggono i libri di Cioran).

Lacrime contro idee

Ecco perché non si dovrebbe recensire Cioran come un filosofo qualsiasi, riflettendo semplicemente sul suo pensiero. Si sente l’esigenza di contrapporgli la propria esperienza, per una sorta di bilanciamento critico, di armonia analitica. Così come esiste l’autofiction, Cioran esige un nuovo genere di recensione in cui chi scrive dovrebbe mettersi a nudo. Così, confesserò che Cioran mi ha salvato la vita in un momento decisivo.

Sui vent’anni avevo appena abbandonato la scuola d’arte drammatica di Milano ed ero ritornato a Pisa, in provincia. Da tutti quella retromarcia era apparsa come un terribile fallimento, e anche io stentavo a orientarmi, nonostante fossi molto lucido sulle ragioni che mi avevano spinto all’abbandono: fare la scimmia ammaestrata su un palco non mi si addiceva, e poi avevo trovato insopportabilmente snob e pretenzioso l’ambiente teatrale milanese.

Fu in quel momento che mi capitò in mano uno strano libro fatto da pensieri sciolti che mostravano però una grande coesione interna, una grande mente all’opera. Di che si trattava? Non era un libro di narrativa ma neppure un saggio di filosofia. Era una sequenza di pensieri sottili che mi illuminavano e mi liberavano. Si trattava di Squartamento di Cioran. Passeggiavo sul lungarno pisano di notte per rimuginare su quello che avevo letto di giorno, finché non mi liberai di quel senso di fallimento, o quantomeno lo accettai, prendendo a scrivere io stesso dei brevi aforismi alla maniera di quel nichilista pietoso.

Qualche anno dopo a Parigi andai nel quartiere latino in una sorta di pellegrinaggio alla sua mansarda di rue de l’Odéon. Se ne parlava come di un’infilata di chambres de bonne al quinto piano di un palazzo signorile, dove si era installato a scrocco di Simone Boué (la moglie, insegnante di scuola), dopo anni vissuti all’insegna della precarietà, trascorsi in alberghetti pidocchiosi. Non mi aprirono e allora cercai il suo numero telefonico sull’elenco. Dopo qualche squillo mi rispose la moglie, lui era scomparso da poco.

«Chi parla?».

«Un giovane scrittore italiano, ho citofonato al portone di casa ma nessuno mi ha aperto».

«Non apro a nessuno. Cosa voleva?».

«Visitare la casa».

«Perché?».

«Per sopravvivere».

Non c’è niente di più caro a Cioran quanto il tema della sopravvivenza. Sopravvivere, di fatto, è la sua ossessione, ed usa qualsiasi espediente filosofico per riuscirci. Non si parla di avvenire, badate bene, non si tromboneggia sulle sorti magnifiche e progressive, ma di fronteggiare il secondo che sta arrivando, di tenere testa al prossimo respiro.

Pensare al suicidio, ad esempio, evita di suicidarsi. Mettere in dubbio ogni postulato della realtà evita di assoggettarvisi. Straparlare di Dio ci risparmia di crederci. Scrive Cioran in uno di questi fogli sciolti che aveva scritto all’inizio del suo esilio parigino, neanche dieci anni dopo aver abbandonato la Transilvania: «L’imbecille fonda la sua esistenza solo su ciò che è. Non ha scoperto il possibile, la finestra sul Nulla...».

Lo spretato

Gli aforismi covano sotto la brace ardente di questa prosa ancora indomita, romena, incapace di darsi una regolata se non accedendo a un registro liturgico, in cui Cioran si comporta come un messaggero di Dio che si è spretato. «Una volta espresso, il sublime perde tutto. Non ha stile. Trasferiti nella parola umana, gli ultimi paesaggi della natura o del cuore assomigliano a disastri di cattivo gusto, o a tremende insulsaggini. La perfezione bandisce qualsiasi brusio».

Oppure: «L’estasi è la sola possibilità di irrompere ingenuamente nell’irreale. E la mistica l’unico mezzo di consolarsi – attraverso il nulla – del nulla». O ancora: «Quelle ore del pomeriggio quando, per non piangere, ci si rifugerebbe in qualsiasi cosa: nella follia, nel chiasso, nella Bibbia o nell’omicidio».

Gli aforismi chic di Sillogismi dell’amarezza o L’inconveniente di essere nati – ormai un marchio di fabbrica non solo di Cioran ma anche di un certo modo di essere francesi, un simbolo come lo sono la Torre Eiffel, lo champagne o il roquefort – sono ancora lontani dal venire.

In queste pagine invece si aggira un Cioran selvatico, non ancora rinchiuso in cattività nel francese (seconda lingua amata e detestata al contempo poiché a suo tempo gli dà l’illusione della libertà, salvo invece poi rivelarsi una seconda schiavitù), che può dedicarsi anche ad argomenti frivoli o residuali come la gelosia, regalandoci pagine che avrebbe potuto scrivere Shakespeare (se Shakespeare avesse fatto il filosofo): «I gelosi soffrono di un eccesso di immaginazione. Si compiacciono in ciò che non vedono. La gelosia non è che il tormento dei sensi nell’invisibile. Niente la disturba più della certezza, giacché la gelosia è il desiderio di soffrire a ogni costo».

Di tanto in tanto poi dalle braci vengono estratte singole frasi, quelle che poi lo faranno diventare un anacoreta pop, citatissimo a casaccio, dispensatore di meme fraintesi, singole frasi in cui esiste il nulla, brilla il nero, si materializza la dissoluzione. I suoi buchi neri di senso, per i quali non finiremo di ringraziarlo. «Nella vita ho avuto tempo solo per le delusioni».

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