Sono seduto nel fitto del bosco e ho paura. Intorno a me ci sono migliaia di alberi: faggi, soprattutto, e anche abeti e larici. A farmi rabbrividire non è quest’ombra densa, sono due file di paletti metallici, una gialla e una rossa, piantate per segnare i confini. Sono le tracce di una lite territoriale, indicano i limiti controversi di una proprietà. Quei piccoli manufatti gialli e rossi spiccano in questo caos selvaggio. Emanano odio, un odio gigantesco fra due uomini, un’ostilità che ha il potere di stritolare il mondo, anche se ha l’apparenza di una piccola contesa di paese. Tutta l’aria ne è oppressa; fa accapponare la pelle anche a me.

Il sindacalista in montagna

Come sono finito qui? Di solito ispeziono i luoghi di lavoro, per verificare che la sicurezza dei lavoratori sia tutelata. Il mio ruolo è previsto dal decreto 81 del 2008, il Testo unico sulla salute e sicurezza sul lavoro. Corro dappertutto a fare sopralluoghi. Da un paio d’anni lo faccio anche nei romanzi, per controllare le condizioni di lavoro dei personaggi: se sono vessati dall’autore; se la trama li costringe a svolgere ruoli improbabili, con forzature mortificanti, in ambienti linguistici tossici. Sono un sindacalista dei personaggi.

Invece del solito capannone o di un cantiere edile, questa volta sono salito in montagna. Non saprei dire come sono arrivato quassù, perché le indicazioni di chi mi ha chiamato erano strane. Mi è parso di finire in un mondo parallelo, che coincide con il nostro, ma non perfettamente. A cominciare dai nomi dei luoghi: il personaggio che mi ha convocato, più che farmi arrivare, forse voleva che io mi perdessi.

La città di Berua, che mi sono lasciato alle spalle poche ore fa, mi ricordava Vicenza. O era Belluno? O Bassano del Grappa? Oppure Feltre, Asiago, Vittorio Veneto? E questa infossatura geologica dal nome losco, Val Fonda, a cosa assomiglia? Il luogo di fantasia in cui si svolge il romanzo, Vallorgàna, di quale paesino reale potrebbe essere specchio? O, più che specchio, ombra. Un’ombra solida, greve, angosciosa.

Un crac

Ho letto Il Duca, il romanzo di Matteo Melchiorre, prima di venire qui, come faccio sempre per mettermi a disposizione del personaggio che di volta in volta chiede il mio intervento.

L’ho letto e ne sono rimasto conquistato. Mi è piaciuto così tanto che ho fantasticato di trasferirmi qui a Vallorgàna, mollando il mio ufficio in città pur di continuare a vivere la malìa irresistibile di questa piccola storia grandiosa, ritagliata in un angolo di provincia e capace di rappresentare i conflitti più vasti. È una storia che si svolge nel tempo presente, sì, ma un presente carico di secoli.

Da tanto tempo non leggevo un romanzo così potente. Melchiorre, con le sue fosche anticipazioni narrative, i suoi ritratti atterriti, mi ha conficcato in un clima di presentimenti, oscurità, minacce; è stato come lasciarsi travolgere da un pensiero notturno, con gli occhi sbarrati nel buio, nelle ore in cui si resta vittime del proprio pessimismo; esperienza benefica, perché poi, al mattino, ti fa rivalutare il mondo e la sua luce.

Oh, sì, ho fatto proprio bene, due anni fa, ad accettare di non essere un ispettore sindacale come gli altri, e di ascoltare anche la voce spettrale dei personaggi, oltre agli scontri sociali della realtà in carne e ossa!

Ecco che subito mi pento di quello che ho appena detto. C’è stato un crac, qui nel bosco, il piccolo schianto di un ramo spezzato, poi un trepestio; adesso una sagoma scura si muove verso di me. Alza la testa e mi guarda: è un vecchio ingrugnato, severo. Si ferma e mi parla: «Mario Fastréda», dice presentandosi. Vedermelo davanti, così, in piedi, nel declivio al di sotto di me, dovrebbe tranquillizzarmi: mi aspettavo un figuro più inquietante, e invece, tutto sommato, è un vecchio come tanti. Ma sapere chi è mi intimorisce. So perché: ho letto il romanzo di Melchiorre, che è stato capace di prendere le piccole beghe fra questo vecchio montanaro e un quarantenne aristocratico, e farle diventare uno scontro fra titani.

Glielo dico: «Lei nel romanzo mi ha fatto molta paura, sa?»

Lui non risponde.

«Le dispiace di avere impersonato il ruolo del cattivo?» insisto. «È per questo che mi ha chiamato?».

Lui mi fa cenno di seguirlo.

Mi indica un quadrato di bosco che è stato abbattuto, e una catasta di legna.

La riconosco: «Eccoli qua, i seicento quintali di legname che lei, signor Frastéda, voleva rubare… Cioè», mi correggo subito, «che lei voleva procurarsi nel terreno del Duca, per ottenere il riconoscimento dell’usucapione e appropriarsi legalmente di questi ettari di bosco». Faccio sempre così, con i lavoratori: riassumo l’inizio della storia, cito qualche dettaglio, per far vedere che ho studiato l’incartamento e sono preparato a difenderli.

Lui continua a tacere e a condurmi attraverso gli alberi. Stiamo scendendo, fra poco usciremo dal bosco.

Intravedo le cuspidi di un edificio, il tetto, i camini possenti: «La villa dei Cimamonte!», esclamo. Ci abita il nemico di Mario Fastréda: è il protagonista narratore, il quarantenne discendente di un’antica famiglia comitale; un conte, dunque, che però gli abitanti di Vallorgàna hanno soprannominato il Duca, per schernire la sua altezzosa misantropia. Il Duca, a quarant’anni, ha venduto le sue proprietà di Berua e si è trasferito qui a Vallorgàna, in accigliata solitudine, nella villa dei suoi antenati, spiazzando tutti con questa sua scelta. Poteva godersi la vita in città, a Berua o in qualunque altro posto: ma allora, perché un uomo ancora giovane, e ricco, è venuto a rintanarsi qui, sconvolgendo con la sua presenza enigmatica gli equilibri di una piccola comunità?

«La vostra contesa mi ha appassionato», dico al vecchio Fastréda. «All’inizio, in gioco ci sono soltanto seicento quintali di legna, e tre ettari di bosco che permetterebbero di aprire una strada per rivitalizzare l’economia di Vallorgàna. Poi però si capisce che a contrapporsi non siete solo il Duca e lei, signor Fastréda, ma due idee della vita e della storia umana».

Il presente stilizzato

Fastréda tace. Ormai mi sto abituando al suo silenzio. Stiamo camminando per le strade del piccolo borgo di Vallorgàna, fra le sue case sparse. Lo seguo e riprendo a parlargli. Gli dico che mi ha incantato il modo in cui Melchiorre è riuscito a immergersi nel presente senza piegarsi all’attualità più dozzinale.

«Rincantucciando la sua storia in questa valle assediata dai boschi», gli dico, «l’autore ha stilizzato la nostra epoca rendendola affascinante». Lo ha fatto a partire dalla scelta delle parole, nella sua scrittura elegante, con pochi scivoloni pomposi; compresi i suoi tic, come gli aggettivi che si presentano quasi sempre a coppie. A volte sono coppie di aggettivi volutamente incongrui, colgono la natura complessa, sfaccettata delle cose e dei fenomeni: «imprecisi e sfrenati», «antica e sconveniente», «chino e malintenzionato», «smodata e analfabetica», «caotico e famelico»; a volte sono coppie tautologiche, quasi sinonimi amplificanti o confermativi: «evidente e scontato», «stanche e stremate», «confusa e sfuocata», «limpido e cristallino», «letale e pericolosa» (ce ne sono a dozzine). 

Stilizzando il mondo e la sua lingua, l’autore deve avere accettato con una certa riluttanza di scrivere parole come “jeep” o “bar”. In compenso, è formidabile la sua onomaturgia narrativa, cioè l’invenzione dei nomi dei personaggi, gli abitanti di Vallorgàna, alleati di Fastréda o del Duca: i cognomi testimoniano che ci troviamo in una comunità alternativa, una sfasatura sociale rispetto al resto d’Italia: oltre a Mario Fastréda, ci sono Nelso Tabióna, Dina Cristi, Roberto Moschèr, Ilario Barile, Antonio Sgólda, Gianfranco Coltiàlt, la famiglia dei Saccolét e quella dei Brent…: dettagli, ma fondamentali per dare consistenza e plausibilità a un ambiente. È anche con questi espedienti che lo scrittore ci mostra che il suo mondo è simile ma non identico al nostro.

A proposito di questo, mi viene in mente un altro dettaglio. Lo dico a Fastréda: «Mi ha colpito che voi, in paese, se dovete incontrare qualcuno, non provate quasi mai a telefonargli ma vi avviate a piedi per vedere se è in casa. E vi perdete di vista per settimane, senza scambiarvi messaggi al telefono». Anche questo è un indizio di come Melchiorre abbia voluto raccontare un ambiente contemporaneo e però non del tutto coincidente con quello che viviamo, una trascendenza che va al di là del realismo spicciolo, e trabocca nel simbolismo universale. Non lo ha fatto esagerando gli elementi fantastici, come nei romanzi di Dino Buzzati, ma utilizzandone una piccola percentuale. In questo modo è riuscito a ottenere un sortilegio credibile, cupamente seduttivo.

La finzione di Melchiorre è possibile grazie a questi procedimenti: stilizzare la lingua; impastare il presente col passato; limitarsi a un piccolo paese, tagliando via il resto del mondo e la sua nervatura elettronica: tutto ciò permette al romanziere il suo stile alto, lontano da una scrittura nervosa (e quasi inevitabilmente nevrotica: non si può che scrivere nevroticamente, se si racconta l’oggi). D’altronde, il suo è un romanzo che cerca di reincantare il mondo. Il rischio è quello dell’impostura; ma a sventarlo ci sono gli argomenti smaliziati che Melchiorre mette in bocca al Duca: per esempio quando fa notare che la montagna è un luogo al passo con i tempi, per nulla arretrato, e dell’attualità cova tutti i vizi. Il reincantamento include anche il Male, non è una facile scappatoia idilliaca. 

Parlo a Fastréda della visione per nulla consolatoria della natura in questo romanzo; il bosco incolto non è visto come una salvezza; al contrario, incombe soffocando Vallorgàna e tutta la civiltà, la nostra bolla illusoria. È una nuova foresta di Birnam che avanza verso Dunsinane: questa volta non per spodestare Macbeth, ma per scalzare la sopraffazione umana sugli altri esseri viventi, l’egemonia dell’Antropocene. Questo romanzo convincerebbe lo scrittore indiano Amitav Ghosh (l’autore del saggio La grande cecità, Neri Pozza, su romanzi e cambiamento climatico) e la studiosa Carla Benedetti (La letteratura ci salverà dall’estinzione, Einaudi), che in questi anni giustamente pretendono dalla letteratura un pensiero e un’immaginazione artistica all’altezza dei guai del pianeta.

«Melchiorre ha saputo rovesciare le gerarchie tra figure e sfondo», dico infervorandomi, «tra personaggi e ambiente, tra esseri umani e paesaggio, perché il bosco a un certo punto diventa protagonista». A tre quarti della storia, infatti, c’è un colpo di genio narrativo: succede qualcosa che, proprio nel momento in cui siamo maggiormente appassionati alle sorti del Duca, ci coinvolge con qualcosa di più grande delle vicende che lo riguardano.

Il lusso del passato

Mario Fastréda mi precede di qualche metro, continuando a darmi le spalle. Si è fermato davanti a una casa. Accanto c’è una costruzione più ampia, un edificio di servizio. «Queste sono le stalle, giusto?» gli chiedo.

Lui si volta ma non apre bocca.

«Dico bene, Fastréda? Lei vive qui? Perché non mi risponde?»

Finalmente mi parla: «Sono rimasto zitto perché volevo farle capire come mi sono sentito, dentro questo libro».

«E cioè?»

«Volevo farle vivere l’irritazione che ho provato io nel non sentire la mia voce», dice sfogandosi. «L’autore ha raccontato questa storia dal punto di vista del mio nemico, il Duca, dando la parola a lui: un privilegiato, uno che in casa ha l’albero genealogico dei suoi antenati, conserva le testimonianze sulla sua famiglia, che affondano nel Medioevo… Possiede l’antichissima Chronica della sua stirpe, le pergamene con le biografie di trisnonni e avi e capostipiti… Oltre ad avere ricevuto in eredità un patrimonio che è il frutto di antichi soprusi sulla povera gente, a questo fannullone è concesso pure il lusso di capire sé stesso attraverso lo studio dei suoi ascendenti, recuperando le loro storie lugubri o violente: può riconoscersi nel loro carattere torbido, e analizzare gli slanci del suo animo a partire da come si sono comportati loro nel passato».

«Mi sembra però che il Duca ne sia consapevole», obietto. «Ed è anche molto autocritico».

«Eh certo, anche la sua consapevolezza è un privilegio! Noi poveracci, figli di nessuno, dobbiamo guadagnarci tutto quello che abbiamo; e anche ciò che siamo dobbiamo sudarcelo! Non solo il denaro per vivere, ma anche la nostra identità, la coscienza di noi stessi va conquistata. Quel poco che riusciamo a comprendere di come siamo fatti e di cosa possiamo fare nella vita, non ce lo dice la storia né il blasone del passato, che certamente non possediamo, ma le nostre misere necessità quotidiane».

«E lei, signor Fastréda, avrebbe voluto che l’autore le avesse dato più spazio, più voce, facendo raccontare questa storia anche dal suo punto di vista?»

«Sì, perché Melchiorre è talmente bravo che, lasciando la parola al Duca dalla prima all’ultima pagina, fa schierare i lettori dalla sua parte, li manipola».

Le sue rimostranze mi fanno quasi sbottare: «Su questo non sono d’accordo!», gli dico. «Perché Melchiorre è ancora più bravo di come dice lei. Sebbene questa storia sia raccontata faziosamente dal Duca, leggendola io ho tifato anche per lei, signor Fastréda, e ho compreso in pieno le sue ragioni. È un romanzo magnifico anche perché riesce a parteggiare per tutti e due i contendenti, come una partita a scacchi in cui si spera che vincano sia il bianco che il nero, pur senza appiattire le differenze di fra i due avversari: e cioè senza che il nero (cioè lei, Fastréda) smetta di fare paura».

«È sincero, o dice così per tenermi buono?»

«Certo che sono sincero! E glielo dimostro: quando entra in scena sua nipote a complicare le cose…»

«Maria».

«Sì, lei. Be’, il modo in cui Maria prende contatto con il Duca, come riesce a incuriosirlo, bucando il suo isolamento, e come poi…»

«Ssst!», mi fa lui, portando un dito alle labbra.

«Non devo parlare?»

«Qui a Vallorgàna non hanno ancora visto il romanzo».

«Non vuole che si sappiano certe cose?», gli chiedo, abbassando la voce.

«Al contrario. Non voglio che lei gli rovini la lettura svelando che cosa succede».

Capisco allora che Mario Fastréda, dopo che l’ho rassicurato, in realtà è orgogliosissimo di stare in un romanzo simile. È un cattivo diverso dal solito, un antagonista dal destino imprevedibile, un duellante come non se n’erano mai visti. Un personaggio che, insieme al Duca, lascerà il segno nella nostra letteratura.

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