Nel maggio del 1973 la Státní bezpečnost, StB, la terribile polizia segreta cecoslovacca, ha aperto un fascicolo riguardo a Philip Roth. Era venuto a Praga, dicevano gli informatori, per incontrare alcuni personaggi sospetti. Membri della resistenza sotterranea al regime stalinista.

Inoltre, Roth era noto come «favorevole al sionismo internazionale»: un modo per mascherare da crimine politico una profilazione antisemitica. La StB aveva determinato che Roth, noto soprattutto per le sue spiccate doti di spionaggio, era entrato in Unione Sovietica in incognito, munito di un visto turistico, per prendere contatto con persone di interesse che (cita il fascicolo) «nel 1968 avevano partecipato attivamente allo sviluppo di una corrente di destra» nell’allora acclamata Čssr, la Repubblica Socialista Cecoslovacca. Insomma, che avevano preso parte alla Primavera di Praga. Erano tutti intellettuali, scrittori, poeti, saggisti: Ivan Klíma, il critico A.J. Liehm, Stanislav Budín, il poeta Miroslav Holub, Ludvík Vakulík, e, ovviamene, Milan Kundera.

Da allora, la Cia fece in modo di munire Roth di un visto speciale dal nome in codice TURISTA, che gli garantisse di poter visitare la Cecoslovacchi quando e come gli pareva senza essere preso di mira dai servizi segreti.

Ci era stato per la prima volta nel 1972, senza alcuna mira rivoluzionaria o controrivoluzionaria: voleva vedere il posto nel quale Franz Kafka era cresciuto. Lì, caratteristica che lo avrebbe accompagnato fino ai suoi ultimi giorni di vita, si era fatto degli amici. Che fossero amicizie invise al regime non fece che consolidarle.

Dopo il primo incontro con Kundera, che a quei tempi era tra gli scrittori sovietici più perseguitati in assoluto, visto il successo che stava riscuotendo all’estero, e che dopo aver perso il suo lavoro come insegnante non poteva nemmeno godere dei profitti delle traduzioni dei suoi libri e dei suoi articoli perché venivano immediatamente confiscati, Roth decise che avrebbe provato a fare qualcosa per aiutare i suoi amici che vivevano al di là della cortina di ferro.

Nacque Writers from the Other Europe: una serie di volumi che raccogliesse in traduzione le migliori voci dall’est Europa. A inaugurarla fu la raccolta di racconti Amori ridicoli, pubblicata nel 1968 e tradotta per la prima volta in italiano nel 1973 da Serena Vitale per Mondadori, e poi da Giuseppe Dierna nel 1988 per Adelphi, proprio di Kundera.

L’ironia intellettuale

L’idea della serie di disavventure sessuali dei protagonisti mandava Roth in visibilio. Tutto intorno ai racconti si scatenava uno dei peggiori regimi di controllo totalitario che il mondo occidentale abbia mai visto dopo la fine della Seconda guerra mondiale, eppure Kundera era ancora in grado di concentrarsi sulle spassose bassezze umane.

Era il senso della scrittura, quel potere di infondere vitalità anche nella peggiore delle quotidianità, che lui non avrebbe fatto che inseguire per tutta la sua carriera e che incarnava il collante che avrebbe cementato l’amicizia tra i due romanzieri malgrado la barriera linguistica – Kundera non parlava inglese: era sua moglie, Vera, a fargli da interprete. Se è vero, come ha scritto il suo biografo Blake Bailey, che Roth «ballava a un ritmo che non aveva niente a che fare con la realtà condivisa, ma questo suo esistere fuori tempo lo divertiva più di ogni altra cosa», Kundera in questo senso è stato il suo maestro.

Lo scrittore in lingua yiddish Isaac Bashevis Singer aveva un meraviglioso modo di esprimere la sua allegria, descrivendo cosa avrebbe fatto se fosse stato una persona più emotiva, ma senza tradire nessun mutamento fisico. Quando Salman Rushdie gli chiese se non fosse contento per aver ricevuto il premio Nobel per la letteratura, Singer non si scompose: «Contento?», disse, «Salto a destra, salto a sinistra, salto avanti e salto indietro dalla contentezza», mentre ovviamente i suoi piedi stavano ben ancorati a terra.

L’essenza dell’amicizia tra Roth e Kundera viveva in qualcosa del genere: un sentimento espresso a parole e confermato dai fatti, ma difficilmente ostentato. Lo scrittore cecoslovacco, maestro di una sorta di ironia intellettuale, è passato alla storia come un uomo difficile da decifrare. Roth, invece, per i suoi amici era un libro aperto.

Angeli e demoni

Dopo essere fuggito dalla Cecoslovacchia e aver trovato riparo in Francia nel 1975, Kundera andò a trovare Roth in Connecticut. Nel corso di quello che anni dopo Roth avrebbe definito «un bel weekend tra amici» parlarono a lungo di letteratura e dello stato delle cose in Europa dell’est.

In particolare, in una conversazione poi pubblicata sul New York Times in occasione dell’uscita americana di Il libro del riso e dell’oblio (Adelphi, tradotto da Alessandra Mura nel 1991 nella sua versione più recente) e apparsa assieme ad altre nel volume Chiacchiere di bottega (uscito in Italia nel 2001 per Einaudi), Kundera dà la sua definizione di umorismo: «Ho imparato il valore dell’umorismo durante il terrore staliniano. Avevo vent’anni. Avrei riconosciuto al primo colpo i non stalinisti, coloro dei quali non dovevo avere paura, dal modo in cui sorridevano. Il fatto di possedere un senso dell’umorismo era un’segno di riconoscimento molto attendibile. Da allora il pensiero di un mondo senza senso dell’umorismo mi terrorizza».

Peggio dell’assenza di senso dell’umorismo, probabilmente, è solo la risata demoniaca, che Kundera definisce, proprio nel Libro del riso e dell’oblio, come la gioia satanica di non trovare un senso nel mondo; opposta alla risata angelica, che invece si nutre del significato dell’esistenza.

«A qualcuno cade il cappello e va a finire sulla bara appena calata nella fossa, e il funerale perde completamente di significato mentre esplode la risata dei presenti», continua Kundera parlando con Roth, «Due innamorati camminano ridendo mentre si tengono per mano: la loro risata non ha nulla a che vedere con le battute di spirito o con l’umorismo. È la risata seria degli angeli che esprimono tutta la loro contentezza solo per il fatto di esistere».

Attitudine lirica

Molto di ciò che Roth e Kundera si sono detti negli anni della loro frequentazione ha avuto a che fare con l’umorismo e con l’analisi di ciò che si poteva definire divertente, spassoso, da ridere. Quell’“attitudine lirica alla vita” che il cecoslovacco ha spesso citato e fatto citare ai propri personeggi.

Per Roth, esplorare le esistenze di chi gli stava intorno era qualcosa di simile a un hobby elevato: si nutriva delle vite degli altri, non ne era solamente curioso. Voleva capire come gli altri vedessero il suo intorno – e molto spesso e con meno nobiltà d’animo analizzare come vedessero lui – e in questo modo completare e arricchire la propria visione del mondo.

L’umorismo, la risata, in questo senso era fondamentale, e il fatto che Kundera considerasse l’allegria come “motore infinito di tutto ciò che succede” è probabilmente l’elemento che più di tutti ha fatto scattare la scintilla e ha acceso la curiosità di Roth.

Il fatto di saperla mettere sul ridere anche di fronte alla dissoluzione del proprio paese e alla potenziale distruzione della propria vita era qualcosa alla quale Roth aspirava. «Ci sono stati tempi bui, ma mai tempi tristi», per tornare a citare Singer con un mantra che avrebbe fatto bene al caso.

Nella biografia Roth scatenato (pubblicata da Einaudi per la traduzione di Anna Rusconi), Claudia Roth Pierpont dice che «da quando si incontrarono, Kundera e Roth ebbero speso bisogno di ridere, e lo fecero ogni volta».

Quel bisogno, quella necessità è ciò che li ha tenuti uniti ed è probabilmente anche ciò che inconsciamente Roth andava cercando a Praga la prima volta che ha sfidato il regime stalinista e la polizia segreta per farsi degli amici pericolosi. Quello, e il terrore condiviso di un mondo senza il senso dell’umorismo che ha spinto entrambi, in due modi completamente diversi, a provare a generarne ogni volta che ne hanno avuto occasione.

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