È da Totò che si deve partire per quest’ultimo viaggio tra i film che hanno fatto diventare gli italiani quel che sono, da lui come sempre - o quasi sempre - perché nella sua figura pubblica e nella sua parabola privata si è concentrata la complessità, quella matassa sottovalutata di fili che chiamiamo sfumature.

Una malinconica maschera della risata che si è comportata da socialista, ma pure un burattino snodabile, improbabile, che ci teneva a farsi chiamare principe di Costantinopoli, di Cilicia, di Tessaglia, di Ponto, di Moldavia, di Dardania e del Peloponneso, duca di Macedonia e di Illiria, conte di Drivasto e di Durazzo. Eppure, eppure, al marchese che pretende di sfrattare Esposito Gennaro netturbino dalla tomba affianco, nel cuore della notte, in un cimitero, severamente dice che la morte è una livella. 

Dunque l’assurdo Totò, l’umano Totò, il matto Totò, il dolce Totò, proprio questa marionetta della leggerezza, tra la miseria e la nobiltà, ci ha fatto molto ridere da finto zio di una giovane Sofia Loren, quando le diceva che «questa nipote me la vorrei [schiocco della lingua] interrogare», o quando le prometteva di accoglierla in seno alla famiglia, chiedendo in cambio pari trattamento, con meno metafora e più carnalità.

Era il ‘62 quando una sceneggiatura di Castellano e Pipolo lo infilava in una delle sue truffe con la faccia dipinta di nero, l’anello al naso, nei panni e nel corpo di un falso ambasciatore del Katonga, un imbroglione che di fronte all’originale finisce per chiedergli: «Scusi, ma lei è stato al mare?».

È sempre Totò a definire le donne «inopportune, prepotenti, incoscienti, maligne, superficiali, egoiste, invidiose, noiose, esose, sì anche esose»; ancora lui ha rasato i capelli a zero alla madre di Penelope e l’ha chiamata racchia ne I due colonnelli, proprio così, una racchia. Bizzarro, molto bizzarro, perché Totò principe-persona-maschera è la voce sensibile da cui abbiamo sentito esporre una visione del mondo in cui gli uomini veri sono vessati dai caporali.

E noi chi siamo, uomini o caporali, ci chiede da sessant’anni Totò, gli ultimi o gli egemoni, chi abusa o chi è abusato, oppure tutt’e due le cose: una volta l’uno e una volta l’altro? Per i gradi e per le gerarchie doveva avere una passione.

Se si trova di fronte un Fabrizi, un Peppino, un Mario Castellani, un interlocutore che non è affatto un maresciallo, un generale, un commendatore, Totò lo rassicura, «lo sarà, lo sarà», gli dice, perché è un uomo di mondo, ha fatto tre anni di militare a Cuneo, conosce la maniera in cui vanno le cose in Italia, cerca di ammorbidire la tributaria, è stato perfino populista prima dei populisti, («A proposito di politica, non ci sarebbe qualche coserellina da mangiare?»), è stato sessista prima che ne fossimo circondati («Il diavolo si è arrabbiato perché gli ho rotto le corna? Ma non si deve preoccupare: tanto, se è sposato, gli ricrescono»). 

Il nostro Dumbo?

Qualche anno fa, il giornalista Alessandro Chetta si domandava nel suo libro Cancel Cinema se per caso Totò non fosse allora il nostro Dumbo, un passato cioè al quale apporre degli asterischi o dei disclaimer, come hanno fatto in America con l’elefantino, oppure con Via col Vento, per segnalare il lento mutare di segno e di percezione in chi guarda. «Cos’accadrebbe se quel fiore ipermoralista mettesse radici anche in Italia?» si domandava Chetta.

Veniva da pensarci qualche settimana fa, quando sui social hanno duellato Selvaggia Lucarelli e Luca Bizzarri di fronte alla notizia di un dibattito all’Università di Bologna su sessismo e stereotipi di genere in Amici Miei.

Girava una foto in rete, senza molti altri dettagli, chi c’era, chi non c’era, ma è stato sufficiente a riscaldare ancora le braci di quella materia che un giorno abbiamo finito per chiudere dentro dei barattoli, con l’etichetta woke, buonismo, politicamente corretto, infine appunto cancel culture, un grosso magma nel quale si trova di tutto: qualche volta per amore di slogan, qualche altra per approssimazione, più spesso per un calcolo politico.

La necessità di inserire ogni uscita in un contesto obbliga a tener conto di chi dà spessore artistico o intellettuale a una provocazione, distinguerlo dalla deriva pecoreccia di chi va a farsi una risata sulle spalle di qualcuno, in genere più debole. Ma non è questa l’età dei distinguo. È più frequente sentire invece il nuovo classico degli apericena: ma allora non si può dire più niente. 

Forse la colpa è di certe parole che vengono da lontano e che assorbiamo. Forse sarebbe più chiaro se invocassimo la banalità della buona educazione, la riservatezza, che è sempre esistita finché non abbiamo cominciato a chiamarla privacy. A quel punto sono nate le norme e la loro violazione.

Quando era solo pudore e cortesia, se il tuo vicino aveva avuto la poliomielite da bambino, non gli facevi l’imitazione di Kaiser Sozee, nessuno per questa buona creanza ti faceva sentire esagerato. A un carabiniere una barzelletta su di lui non la racconti. Dice: ma, dai, era uno sfottò. Può darsi. Il punto è lasciare all’offeso la libertà di decidere se si è divertito.

Lo sfottò in assoluto non esiste. Esistono amici che si prendono in giro - ma quelli in genere sono reciproci, un giorno io a te, domani tu a me. Se non ci conosciamo, se prende di mira sempre gli stessi gruppi, lo sfottò si chiama in altro modo. Dice: ma l’abbiamo sempre fatto. Ecco, facciamo che adesso ci siamo stancati. 

La carta bianca

Qualche settimana fa dall’Inghilterra, l’ex calciatore Gary Lineker che lavora in BBC ha confessato che fa fatica a capire perché certa politica consideri la parola woke un insulto, perché avere una coscienza sociale debba essere deriso. Woke o non woke, questo è il dilemma, avrebbe aggiunto un altro inglese che di drammi ne sapeva. Pure lui non se la passa bene, una volta rileggono Otello, un’altra volta Romeo e Giulietta sono un cattivo esempio, perché facevano sesso prematrimoniale.

Il punto è che le acque dell’ipocrisia e della doppiezza si sono agitate il triplo da quando Cancel Culture è sulla bocca della politica, quando è diventato un ombrello sufficientemente ampio per farci stare sotto questioni serie, serissime e colpi di sole, certi eccessi che sviliscono le battaglie vere, e le neutralizzano. Ma mi faccia il piacere, avrebbe detto Totò.

Il guaio è che non esiste l’oggettività delle quisquilie e delle pinzellacchere, ognuno porta i suoi traumi, le sensibilità sono sfumature di segno e non sono neppure uguali in ogni paese. Si comincia con uno stereotipo che nel ‘62 faceva ridere e si resta convinti che sia ancora una bella battuta. La frase di Berlusconi a Barack Obama non era molto diversa da quella del finto ambasciatore di Katonga.

Il prisma deformato mostra un mondo al contrario. Ci ragionava Giuliano Ferrara sul Foglio, a leggerlo pareva pentito degli anni spesi a battersi contro chi avvertiva che «ogni limite ha una pazienza», così considerava che «il tentativo di pensiero di una destra banalizzante, che imbroda e pasticcia tutto quello che tocca, si abbatte ora come una vendetta riparatrice sulle cose scorrette che dovevano riordinare, disciplinare, impreziosire le coordinate troppo ovvie dell’esistenza sociale e individuale, sull’idea che anche il moderno abbia bisogno di contraddizione. Un brutto affare. Difficile districarsi».

In un passaggio successivo è stato perfino più esplicito, aggiungendo che «in qualcosa avremo dunque sbagliato, visto chi si presenta ora a renderne conto e ragione in una situazione così stravagante». Se ci fosse Nanni Moretti nei paraggi, direbbe: ve lo meritate Alberto Sordi. Bastava tenersi Totò e il suo «parli come badi», lui sapeva bene che la libertà di parola non è un campo aperto, ma un’assunzione di responsabilità.

Ne I due colonnelli a un certo punto si presenta un militare, no, non un generale, si presenta il maggiore Kruger convinto di poter fare e dire quel che vuole. Imposta petto e mascella, alza la voce, grida che ha carta bianca. Totò allora glielo disse, cosa poteva farsene della carta bianca. Non fu politicamente corretto, no, nemmeno quella volta, ma glielo disse.

Puntate uscite in precedenza: Un americano a Roma (30 giugno), La meglio gioventù (7 luglio), C’era una volta in America (14 luglio), Rocco e i suoi fratelli (21 luglio), Il gatto a nove code (28 luglio), Todo Modo e Il Gattopardo (4 agosto), Basilicata coast to coast e Cristo si è fermato a Eboli (11 agosto), Vacanze Romane (18 agosto).

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