A distanza di sette anni, a Lesbo giovedì e venerdì le prime udienze a carico di 24 attivisti che hanno svolto lavoro umanitario per assistere le persone migranti in pericolo in mare. Il soccorritore irlandese è stato arrestato nel 2018 con la nuotatrice siriana Sarah Mardini per oltre cento giorni. Amnesty: «Le accuse sono completamente infondate»
«Sono accusato di crimini molto gravi: prima di essere una spia, ora di essere un trafficante. E la stessa procura sembra non voler procedere. Perché? Perché non ci sono prove che sostengano le accuse». Seán Binder parla da un’aula del tribunale di Mitilini, a Lesbo, dopo sette anni dal suo arresto, in un processo che viene definito il più grande caso di criminalizzazione della solidarietà.
Attivista irlandese e soccorritore volontario, oggi avvocato 31enne, nel 2017 ha deciso di andare sull’isola greca per aiutare le persone in pericolo in mare, lungo la rotta migratoria che dalla Turchia porta alla Grecia. Un anno in cui hanno perso la vita o sono state dichiarate scomparse oltre 3mila persone. Binder ha quindi iniziato a svolgere attività di ricerca e soccorso con l’organizzazione Emergency Response Centre International (Erci), pattugliando la costa greca, individuando gommoni in difficoltà e assistendo le persone che riuscivano a raggiungere il territorio europeo.
Fino al suo arresto, nel 2018, che lo ha portato in carcere, insieme alla nuotatrice agonistica siriana, Sarah Mardini, arrivata sulle coste greche con la sorella Yusra – campionessa di nuoto e parte della squadra olimpica dei rifugiati – a bordo di una imbarcazione in avaria, con altri 18 passeggeri, che entrambe hanno contribuito a salvare dall’annegamento.
In fuga dalla Siria, sono arrivate in Germania, ma Sarah non aveva dimenticato Lesbo e ciò che aveva vissuto. Ha quindi deciso di tornarci e di aiutare Ecri come mediatrice. Una notte Mardini e Binder, durante un turno di pattugliamento, sono stati avvicinati dalle forze dell’ordine e portati in questura. Qui, hanno passato due notti senza conoscere le accuse a loro carico. Poi, gli arresti – Mardini in aeroporto mentre stava per tornare in Germania – e il rilascio su cauzione dopo oltre cento giorni di custodia cautelare.
Il processo
Binder e Mardini sono due dei 24 attivisti imputati nel processo iniziato giovedì a Lesbo, proseguito nell’udienza di venerdì, e che dovrebbe chiudersi a metà gennaio. Al centro accuse gravissime, per cui se condannati rischiano fino a 20 anni di reclusione: appartenenza a un’organizzazione criminale, riciclaggio di denaro e favoreggiamento dell’ingresso irregolare di persone. Le accuse di reati minori invece – falsificazione, spionaggio e uso illecito di frequenze radio – sono state ritirate per questioni procedurali, in un altro filone chiuso tra il 2023 e il 2024.
Gli attivisti hanno dovuto aspettare anni, vivendo in un limbo. «È davvero frustrante aspettare così tanto tempo per un processo che avrebbe dovuto svolgersi sette anni fa», dice Binder a Domani. Per l’avvocato della difesa, Zacharias Kesses, c’è «riluttanza a chiudere questo caso».
Dietro l’attesa, aggiunge il soccorritore, si nasconde la mancanza totale di prove: «In questi due giorni la tesi dell’accusa è praticamente crollata. Il loro primo testimone ha detto che siamo stati criminalizzati per attività umanitarie. Il secondo ha confermato che abbiamo collaborato con la Guardia Costiera. Quelli successivi hanno sostanzialmente affermato di non aver condotto alcuna indagine», continua l’attivista.
Anche per Amnesty International che da anni segue il caso di Binder le accuse sono «completamente infondate». Adriana Tidona, Migration Researcher dello Europe Regional Office è stata a Lesbo con una delegazione di Amnesty come osservatrice del processo. Per la ricercatrice sono incriminazioni «basate su un’interpretazione errata della normativa in materia di favoreggiamento dell’ingresso irregolare». In Grecia, spiega, non si considera come elemento costitutivo del reato il beneficio economico tratto dall’attività di facilitazione.
Criminalizzazione della solidarietà
Le attività portate avanti da Binder, sottolinea la ricercatrice di Amnesty, «sono state motivate da uno spirito umanitario e di solidarietà», dunque «non dovrebbero essere punite». Anzi, aggiunge, «il processo non avrebbe mai dovuto iniziare». Da anni l’organizzazione chiede che le incriminazioni vengano ritirate.
Mantenere in sospeso un processo per così tanti anni non ha avuto “solo” un impatto sulle vite delle persone coinvolte, ma anche sulle attività delle organizzazioni della società civile che assistono le persone che arrivano in Grecia attraverso rotte pericolose. Viene chiamato il chilling effect, l’effetto dissuasivo.
«Il caso ha contribuito a creare un clima di ostilità e intimidazione», fa notare Amnesty, per cercare di «inibire o attivamente punire il lavoro umanitario». Ma il processo penale, spiega Tidona, è solo un pezzo di un puzzle più grande – composto da atti amministrativi, abusi, campagne denigratorie – che «va ad attaccare lo spazio civico delle organizzazioni che prestano soccorso o esprimono solidarietà a migranti e rifugiati».
Binder lo considera «uno sforzo per spaventare le persone e dissuaderle dal fare il lavoro umanitario». «Dove ci porterà tutto questo? – chiede l’attivista – se questo è il mondo verso cui stiamo andando?».
Grecia, Europa
La gravità delle accuse, la durata del processo e il messaggio inviato alla società civile lo rendono quindi un caso simbolo, tra quelli di criminalizzazione che Amnesty ha monitorato anche in Croazia, Francia, Grecia, Italia, Malta, Spagna, Svizzera, Regno Unito, Polonia e Lettonia. Di certo, commenta Tidona, in Grecia le pratiche di controllo dei confini sono molto aggressive e spesso accompagnate da violazioni dei diritti umani.
Nel paese è cambiato molto l’approccio al tema migratorio: da un cambio di retorica, alimentato da processi come quello che coinvolge Binder, a un “modello” diverso di accoglienza. Nel 2020 il modello di campi come quello di Moria a Lesbo, «già in terribili condizioni», spiega la ricercatrice, è stato sostituito da «un sistema di campi cosiddetti closed controlled, dove l’entrata e l’uscita sono controllate e i richiedenti asilo possono essere reclusi fino a 25 giorni dall’ingresso». Luoghi in cui è diventato molto più complicato entrare e operare per le ong.
Non solo la Grecia. È la direzione che ha intrapreso tutta l’Europa dove, ricorda Binder, ci sono almeno 140 persone che stanno affrontando un procedimento simile. «È strano che noi, accusati di essere criminali, siamo quelli che chiedono il rispetto dello Stato di diritto – conclude l’attivista – mentre l’Unione europea, gli stati membri o i loro agenti alle frontiere sembrano felici di infrangere la legge».
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