Disperati camminano. Hanno 16 anni, uno è senza una gamba e l’amico se lo porta appresso. Si solleva e si trascina scandito dalle pause di un respiro esausto.

Ogni tanto tenta la presa da solo per non pesare sulle spalle del compagno con cui è in viaggio, ma le stampelle si inceppano tra la neve delle montagne di Claviere. E allora l’altro lo prende tra le spalle e di nuovo diventa un solleva e trascina. Chiamano da lontano, urlano: «Non continuate, è pericoloso». Qui la connessione internet sparisce, i telefoni muoiono, giocando un valzer di cellule tra Francia e Italia che porta a dei buchi neri di non comunicabilità, durante i quali chiedere soccorso diventa impossibile.

Frontiera gelata

Afghan migrants Ali Rezaie, left, and Sayed Hamza hide to evade detection by French police patrols as they trek through the French-Italian Alps to reach a migrant refuge in Briancon, France, Sunday, Dec. 12, 2021. (AP Photo/Daniel Cole)

Ma come può un sedicenne che ha perso una gamba fermarsi? È un’incoscienza mista a disperazione che nulla ha in comune con il coraggio. Si perdono tra buio e neve. Dei quaranta stranieri che hanno tentato oggi la traversata, loro due sono gli unici a non essere tornati indietro.

Gli unici che non appaiono tra i respinti dalla gendarmerie. A notte fonda il ragazzo senza una gamba e l’amico che lo solleva non appaiono negli elenchi della Croce Rossa. Chissà se la neve che si scioglie in primavera ridarà alla luce i loro corpi o se semplicemente un dio abbia deciso di assistere il loro cammino verso la terra di approdo bramata: la Francia.

La spogliano, ha strati di coperte. È una donna scappata dalla Siria insieme al marito e tre figli. Ha tentato di passare da Claviere per raggiungere la Francia. Foglio di respingimento e notte in rifugio. Le coperte sono strati che si sommano e nascondono. Nel silenzio si sente un vagito. Gli operatori guardano meglio, scorgono una faccia minuscola.

«È un bambino», dice uno di loro. «È un bambino», fanno di rimando. Provano a capire quanto tempo abbia. La madre fa un cenno con le dite che appare come un sei. Gli operatori la guardano interdetti: «Non può avere sei mesi. È troppo piccolo». Chiedono alla donna di essere più specifica per poterle dare l’assistenza di cui necessita. «Ma possibile che ci stia dicendo che ha sei giorni?». Le chiedono conferma. Dice che sì, che il bambino sommerso dalle coperte ha sei giorni e che ha partorito nei Balcani e immediatamente dopo il parto ha deciso di riprendere il cammino.

Ha tentato la traversata nonostante la neve, proteggendo il figlio con il calore del corpo e le coperte. Sedici chilometri, senza conoscere i sentieri pattugliati dalla polizia francese, che cammina con le tute blu e nere a caccia di migranti tra le montagne ed i campi da golf di questo lembo di terra che si divide tra ricchi vacanzieri e disperati.

Trieste, piazza della Libertà

Da dove viene questo flusso di sofferenza? In molti arrivano qui, tra Piemonte e Francia, dalla rotta Balcanica, pochi da quella mediterranea. Trieste è il punto di approdo in Italia, dopo essere partiti da Afghanistan, Siria o Pakistan ed avere attraversato i Balcani. Nei boschi triestini i segni. Lungo il ruscello ci sono alcune coperte imbrattate di fanghiglia, poco più avanti giacchetti ammassati e scarpe. Un paio sono da calcio, rigide e con i tacchetti. Viene da chiedersi come abbia fatto l’uomo o la donna che le indossava ad arrivare fino a qui, nel bosco fitto di alberi con il buio che impedisce di capire dove mettere i piedi.

È freddo, l’umidità rende impossibile il movimento delle dita. Si arrossano subito, nonostante sia pieno giorno e siamo solo agli inizi di dicembre. Intorno una distesa di zaini svuotati, alcuni sembrano essere nuovi. In mezzo ai quei resti ci sono antidolorifici, qualcuno deve averli presi per sopportare il dolore dei piedi che si spaccano come burro.
Gli oggetti raccontano. Ci sono i fogli con nomi annotati, date di nascita, luoghi di appartenenza. Usando il traduttore si scopre che sono i fogli di via con i quali i croati allontanano i migranti: «Lasciare il paese entro sette giorni».

Sono le 15 e in piazza della Libertà a Trieste, davanti alla stazione, c’è già un gruppetto di ragazzi che attende. Qui Lorena Fornasir, insieme ad altre volontarie, accoglie quelli che arrivano. C’è Umar, alza la tuta. Ha una benda che gli avvolge interamente il polpaccio sinistro. Ha 23 anni, tre anni fa la polizia croata l’ha preso e gli ha bruciato la pelle. Non una, ma due volte. Adesso la sua pelle non cresce più. Un’operazione potrebbe mettere fine al pus che ogni giorno colora di giallo il rosso della ferita? «Difficile dirlo, ormai l’epidermide è compressa», risponde Anita Gobelli, ex infermiera ottantenne, che ogni giorno va in piazza della Libertà, insieme a Lorena, a curare queste persone. Arrivano sfiaccati, feriti, devastati. I piedi sono cartine geografiche del loro cammino, ogni vescica è il punto cardinale del loro viaggio. Molti di loro dormono all’interno del Silos, una struttura abbandonata vicino alla stazione. Si sono costruiti delle capanne con cartoni e coperte.

C’è un ragazzo, uno solo a cui poter chiedere qualcosa. Gli altri stanno rintanati dentro, per paura che qualcuno possa trascinarli in chissà quale posto. «Da dove vieni?». È giovane, troppo. «Vengo dal Pakistan», dice in inglese. «Perché sei qui?». Non sa rispondere, ci prova. Mima con le mani il segno della fame. Intorno topi e immondizia. Arriva un altro giovane, ha una bustina bianca con dentro qualcosa. «Cosa è?», chiediamo indicando la busta. Apre, dentro c’è un po’ di cibo. Ma mangiate qui, chiediamo con la voce, ma ciò che rende la conversazione possibile è la mimica del corpo che distrugge le barriere: fa cenno di sì.

In piazza della Libertà è Veronica a dire: «Ho imparato un po’ della loro lingua per farli sentire a casa quando arrivano, la maggior parte rimangono qui pochi giorni e poi ripartono». Un bambino di 13 anni si avvicina, vede una telecamera e urla «Selfie». Chiediamo se sia qui con la famiglia: «No, viene dall’Afghanistan, ma è solo. Alcuni dicono che sono accompagnati dagli zii o da dei cugini ma noi che ne sappiamo se è così. Non abbiamo nessuna autorità per poter verificare». E allora dove sono le Convenzioni per la protezione dei minori? «Qui non esistono, non esiste lo Stato. Questa estate c’erano le camionette della polizia per vedere cosa facessimo, ma mica per proteggere qualcuno. Circondavano solo la piazza». Ci sono le storie, quella della polizia croata che picchia e spara. Quelle di essere umani che hanno visto morire altri esseri umani.

Costa Azzurra di sangue

LaPresse Marco Alpozzi

Piazza della Libertà di Trieste si svuota e si riempe in un cambio più o meno costante di volti. Alcuni vanno verso Claviere, altri verso Ventimiglia. Il mare si infrange. Qui lo vedi e lo assapori. È l’inizio della Costa Azzurra. Dall’alto il blu è così cristallino che ti tufferesti dalla scogliera. Ma il blu si tinge di rosso.

7 ottobre 2016: Milet Tesfamariam, 16 anni, viene travolta da un tir, direzione Francia. 21 ottobre 2016: Ali Ahmad, 18 anni, sudanese, ucciso da un furgone sul viadotto Saint-Agnès. 23 dicembre 2016: 25enne algerino investito e ucciso dal treno. 4 gennaio 2017: Mohamed Hani, 26 anni, proveniente dalla Libia, muore travolto da uno scooter si trovava in un centro per l’accoglienza dei migranti. 5 febbraio 2017: un giovane di 20 anni muore investito da un treno. 17 febbraio 2017: un migrante muore folgorato sul tetto del treno partito da Ventimiglia e diretto a Cannes. 21 marzo 2017: un migrante muore cadendo dal sentiero del Passo della Morte. 19 maggio 2017: un 30enne del Mali muore folgorato nel compartimento tecnico di un treno francese, anche questa volta destinazione Cannes. 23 maggio del 2017, un altro migrante sempre folgorato.

3 giugno 2017: un 25enne nigeriano muore annegato a Ventimiglia. 13 giugno 2017: un 16enne sudanese di nome Alfatehe Ahmed Bachire muore annegato. 12 luglio 2017: un 23enne del Gambia muore investito da un camion a Ventimiglia. 16 agosto 2017: un 36enne iracheno muore investito da un treno. 26 agosto 2017: un giovane migrante muore folgorato sul treno partito da Ventimiglia e diretto in Francia. 27 dicembre 2017: un migrante di circa 20 anni muore precipitando dal versante della montagna di Roquebrune. 14 gennaio 2018: un 28enne del Gambia muore folgorato sul tetto del treno tra Ventimiglia e Mentone. 20 giugno 2018: un migrante muore annegato davanti Ventimiglia. 9 settembre 2018: un altro migrane muore annegato.

8 dicembre 2020: un migrante muore folgorato sul tetto del treno partito da Ventimiglia e diretto in Francia. 27 maggio 2021: un 37enne pachistano viene trovato morto per strada a Roverino, Ventimiglia. 3 giugno 2021: un giovane migrante muore annegato nei pressi della foce del fiume Roja a Ventimiglia: si stava lavando quando le onde lo hanno trascinato via. 29 settembre 2021: un 17enne bengalese muore folgorato sul tetto del treno partito dalla stazione di Ventimiglia e diretto a Nizza. 30 ottobre 2021: un migrante muore precipitando da un dirupo del passo della morte. 1 febbraio 2022: migrante morto folgorato sotto il pantografo del treno partito da Ventimiglia. 2 marzo 2022: migrante muore sul tetto di un locomotore di un treno a Ventimiglia. 2 aprile 2022: due migranti muoiono travolti da un furgone sull’A10. Stavano attraversando la strada.

LaPresse Marco Alpozzi

L’ultimo il 7 novembre 2022. Ahmed Safi, 20 anni travolto da due auto e un tir, anche lui cercava di andare in Francia. E mentre a Ventimiglia la morte continua a raccontare l’orrore, a Catania approdano la Geo Barents e la Humanity 1. Tutto è su quelle barche. I volti di chi fa capolino sono sfocati. La lontananza rende distinguibile solo dei cartoni che vengono calati. Sopra c’è scritto Help us, aiutateci. 

Lo gridano i naufraghi a bordo, gli fanno eco una manciata di cittadini fuori. I pochi catanesi giunti al molo per urlare la parola “accoglienza” mentre il neo-governo guidato da Giorgia Meloni mette in scena il primo scontro con le Organizzazioni non governative che si occupano di soccorso in mare. Sono le 15.30 di domenica 6 novembre quando la Geo Barents di Medici Senza Frontiere entra nel porto di Catania dopo 11 giorni in mare e otto richieste per l’assegnazione di un porto sicuro. A bordo ci sono 572 persone, di queste ne scendono 357 mentre 215 esseri umani rimangono in quella gigantesca scatola di ferraglia. Sbarco selettivo, così è stato chiamato dal ministro degli Interni Matteo Piantedosi.

Maurizio Debanne, ufficio stampa di Msf, fa avanti e indietro dalla nave. «Che succede?», chiediamo. La risposta è sempre la stessa: «Non lo sappiamo, attendiamo». Al molo un cancello divide la stampa dalla Geo Barents, carabinieri e polizia si occupano di vigilare se qualche temerario mette un piede dentro il perimetro per una diretta televisiva: «Indietro, la prego», dicono ai giornalisti che rispondono allargando le braccia. Un dispiego di forze dell’ordine mai visto.

Tre migranti si gettano in mare, tutti salvi. Uno risale subito a bordo, gli altri due si inginocchiano sulla battigia. Ore di ordinaria follia mentre la furia delle dichiarazioni colpisce Guido Crosetto, ministro della Difesa: «Le Ong sono dei centri sociali galleggianti». C’è chi legge l’agenzia e si lascia sfuggire una risata: «Chi glielo dice a Crosetto che Msf opera in 80 paesi in tutto il mondo?».

In mezzo al gruppo di giornalisti fa capolino Francesco Creazzo, ufficio stampa di SOS Mediteranee, la loro Ocean Viking è l’unica alla quale non è ancora stato assegnato un porto. A bordo ci sono 233 persone che si trovano in acque internazionali in attesa che il governo italiano decida il loro destino. Dopo quattro giorni di braccio di ferro, sarà un gruppo di medici a salire a bordo delle due navi ong attraccate al porto di Catania. Usciranno, ormai a sole calato, e diranno: «Bisognerebbe guardare gli occhi di queste persone per capire. Siamo sconvolti». Passano solo cinque minuti e si dà il via allo sbarco. Ma chi non ha ancora trovato un porto è la Ocean Viking. Dopo ore di silenzio si scopre che fa rotta verso la Francia: destinazione Tolone.

Benvenuti a Tolone

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È caldo. Alle 8 del mattino un gruppetto di francesi si affaccia sul porto: «Vogliamo dare il benvenuto a queste persone. Sappiamo che Giorgia Meloni rappresenta l’ultradestra e quindi deve dire no agli sbarchi». Il porto è completamente blindato, hanno deciso di far sbarcare tutti in una zona militare. Una donna arriva con una bandiera francese e si siede in segno di protesta, le chiediamo cosa stia facendo: «Sono qui perché trovo assurdo che dei migranti arrivino proprio in questo porto che serve a difendere la nostra patria». 

A Tolone ci sono i cortei, SOS Mediteranee per paura di ritorsioni chiede alla stampa di non rendere noto il luogo in cui si terrà la conferenza stampa. Arriva persino Éric Zemmour: «Dobbiamo passare ai blocchi navali. Bene ha fatto la Meloni, noi siamo con lei», dice l’uomo dell’ultradestra francese. Neanche un mese di governo e la Meloni deve fronteggiare la prima crisi diplomatica con Emmanuel Macron. Il risultato sarà oltre 500 agenti ai confini con l’Italia per pattugliare l’ingresso dei migranti in Francia e respingere indietro coloro che tentano l’ingresso. Si susseguono vertici internazionali, G20, ma tra i due neanche un incontro.

Un mese esatto dopo la Geo Barents, Humanity1 e Louise Michel fanno richiesta di porto sicuro. Ci sono oltre 500 esseri umani in mare, senza contare gli equipaggi. Passano solo due giorni e a sorpresa il governo italiano decide di trovare una soluzione senza far rumore.

Lo sbarco di Salerno

Alla Louise Michel viene assegnato Lampedusa, alla Humanity1 Bari, mentre alla Geo Barents viene assegnato Salerno. Il mare è un inferno, in Italia c’è allerta maltempo. All’interno delle navi tutti si sentono male, ma riescono ad attraccare quando il sole è sorto da due ore. La scusa per porti così lontani è che i centri di accoglienza siciliani sono congestionati. Peccato che una volta giunti a terra vengano quasi tutti trasferiti in altre regioni e una sessantina di minori portati persino a Taranto. Scendono dalla nave e hanno il volto di bambini. Uno di loro ha dieci anni, ai soccorritori di Msf ha raccontato: «Avevo già provato, ma la Guardia Costiera libica mi ha ripreso e portato nelle prigioni. Qui mi hanno torturato mentre video-chiamavo i miei genitori. Hanno chiesto loro più soldi, ero con mio fratello. Hanno potuto pagare solo per me perché io costo di meno e occupavo meno spazio».

Le storie escono in una voragine di vergogna, ma Piantedosi intima: «La linea del governo non cambia», mentre i suoi colleghi si trincerano nel silenzio, non sapendo come spiegare al loro elettorato come mai solo dopo un mese di governo si è passati dal blocco navale proposto in campagna elettorale al «facciamo sbarcare tutti». Almeno per adesso.

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