Le cosiddette «primarie aperte» sono una cosa insieme illogica e utile per il Pd, e solo una strategia articolata su due tempi può sciogliere la contraddizione. Questa opinione può suscitare perplessità, soprattutto sotto la mia penna.

Tenterò di difenderla, ma prima conviene collocarla nello spettro delle critiche che sono state rivolte alla scelta di affidare la selezione della guida del partito al voto di chiunque abbia voglia di passare in un gazebo lasciando il nome, l’email e un paio di euro.

Le critiche principali credo siano riassunte in tre articoli apparsi su queste pagine: due di autorevoli studiosi, uno di una rara figura di  uomo politico stimato. Secondo Piero Ignazi le primarie aperte riflettono «una concezione strumentale e individualista della politica», antitetica a «quell’idea dell’agire collettivo […] che dovrebbe essere alla base dell’azione di un partito», e si espongono a «una curvatura plebiscitaria».

A questi argomenti Gianni Cuperlo aggiunge il rilevo che le primarie aperte «consegnano il destino di una comunità politica a rapporti di forza, potenza del denaro, buone entrature nelle televisioni». Carlo Trigilia le giudica «una vera iattura per il Pd», che «indebolisce il partito, ne riduce la capacità di indirizzo, non contrasta le correnti come aggregazioni di potere, favorisce specie nel Mezzogiorno la libertà di manovra di feudatari politici locali».

Vorrei aggiungere un argomento, in parte implicito in quelli che ho appena evocato, e insieme mettere un bemolle sulle ultime due critiche di Trigilia. Parto da questo secondo punto, che agevola l’esposizione del primo.

Dopo la vittoria di Elly Schlein, sempre su Domani Federico Fornaro ha scritto di una «scissione sentimentale» tra gli iscritti al Pd e i partecipanti alle primarie, «che la dice lunga sullo stato di progressiva evaporazione del radicamento territoriale del partito e la sua riduzione, in molti territori, a una federazione di comitati elettorali».

Intenderei sia quest’ultima espressione sia quelle di Trigilia – «correnti come aggregazioni di potere» e «feudatari politici locali» – come riferimenti alle reti clientelari che si sono agganciate al Pd durante il suo decennio di governo, o in tempi precedenti. Questo fenomeno è al centro di tre recentissimi articoli. Daniela Preziosi scrive di «filiere», «capibastone e cacicchi», «tesseramento gonfiato».

Nello Trocchia ci mostra i «signori delle tessere», ossia politici che «da sempre [teorizzano] la clientela come paradigma politico», alimentando «la guerra per le liste, il conflitto tra le correnti per dividersi i posti», e insieme creando il rischio di «infiltrazioni camorristiche» e di «commistione tra interessi privati e pubblici».

Infine, l’inchiesta di Trocchia e Giovanni Tizian esemplifica il problema concentrandosi su uno dei casi più noti, quello del «sistema» che ruota attorno al Presidente della Campania Vincenzo De Luca. Il fenomeno pare più diffuso nel Mezzogiorno, come scrive Trigilia. Ma come credo sia vero per l’Italia stessa, anche in questo partito nel Mezzogiorno osserviamo le manifestazioni peggiori di problemi che esistono nell’intera penisola.

Ignorare i sospetti

Io stesso nel febbraio 2015 conclusi, analizzando la decisione del collegio dei garanti, che il Pd – tramite il presidente Matteo Orfini – aveva ignorato seri sospetti di gravi e diffuse irregolarità nelle primarie per le regionali liguri.

E ricordo che quando il segretario Nicola Zingaretti si dimise, disse che mentre montava la terza ondata della pandemia nel Pd «si parl[ava] solo di poltrone e primarie»: si riferiva al Pd nel suo complesso quando lo definì un partito in preda a «una guerriglia quotidiana», del quale si «vergogna[va]».

Schlein perse il voto dei circoli, dove maggiormente pesava il voto clientelare e il rigonfiarsi del numero dei tesserati. Ma l’esito del ballottaggio con Stefano Bonaccini è stato diverso da quello per il quale lavorava il «sistema De Luca», e verosimilmente altre reti clientelari.

Ciò suggerisce che, contrariamente a quanto sosteneva Trigilia, quantomeno nelle attuali condizioni del Pd le primarie aperte siano in grado di contrastare le reti clientelari, diluendone il peso nel più largo insieme dei simpatizzanti. Quindi il partito dovrebbe tenersele strette? Direi di no, per una ragione legata alla logica dell’azione collettiva.

calcolo dei costi

LaPresse

Sappiamo che le minoranze organizzate – in Italia spesso chiamate «lobby» – tendono a imporsi sulle maggioranze non organizzate. E sappiamo che queste raramente si organizzano perché di solito perseguono beni pubblici, ossia beni che avvantaggiano tutti e dai quali nessuno può essere escluso (l’aria pulita, per esempio, la crescita inclusiva, o una sanità pubblica di qualità elevata): tutti ne beneficiano, e a nessuno può esserne impedito di goderne.

Ma poiché creare un bene pubblico implica dei costi, e il contributo di ciascuno alla sua creazione non è mai decisivo, il calcolo dei costi e benefici induce molti a non contribuire: essi sperano che altri contribuiscano, sapendo che se il bene pubblico sarà creato ne godranno comunque. Quindi contribuiranno solo coloro che lo fanno per motivazioni (puramente) ideali.

I partiti politici sono (anche) uno strumento per risolvere questo problema. Essi tipicamente rappresentano interessi diffusi, e inducono i cittadini a contribuire ad affermarli facendo leva anche sul calcolo dei costi e benefici: essi infatti offrono agli iscritti alcune prerogative che sono negate agli altri cittadini, e soprattutto il diritto di parlare e votare sulla linea del partito e sui suoi programmi, dirigenti e candidati. Questi «incentivi selettivi», riservati ai soli iscritti, controbilanciano il costo della partecipazione alla vita del partito; quindi attraggono anche persone per le quali le motivazioni (puramente) ideali non bastano.

Pertanto le primarie aperte privano gli iscritti del principale incentivo selettivo, quello di scegliere la massima dirigenza (e spesso i candidati alle cariche monocratiche). Ciò è assurdo, soprattutto in un partito che intende rappresentare gli interessi dei molti. Se quindi si vogliono usare le primarie bisogna riservarle ai soli iscritti, come suggeriva Ignazi: così si potrà anche «recuperare il senso dell’autonomia e dell’orgoglio di chi compie una scelta di campo», come scriveva Cuperlo.

Nei partiti possono esistere però anche altri incentivi selettivi, come l’opportunità di acquisire incarichi, soldi o poteri pubblici (per poi piegarli a fini personali). Col tempo, in simili partiti gli iscritti che mirano a queste cose tenderanno a crescere, mentre gli iscritti mossi da motivazioni meno grette tenderanno a diminuire. Ciò che sappiamo sul «sistema De Luca» e simili organizzazioni, congiunto al calo degli iscritti del partito, suggerisce che il Pd soffra di questo problema.

Cosa significa limitare le primarie

Restringere ora le primarie ai soli iscritti rischia quindi di rafforzare gli incentivi selettivi cattivi, per così dire, e magari di accelerare la degenerazione del partito. Prima di compiere questo passo Schlein dovrebbe scrollarsi di dosso le reti clientelari.

L’operazione è forse più semplice di quanto non appaia. Perché il partito è ora all’opposizione, dopo un decennio al governo, mentre le reti clientelari cercano il potere. Lo cercano sia per se stesse, sia per negoziare scambi con organizzazioni più potenti: le cosiddette «lobby», tipicamente portatrici di interessi economici; e forse anche alcune organizzazioni criminali, suggeriscono le inchieste di Domani, soprattutto in Campania.

Quindi è verosimile che dopo le elezioni di settembre le reti clientelari più agili e le lobby più importanti abbiano gradualmente spostato le loro attenzioni verso la destra. Schlein potrà dunque concentrare i propri sforzi sui territori che il Pd ancora governa. E le consiglierei di tenere conto dell’effetto di dimostrazione: parta dal «sistema De Luca», col quale precedenti segreterie hanno allegramente convissuto, e se avrà successo potrà ripulire rapidamente l’intero partito.

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