Risuona ancora la voce tutt’altro che distesa di Giorgio Napolitano con cui nell’aula di Montecitorio lesse il suo discorso dopo essere stato eletto presidente della Repubblica per la seconda volta. Quando disse ai partiti, che si sperticavano di applausi, che avevano fallito e che non erano capaci di riformarsi. Sono passati otto anni, era il 22 aprile 2013, poco o nulla è cambiato. Le prima di quattro votazioni per eleggere il successore di Sergio Mattarella sono andate a vuoto, i partiti sono rinchiusi nelle loro nevrosi interne: la paura di perdere la guida della coalizione, come nel caso di Matteo Salvini; di fallire nella prova della segreteria per Enrico Letta che guida un Partito democratico mai davvero nato, come ai tempi è toccato all’ex segretario Pier Luigi Bersani.

Il timore fortissimo del voto anticipato che inchioderebbe Matteo Renzi all’inesistenza politica e Giuseppe Conte a fare i conti con un partito completamente diviso. I fatti di oggi ricordano quelli di ieri nella misura in cui l’immobilismo delle due aree, il centrodestra e il centrosinistra con l’aggiunta dei Cinque stelle, porta a concretizzare un nuovo bis, quello di Sergio Mattarella, nonostante lui più volte abbia declinato. Ieri in aula alla Camera sono arrivate 166 schede con il suo nome.

A essere chiamati in causa sono gli stessi partiti che battevano le mani con vigore alle parole di Napolitano mentre li massacrava in aula. Mai un presidente della Repubblica era stato così duro: «Ho speso tutti i possibili sforzi di persuasione, vanificati dalla sordità di forze politiche che pure mi hanno ora chiamato ad assumere un ulteriore carico di responsabilità per far uscire le istituzioni da uno stallo fatale».

La leadership conta

Anche oggi siamo a un punto morto. È il quinto giorno di votazioni, le forze politiche, in testa il Partito democratico, puntavano a chiudere giovedì 27 gennaio al quarto scrutinio, quando il quorum necessario per l’elezione è sceso a 505 voti. Ma non è stato così. Ovunque si guardi c’è la sensazione che nessuna coalizione sa cosa fare e che gli interessi di parte vengono prima del Quirinale.

Il centrodestra è guidato da un ambizioso Matteo Salvini, che si muove soprattutto per emergere all’interno della coalizione e frenare l’ascesa della leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni. La leadership conta e sembra che per lui sia più importante di portare al Colle un presidente dell’area di centrodestra.

Si è partiti dalla candidatura di Silvio Berlusconi, su cui non credevano neppure Salvini e Meloni, per arrivare alla rosa dei tre nomi, Letizia Moratti, Carlo Nordio e Marcello Pera, candidati e affondati subito. Poi la carta della presidente del Senato, Elisabetta Casellati, emersa in parallelo alla terna, andata male pure quella. Ail 27 gennaio Salvini passa in rassegna una candidatura già vagliata, quella di Franco Frattini su cui però c’è il no di Italia viva e Pd.

Fratelli d’Italia scalpita. Meloni, che più di tutti vuole che la coalizione superi questa prova per arrivare compatta alle prossime elezioni, è irritata dall’atteggiamento di Salvini. Le ultime riunioni in cui si sono confrontati sono andate molto male. Tant’è che giovedì, al quarto scrutinio, è stato imposto dal leader leghista di procedere con l’astensione per evitare le operazioni alla Guido Crosetto, il candidato di bandiera utilizzato mercoledì da FdI per dare un segnale alla coalizione.

La sindrome da Prodi

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Il centrosinistra non è migliore della controparte. Il segretario del Partito democratico, Enrico Letta, vive una sindrome legata al passato. Nel 2013 il fondatore dell’Ulivo, Romano Prodi, fu candidato dall’allora segretario Pier Luigi Bersani, ma non venne mai eletto per colpa di 101 parlamentari del Pd che, nel segreto dell’urna, decisero di non votarlo.

Quei fatti sembrano condizionare l’operato di Letta oggi, che, per non sbagliare, non ha ancora ufficializzato nessuna candidatura. Letta preferirebbe eleggere il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ma alcune correnti interne al suo partito, così come la parte dei M5s che segue Conte, non sono d’accordo. I parlamentari vicini al ministro della Cultura Dario Franceschini, ad esempio, lavorano perché il premier rimanga lì dove è, a palazzo Chigi.

Per paura di offrire a Draghi lo stesso trattamento che ha subito Prodi, Letta continua a mandare messaggi in bottiglia. La situazione è talmente nel caos che lui stesso, in una delle comunicazioni informali inviate al centrodestra, ha proposto Sergio Mattarella tra i candidati da sottoporre al centrodestra. Lo ha fatto il 26 gennaio sera, dopo la terza votazione. 

«Per ora il centrodestra nella sua interezza ha detto di no a tutte le nostre ipotesi di personalità terze: Mattarella, Draghi, Giuliano Amato, Pier Ferdinando Casini, Marta Cartabia, Andrea Riccardi», ha detto Letta durante una riunione con i grandi elettori del Pd.

Il profilo che Letta cerca è, un po’ paradossalmente, proprio quello di Mattarella. L’11 gennaio ha fatto il seguente identikit: «Un presidente o una presidente di profilo istituzionale, non un capo partito, né uno come me o Salvini o Conte o Berlusconi. Profilo istituzionale, super partes, un po’ come è stato Mattarella, che è stato un grande presidente, e io credo che si debba chiedere al parlamento di votare un presidente con le caratteristiche di Mattarella». 

Tra i parlamentari del Pd, però, ci sono anche sostenitori dell’attuale presidente della Repubblica. A inizio mese i cosiddetti “Giovani turchi”, la corrente guidata da Matteo Orfini, lo ha espresso pubblicamente: «È questa la posizione della nostra componente, mi pare che nel Pd ci sia sensibilità sul tema», ha detto il senatore Francesco Verducci che fa parte dell’area.

Il 13 gennaio la proposta è stata avanzata formalmente anche durante la direzione del Pd. E più recentemente l’attuale partito di Pier Luigi Bersani, Articolo 1, ha maturato l’idea di inviare un appello al capo dello stato per chiedergli di rimanere al suo posto.

Controllare l’incontrollabile

Il bis di Mattarella si rafforza anche grazie a una buona parte del Movimento 5 stelle. I parlamentari contrari alla linea ondivaga del presidente Giuseppe Conte, sostengono la rielezione del capo dello stato. Una scelta che può allontanare l’ipotesi del voto anticipato: se Draghi rimane al suo posto la maggioranza ha più probabilità di reggere. Nel primo scrutinio il nome di Mattarella è comparso sulle schede 16 volte, nella seconda 39, nella terza 125 e, nella quarta, 166. Molti di questi voti sono arrivati proprio dai Cinque stelle.

Nel pomeriggio del 27 gennaio è tornata a rafforzarsi l’ipotesi si spostare Mario Draghi al Quirinale, nonostante si parlasse anche di Elisabetta Belloni, l’attuale capo del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza. Conte si è sempre mostrato contrario a questa possibilità. 

Nelle stesse ore, le agenzie di stampa battono alcune informazioni, attribuendole a fonti del M5s: nella quarta votazione i gruppi dovranno votare scheda bianca ma sarà lasciata anche la possibilità di esprimersi in libertà di coscienza. Così è stato. E non a caso Mattarella ha guadagnato 41 voti in più rispetto al giorno precedente (in cui le schede totali per lui erano state 125), nonostante oltre 430 parlamentari di destra non abbiano votato e quindi non possono aver indicato il suo nome.

Paradossalmente, l’indicazione data da Conte ai suoi parlamentari per il quarto voto è stata fatta non per avvantaggiare Mattarella bensì per frenare Draghi. Certo è che la proposta del bis è l’unica che può tenere insieme la maggior parte del M5s, lasciando fuori forse solo i deputati legati al ministro degli Esteri Luigi Di Maio.

Nessuno fa qualcosa per evitarlo

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Nessuno insomma fa davvero qualcosa per evitare il bis di Mattarella. Il silenzio in cui si è chiuso il capo dello stato lascia aperta una porta. Dopo aver ricevuto così tanti voti non ha mai fatto trapelare nulla, una parola, un comunicato per dire: grazie ma rimango dell’idea che no, non voglio essere rieletto.

Quindi Mattarella è ancora in campo, così come lo è Draghi che, apprezzato da Mattarella stesso, potrebbe rappresentare la sua linea continua. 

Ci avviciniamo alla sesta votazione, quella in cui venne eletto Napolitano, l’elezione più lunga dall’inizio della seconda Repubblica, e i partiti non fanno passi avanti. «A questa prova non mi sono sottratto. Quanto è accaduto qui nei giorni scorsi ha rappresentato il punto di arrivo di una lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità», che, detta con le parole di Napolitano, oggi i partiti potrebbero ripetere.

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