Giorgia Meloni è scomparsa subito dopo la notte, per lei magica, del 25 settembre. Non ha fatto nessuna conferenza stampa come da tradizione del vincitore delle elezioni, ha vietato ai suoi fedelissimi di festeggiare e si è chiusa in casa con la figlia e il marito. Un incontro con la madre, abbracci con la sorella Arianna. Poi buio quasi totale. Nessuna comunicazione con l’esterno, a parte un video Instagram con il suo personal trainer, e soprattutto con il mondo politico che aspetta trepidante le sue prossime mosse. Tra i pochi eletti sentiti nelle ultime ore solo Francesco Lollobrigida, cognato e potente capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, e Giovanbattista Fazzolari, oggi forse l’uomo di cui la probabile futura premier si fida di più. Guido Crosetto, invece, non è riuscito a sentirla subito.

«Tutto quello che avete letto e sentito in merito al toto-ministri, e in particolare sull’ipotesi dei due vicepremier Matteo Salvini e Antonio Tajani che la dovrebbero affiancare, non viene da fonti attendibili. Sono veline e “spin” di uomini della Lega e di Forza Italia che vogliono dare indirettamente indicazioni a Giorgia» dice un dirigente di FdI. Né con Tajani (è il forzista ad aver chiesto un incontro a tu per tu con lei martedì) né ieri con Salvini si sarebbe dunque «mai parlato di ministri né dell’assetto futuro a palazzo Chigi, ma solo della situazione generale, dei tempi della legge di Bilancio e dei presidenti di Camera e Senato: Meloni vorrebbe concedere un posto all’opposizione, gli alleati no».

La scelta della Meloni di staccare per qualche giorno è figlia di risultati che in cuor suo sperava, ma non nella consistenza in cui le urne li hanno palesati: gli italiani – complice la legge elettorale che favorisce le coalizioni – le hanno dato quasi un assegno in bianco, con una maggioranza larga del centrodestra in entrambe le camere, una supremazia sugli alleati non banale e un profilo di un governo sovranista che potrebbe sulla carta durare cinque anni, se la destra reggerà alle tensioni interne e alle pressioni esterne.

Meloni sa bene che palazzo Chigi non è una poltrona come le altre, e che scegliere una squadra di governo adeguata sarà fondamentale per non logorarsi in tempi brevi.

La presidente del partito post fascista e filo Orbán sa pure che Fratelli d’Italia non ha una classe dirigente pronta a gestire, in tempi tra l’altro difficilissimi, la macchina dell’esecutivo.

Come già anticipato da questo giornale tempo fa, Meloni intende dunque fare scouting anche all’esterno per i ministri più importanti. Sonderà il Quirinale chiedendo copertura soprattutto sulle caselle dell’Economia, dell’Interno, degli Esteri e della Difesa, e proverà in ogni modo a resistere alle richieste degli alleati. Soprattutto a quelle che potrebbero mettere nell’immediato futuro a rischio il suo governo e danneggiare l’immagine dell’Italia.

Sicurezza nazionale

Un risiko di poltrone complesso che si dipanerà solo nelle prossime settimane, ma che vede alcuni punti fermi, e alcuni protagonisti certi. Partiamo dall’affaire più spinoso. Che fare di Salvini, uscito a pezzi dalle elezioni con un misero 8,9 per cento ma fondamentale per far partire il governo? È noto che il leader del Carroccio voglia tornare al Viminale, dove spera di replicare l’esperienza del governo Conte I, quando la guerra ai migranti e alle ong gli consentì di guadagnare consenso a iosa. Salvini sa pure che senza un posto di rilievo al governo, il suo futuro da leader traballante sarebbe ancora più in bilico.

Meloni, però, non vuole l’ingombrante alleato tra i piedi. Né all’Interno, né in altri ruoli con deleghe importanti. Non solo teme che il leader della Lega possa finire tutti i giorni sui giornali (ricordiamo che sul Capitano grava l’accusa di omissioni di atti d’ufficio e sequestro di persona per aver negato lo sbarco dei disperati della Open Arms). Ma perché sa che gli alleati americani, che saranno centrali per la sua durata, non vogliono filorussi nel governo.

Meloni, soprattutto, si è convinta a tenerlo fuori anche dopo il recente viaggio a Washington di Adolfo Urso, attuale presidente del Copasir e forse futuro ministro della Difesa, che ha dichiarato come nei dossier Usa sui partiti e leader finanziati da Mosca «l’Italia non risulta tra i paesi coinvolti». Aggiungendo sibillino che «le cose possono sempre cambiare».

Un alert che Meloni non sottovaluta: se le vicende russe dovessero maturare e deflagrare (la Lega è coinvolta nello scandalo del Metropol svelato dall’Espresso su cui sta lavorando da anni la procura di Milano, mentre il dipartimento di Stato guidato da Antony Blinken conosce ogni dettaglio degli incontri segreti tra Salvini e l’ambasciatore russo a Roma), vuole che l’alleato sia il più lontano possibile da incarichi sensibili del governo.

«Il niet a Salvini di Giorgia non è di natura politica, ma legato alla sicurezza nazionale e alla protezione del futuro esecutivo», dice un altra autorevole fonte di Fratelli d’Italia. «Ricordiamoci che il ministro dell’Interno siede anche nel Consiglio supremo di Difesa presieduto dal capo dello stato. Uno scandalo per Meloni sarebbe devastante».

Ecco perché all’Interno Meloni sta puntando a un tecnico. Come è noto, il nome che ritorna è quello del prefetto di Roma Matteo Piantedosi. La leader conservatrice lo stima come uomo di stato, e perché sa che vanta rapporti eccellenti con gli attuali capi delle forze dell’ordine. Soprattutto, crede che Salvini non potrà opporre veti, perché fu proprio lui a sceglierlo come suo capo di gabinetto durante l’esperienza al Viminale. Piantedosi è un civil servant che da sempre sostiene che ruoli delicati come quello del ministro dell’Interno, che gestisce ordine pubblico e il tema dell’immigrazione, dovrebbero essere responsabilità della politica, ma difficilmente dirà no se promosso all’alto incarico, a cui sotto sotto agognano anche Maurizio Gasparri o leghisti come Nicola Molteni, attualmente sottosegretario.

Detto questo, disinnescare Salvini sarà arduo, ma Meloni punta sul fatto che – se dovesse impuntarsi tanto da mettere a rischio la nascita del governo – i suoi uomini (ha riempito le liste di fedelissimi) non lo seguirebbero fino in fondo.

Delusione Crosetto

Quello con Salvini non è l’unico braccio di ferro che sta giocando la possibile futura presidente del Consiglio. Qualche grattacapo glielo sta dando anche qualcuno dei suoi consiglieri. A sorpresa, come ha scoperto Domani, proprio Guido Crosetto, cofondatore di Fratelli d’Italia e dato dai giornali come sicuro membro dell’esecutivo che verrà.

In realtà da qualche settimana i rapporti tra l’imprenditore e Meloni si sono raffreddati. La leader non ha apprezzato alcune uscite pubbliche dell’amico, e pure il fatto che il lobbista presidente degli armieri dell’Aiad, indicato sia come il Rasputin delle nomine sia come possibile ministro, sottosegretario o amministratore delegato di Leonardo, possa passare per una sorta di “Marco Carrai della Meloni”. Creandole in futuro problemi a causa di possibili conflitti d’interessi legati alle consulenze che il cofondatore del partito prende da aziende e società assortite.

Mal sopportato dai dirigenti del partito che non gradiscono che l’ex parlamentare sia sempre in tv o sui giornali a parlare a nome di Meloni e FdI senza avere più alcun incarico ufficiale, Crosetto è scivolato su una buccia di banana lo scorso 9 settembre. Ha rilasciato un’intervista ad Avvenire non concordata con la leader, nella quale di fatto spiegava che Meloni «non farà da sola», e lanciando un governo di larghe intese o di unità nazionale «dei migliori per salvare l’Italia. Da questo mare in tempesta non si esce da soli. Giorgia non arriverà alla guida del paese per fare la donna sola al comando: se servisse... parlerebbe con Letta, così come con Conte e Calenda».

Risulta a Domani che Meloni leggendo le parole del consigliere sia diventata furiosa, e che solo per un pelo non abbia smentito Crosetto con un’agenzia seduta stante. Quasi nessuno però ha notato che Meloni il giorno dopo ha rilasciato un’altra intervista, sempre su Avvenire, dettata solo per smentire Crosetto sullo stesso giornale in cui si era avventurato in esegesi sgradite. «Non faremo governi arcobaleno», il titolo secco. «Serve un governo coeso, può essere garantito solo da una coalizione di centrodestra che hanno idee compatibili», spiegava poi la presidente. «Le parole di Crosetto? Non parlava del governo, ma della necessità di uscire dalle contrapposizioni ideologiche... le larghe intese non hanno prodotto nulla di buono, solo soldi spesi a pioggia».

Qualcuno in FdI ha pure suggerito al capo che forse Crosetto (un ex democristiano la cui genealogia politico-culturale ha poco da spartire con quella dell’inner circle della post fascista) sperava di poter diventare lui stesso presidente del Consiglio di mediazione, in caso di una vittoria non schiacciante di Meloni. Una circostanza che, vera o falsa che sia, ha incrinato la fiducia assoluta che la leader aveva fino a poco tempo fa nel suo consigliere.

Crosetto resta comunque una delle migliori teste pensanti del partito, con rapporti eccellenti nei ministeri, nel deep state, nelle partecipate e nell’intelligence: vedremo nei prossimi giorni se le tensioni tra i due si smusseranno, e se l’imprenditore farà parte o meno della compagine di governo. Difficilmente, comunque, siederà al ministero della Difesa: il Quirinale conosce bene i conflitti di interessi del cofondatore ed è pronto a mettere il veto. Nonostante proprio ieri il lobbista abbia annunciato che abbia deciso di liquidare, per evitare insinuazioni, la società di consulenza aperta tempo fa con moglie e figlio.

Senatori o ministri?

Come già anticipato da Domani, Meloni non vuole dirigenti del suo partito in ministeri chiave. Con qualche eccezione: il senatore Fazzolari, pure responsabile del programma di FdI, lo vuole a fianco a sé. Come ha scritto il Corriere, potrebbe prendersi il ministero per l’Attuazione del programma: Meloni odia gli individualisti, e apprezza il suo colonnello perché capace di lavorare in collettivo, poco propenso a esporsi mediaticamente, capace di fare una citazione in più lingue sulla letteratura russa o francese (è diplomato allo Chateaubriand di Roma).

Molti credono che anche l’altro fedelissimo Lollobrigida sarà ministro, ma Giorgia gli chiederà di restare capogruppo del partito alla Camera. Tra i dirigenti del partito premono per un posto Daniela Santanchè, Nello Musumeci (Meloni vorrebbe farlo ministro del Sud) e ovviamente Ignazio La Russa, che la leader potrebbe accontentare con un sottosegretariato senza deleghe di peso, in un ruolo alla Bruno Tabacci.

Qualsiasi desiderata dei pretendenti, così come gli addetti ai lavori che giocano al toto-nomine, deve fare però i conti con un’evidenza a cui in pochi sembrano riflettere: in Senato la maggioranza del centrodestra è di soli 11 senatori, e dunque pochissimi di loro potranno fare i ministri o i sottosegretari, perché poi in aula o nelle commissioni il rischio di andare sotto nelle votazioni sarebbe all’ordine del giorno.

I nomi che turbinano per poltrone istituzionali o nell’esecutivo (Elisabetta Casellati, Anna Maria Bernini che sogna la presidenza di palazzo Madama, il leghista Gian Marco Centinaio che potrebbe tornare a fare il ministro dell’Agricoltura, Claudio Durigon riproposto dal Carroccio come sottosegretario, gli stessi meloniani Fazzolari e Alessio Butti che chiede la delega alle telecomunicazioni, per finire con big come Urso, Licia Ronzulli, Lucia Borgonzoni, Lucio Malan, Salvini e Berlusconi) sono tutti senatori. A causa della matematica, in molti rimarranno a bocca asciutta.

Senza Mef

Ma la issue principale, per cui Meloni è più preoccupata, è che il suo possibile governo non ha ancora un ministro dell’Economia. La casella più importante è rimasta a oggi sguarnita a causa nel niet di Fabio Panetta, membro del comitato esecutivo della Bce e nome che Mario Draghi ha consigliato alla leader già settimane fa. Il corteggiamento è stato martellante, ma finora da Francoforte sono arrivate solo fumate nere. Per due motivi: Panetta (che è uomo di centrodestra e con Meloni si intende benissimo) vuole diventare a tutti i costi governatore della Banca d’Italia dopo la fine del regno di Ignazio Visco. «Sembra inconvincibile», ripete lei ai suoi. L’economista (che prenderebbe al Mef uno stipendio assai più basso di quello che ora prende alla Bce) ha però declinato il suo diniego con un ragionamento non peregrino, del tipo: «Cara Giorgia, io da qui posso aiutare te e il paese in una posizione privilegiata, perché non è detto che se vado via dalla Bce mi sostituiscano con un altro italiano. Spero che tu poi mi possa in futuro sostenere per diventare governatore».

Il problema per Meloni è che un numero uno a via Nazionale si trova facilmente, un ministro dell’Economia che rassicuri contemporaneamente l’Unione europea, Christine Lagarde e i mercati assai meno. L’ultima speranza per la premier in pectore è un intervento diretto di Mattarella: chiamato dal presidente, difficilmente l’economista potrebbe rifiutarsi. Per ora, però, dal Quirinale nessuno si è mosso.

«Se quello del professore Cesare Pozzo è tramontato, nomi pure eccellenti come quello di Domenico Siniscalco o Luigi Buttiglione non sono farina del sacco di Fratelli d’Italia. Giorgia non li conosce personalmente, e di base non si fida di chi non conosce», dice un dirigente che crede che sia stato Crosetto a mettere sui giornali il nome dell’ex ministro del secondo e terzo governo Berlusconi.

In estrema ratio, se Panetta non dovesse convincersi e se Siniscalco (che direbbe invece subito di sì) non trovasse aperture da parte della leader, una possibilità seppur marginale se la giocherà Giulio Tremonti. La Meloni sa benissimo che l’ex berlusconiano non è amato a Bruxelles e alla Bce, ma potrebbe vendersi il nome del commercialista spiegando in prima persona, con comunicati che anticipino la nomina, che il suo governo intende rispettare i vari vincoli europei e che non intende fare scostamenti di bilancio. Chiarendo insomma che la “Melonomics” la definirebbe lei, insieme al viceministro con delega al fisco Maurizio Leo.

Un tentativo, in pratica, per depotenziare l’impatto negativo di una promozione di Tremonti. Una mossa azzardata, tanto che qualcuno in FdI suggerisce al capo di sparigliare tutto, e chiamare un outsider come il capo dell’Eni Claudio Descalzi, già dato papabile agli Esteri e allo Sviluppo economico. Il manager punta però a un quarto mandato nel Cane a sei zampe, incarico che gli permetterà di essere più potente di tre ministeri insieme e di non perdere stipendio di rilievo.

Di fatto, la casella al Mef resta dunque vacante. Ed è un problema gigantesco per la vincitrice. Il 25 settembre ha dato potenzialmente il via a un cambio di fase totale, un ribaltamento di regime come non si vedeva dal 2011, che peserà sugli assetti profondi del potere, delle società pubbliche, della finanza e della geopolitica. Il Mef è ontologicamente al centro della possibile rivoluzione meloniana, e l’uomo che siederà a via XX Settembre dovrà tenere insieme politica interna, i progetti sovranisti e i vincoli esterni che nemmeno una come la Santanchè nega più («non si può andare contro l’Europa e i mercati», ha detto davanti un esterrefatto Mario Giordano). Non avere nome autorevole in tempi brevi rischia di far partire il governo azzoppato.

Effetto Belloni

Altro aspetto determinante sono le donne: Meloni vuole che nel governo siano tante. Anche per replicare con i fatti a chi, a sinistra, la indica come foglia di fico di una politica maschilista che in realtà tende a limitare i diritti delle donne.

Una delle candidate “tecniche” è certamente Elisabetta Belloni, attuale capo del Dis, il dipartimento di palazzo Chigi che coordina le due agenzie dei servizi segreti. È corretto, come sostengono alcuni media, che la funzionaria che è stata a un passo dal diventare presidente della Repubblica sia diventata qualche giorno fa la candidata preferita di Meloni per la Farnesina. Una poltrona su cui smania da mesi proprio l’alleato Tajani, che Giorgia considera meno adeguato della dirigente e che vorrebbe dirottare al ministero delle Politiche europee o ad altro incarico come l’Interno, Lega permettendo.

Se Tajani dovesse alla fine alzare le barricate, c’è un altro posto dove potrebbe essere chiamata Belloni: a palazzo Chigi, come autorità delegata ai servizi segreti. Ruolo a cui mira anche Crosetto.

Un ruolo chiave e delicatissimo che Meloni non vuole dare a nessun politico di Fratelli d’Italia. Non perché non stimi uno come Urso (che infatti è in pole per la Difesa; per la cronaca è molto amico di Belloni con cui va talvolta a pranzare insieme) ma perché non vuole che le responsabilità dell’intelligence ricadano su uomini a lei collegabili.

Se Belloni accetterebbe certamente la Farnesina (dove dipendenti e ambasciatori tifano per lei piuttosto che per Stefano Pontecorvo o Giulio Terzi di Sant’Agata), difficilmente si sposterebbe negli uffici di Franco Gabrielli. A quel punto Meloni si affiderebbe un prefetto terzo o allo stesso Piantedosi (che lascerebbe così l’Interno a un altro candidato, come il collega Giuseppe Pecoraro appena eletto nelle liste di FdI), oppure potrebbe tenere per qualche mese le deleghe per sé, e poi decidere che farne.

Un’eventuale nomina di Belloni alla Farnesina creerebbe, va detto, una serie di problemi a cascata: l’ira di Antonio Tajani in primis, e la ricerca di un sostituto al Dis. Fatto che potrebbe innescare a cascata un giro di nomine anche nell’Aisi e nell’Aise, quando i tempi non sono certo maturi per cambiamenti radicali. Ecco perché non è detto che la dirigente alla fine resti, almeno per ora, dov’è.

Braccio di ferro

Il risiko è dunque ancora alle battute iniziali, e incastrare tutti i pezzi non sarà operazione semplice. Detto che non c’è nemmeno una squadra definita a palazzo Chigi che sostituisca i draghiani Roberto Garofoli e Antonio Funiciello, e che vari ministeri sono contesi da personalità diversissime tra loro: alla Cultura si sfidano l’improbabile Federico Mollicone, il sociologo Luca Ricolfi e la leghista Lucia Borgonzoni, alla Famiglia Lorenzo Fontana e Alfredo Mantovano, la Salute sembrerebbe affare di Licia Ronzulli.

Quello su cui Meloni eserciterà più pressioni è però il ministero della Giustizia. Lei vorrebbe mettere l’ex pm Carlo Nordio, la Lega invece l’avvocata Giulia Bongiorno. Dietro di loro ci sono mondi e lobby diverse, che si contenderanno il posto cruciale da guardasigilli. La presidente del Consiglio in pectore sa che Buongiorno è capace, ma la leader non ha mai dimenticato che la leghista è stata per anni la legale di Giancarlo Fini sullo scandalo della casa di Montecarlo, che la fondazione di Alleanza nazionale vendette a prezzi ridicoli al cognato Giancarlo Tulliani. Una vicenda che squassò la destra, e che la giovane Meloni – seppure i rapporti con Fini sono oggi cordiali – non ha mai digerito davvero. Anche se sono passati più di dieci anni.

 

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