Servivano 60mila morti, una carestia dilagante e una Striscia di Gaza ridotta quasi interamente in macerie per spingere i paesi occidentali a riconoscere lo Stato della Palestina. Senza l’attivismo dell’Eliseo probabilmente ci sarebbe voluto molto di più, ma dopo il passo in avanti fatto dal presidente Emmanuel Macron, seguito subito dal premier britannico Keir Starmer, ora la platea si è allargata a 14.

Mercoledì, infatti, i ministri degli Esteri di Canada, Australia, Finlandia, Nuova Zelanda, Andorra, San Marino e Portogallo hanno annunciato che i rispettivi governi stanno considerando il riconoscimento dello Stato della Palestina «come un passo essenziale verso una soluzione a due Stati».

Tra questi non c’è l’Italia. La premier Giorgia Meloni si è limitata per il momento a un colloquio con Benjamin Netanyahu con cui «ha insistito sulla necessità di porre immediatamente fine alle ostilità, a fronte di una situazione a Gaza che è insostenibile ed ingiustificabile».

La mossa francese

L’input è arrivato ancora una volta da parte della Francia che al termine della conferenza co-presieduta all’Onu insieme all’Arabia Saudita a esercitato pressioni sui suoi alleati. Al palazzo di vetro di New York è avvenuta sicuramente una svolta essenziale in campo diplomatico.

Andare verso il riconoscimento dello stato della Palestina, significa anche riconoscere un territorio per i palestinesi e ostacolare, quindi, i piani di annessione di Gaza e Cisgiordania da parte della Knesset e del governo dello stato ebraico. Resta da capire se sia soltanto un riconoscimento formale o se c’è la reale intenzione di garantire nel lungo termine l’esistenza di uno stato palestinese.

Ma i governi occidentali sono divisi. L’ennesima dimostrazione è arrivata dal Comitato dei rappresentanti permanenti che a Bruxelles ha discusso la proposta della Commissione Ue di sospendere parzialmente la partecipazione di Israele al fondo Horizon. Ancora una volta è mancata l’unanimità.

Tra gli Stati contrari ci sono Germania e Italia, gli stessi che qualche settimana fa si sono opposti alla revisione dell’accordo di associazione tra Unione europea e Israele. Ma anche a Bruxelles monta l’indignazione, esplicitata nella dichiarazioni della vicepresidente della Commissione europea Teresa Ribera. «Siamo in una corsa contro il tempo, la gente sta morendo di fame.

Le immagini che stiamo vedendo sono immagini che ricordano quelle del ghetto di Varsavia, che abbiamo impresse nella nostra memoria, della liberazione di Auschwitz. Quello a cui stiamo assistendo è uno spettacolo dantesco, intollerabile, disumano e amorale», ha detto senza mezzi termini in un’intervista rilasciata alla radio spagnola. Ribera ha ribadito l’incapacità dell’Ue di agire per far fronte all’attuale situazione, accusando gli stati membri.

L’inviato di Trump

Il governo israeliano ha inviato ad Hamas un documento contenenti tre condizioni chiave per far ripartire le negoziazioni: no a uno scambio tra ostaggi e detenuti palestinesi, no ad alcuni al ridispiegamento e al ritiro delle truppe dell’Idf da Gaza in alcuni punti, e soprattutto, ha ribadito il suo diniego sul ritiro dal corridoio di Filadelfi. Sono queste le condizioni messe sul tavolo da Netanyahu che finora ha accusato Hamas di ostacolare le trattative.

Mercoledì Netanyahu è tornato a parlare durante una visita al carcere di Ayalon. Ha detto che «la missione per salvare i nostri ostaggi è vicina, ma non ancora completata». E ha aggiunto: «Abbiamo anche una battaglia da portare a termine: l'eliminazione di uno degli esponenti dell'asse iraniano».

Dichiarazioni che presuppongono un conflitto ancora lungo, visti i risultati raggiunti dall’Idf finora. Resta da capire quanto tempo ha a disposizione il premier visto l’aumento delle critiche nei confronti del suo operato. Dopo che nei giorni scorsi due Ong israeliane hanno parlato esplicitamente di genocidio e cinque rettori universitari hanno inviato un appello per risolvere la crisi umanitaria, mercoledì un altro appello è stato diffuso per chiedere alla comunità internazionale di imporre «sanzioni paralizzanti» a Israele. Tra i 31 firmatari figurano anche personaggi israeliani di alto profilo tra cui intellettuali e accademici.

Guadagnare tempo

Per guadagnare tempo e distogliere l’attenzione dai continui bombardamenti (ieri oltre 20 palestinesi uccisi nei raid dell’Idf) Netanyahu ha annunciato che invierà ulteriori aiuti via aerea e ha chiesto ad altri Stati di partecipare alla missione. Ma non basta.

Anche per questo in serata è tornato in Israele l’inviato statunitense Steve Witkoff. Secondo i media visiterà i centri di distribuzione degli aiuti umanitari nella Striscia, quelli gestiti dalla Gaza humanitarian foundation e che hanno causato più di mille morti e 5mila feriti in due mesi.

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