Nella storia recente israeliana la figura divisiva dell’attuale primo ministro Benjamin Netanyahu ha spesso riunito nella protesta anime che difficilmente avrebbero potuto immaginare una battaglia politica comune senza di lui.

L’ultima ondata di manifestazioni, seguite all’annuncio lo scorso 4 gennaio di un nuovo pacchetto di riforme per esautorare la Corte Suprema di buona parte dei suoi poteri, non fa eccezione: in piazza sono scesi delusi delle destre e progressisti militanti, laici e religiosi, imprenditori delle start-up della tecnologia e scrittori. Uniti nel contrastare nomine politiche dei giudici, la possibilità per la Knesset di abrogare le decisioni della corte con una maggioranza semplice, e altre misure che considerano una cancellazione di fatto degli argini istituzionali ai poteri dell’esecutivo e della maggioranza parlamentare.

I tre sabato sera consecutivi di contestazione sono andati in scena malgrado la pioggia battente del 14 gennaio e, lo scorso sabato 28 gennaio, malgrado il grave attentato della vigilia a Gerusalemme che ha fatto sette morti e diversi feriti.

Il picco di presenze si è registrato il 21 gennaio con 120mila manifestanti a Tel Aviv e gruppi minori a Haifa, Gerusalemme e Be’er Sheva nel sud del paese. Nel solco di esperienze precedenti come le proteste contro il carovita del 2011 e quelle del 2020-2021 note come “proteste di Balfour” (dal nome della via della residenza del primo ministro a Gerusalemme), anche il movimento odierno non fa riferimento a una leadership ben identificata. Tuttavia si possono segnalare alcuni personaggi che si stanno affermando come portavoce.

L’avvocato che sfida Bibi da destra

Avi Himi, presidente dell’ordine degli avvocati israeliano, non era noto al grande pubblico prima di gettarsi a capofitto nella battaglia contro la proposta di riforma a farsene divulgatore per il pubblico non specializzato.

Himi è cresciuto da una famiglia originaria del Marocco a Kiryat Shmona, una delle città più svantaggiate del paese al punto da godere di vantaggi fiscali ad hoc, a ridosso del confine libanese e dopo un’infanzia povera è diventato un avvocato molto rispettato.

Come tanti sefarditi originari delle cosiddette Irot Pitu'ah, città “dello sviluppo” o centri urbani delle aree periferiche concepiti per accogliere nuovi immigrati, Himi è stato sostenitore del Likud di Menachem Begin negli anni della sua rivolta contro l’élite laburista ashkenazita culminata nel 1977.

Il suo collocamento politico naturale sarebbe con Netanyahu, invece è l’esponente più di spicco delle proteste. «La salvaguardia della democrazia è importante quanto la salvaguardia dei confini del paese. È ancora più importante dei confini fisici, perché è il nostro spirito, la nostra anima. Vedo questa lotta come parallela alla nostra guerra contro i nemici esterni», ha detto in una delle sue interviste coi media israeliani. Fra le sue proposte anche quella di dotare Israele di una costituzione: a oggi l’operato della Corte Suprema si basa sui documenti conosciuti come “leggi fondamentali”, che non sono state però mai organizzate in una vera e propria carta costituzionale.

Gli scrittori e i politici

Orfano degli amici Amos Oz e Abraham B. Yehoshua, con cui formava una triade influente sul piano politico oltre che su quello culturale, David Grossman si è comunque affermato come uno dei maître-à-penser delle proteste con un discorso il piazza lo scorso 21 gennaio. «Lo stato di Israele è stato fondato perché ci fosse un luogo al mondo in cui gli ebrei si sentissero a casa. Ma se così tanti israeliani si sentono stranieri nel loro stesso Paese, evidentemente qualcosa è andato storto», ha detto.

Oltre a lui durante le manifestazioni ha parlato anche la scrittrice Zeruya Shalev, autrice del romanzo Stupore uscito pochi mesi fa con Feltrinelli e di cui ha parlato con Domani.

Fra gli altri promotori di spicco l’ex capo della polizia Roni Alsheich, coordinatore delle indagini contro Netanyahu che hanno portato ai processi attualmente in corso, il numero uno dell’Unione dei dottori Hagai Levine, l’esperto di legge costituzionale Yaniv Roznai. Eliad Shraga dell’organizzazione “Movement for Quality Government in Israel”, responsabile in particolare degli eventi presso piazza Habima a Tel Aviv, e Ami Ayalon, ex capo dei servizi interni Shin Bet. E poi i politici: in prima linea l’ex primo ministro Yair Lapid, che ha promesso di ribaltare qualsiasi riforma giudiziaria vada in porto non appena ritorni al governo. E le figure meno scontate della destra conservatrice ma anti-Netanyahu: l’ex ministro della Giustizia Gideon Sa'ar che ha parlato di “cambio di regime” aggiungendo che il padre nobile del Likud Begin si rivolterebbe nella tomba. La nota ex ministra degli Esteri Tzipi Livni e l’ex ministro della Difesa Moshe "Bogie" Ya'alon.

Il settore hi-tech

Degna di nota è anche la partecipazione dei lavoratori del settore tech, motore trainante dell’economia israeliana.

Netanyahu lo considera una colonna portante non solo del pil ma anche della proiezione di Israele sul piano internazionale, dove ha saputo far uso delle eccellenze dello stato ebraico per fare progressi in diplomazia, e infatti ha incontrato di persona i leader del settore per parlare dei nuovi interventi normativi.

Secondo i rappresentanti della protesta del settore la riforma sarebbe «il più grande pericolo per l'hi-tech israeliano. Senza tribunali indipendenti, non ci saranno né innovazione, né creatività, né investitori, né le aziende internazionali che fino ad oggi hanno scelto di aprire centri di sviluppo qui», hanno scritto in un comunicato.

Il viaggio di Blinken

La questione della riforma del sistema giudiziario voluta da Netanyahu e dagli alleati di estrema destra, che vedono l’Alta Corte come un ostacolo a politiche più assertive rispetto a palestinesi e altri gruppi minoritari, è anche al centro della visita del segretario di Stato americano Antony J. Blinken in Israele. Durante le dichiarazioni alla stampa seguite all’incontro con Netanyahu domenica sera Blinken si è espresso con parole dure.

I valori condivisi da Israele e dagli Stati Uniti, ha detto, «includono il nostro sostegno ai principi e alle istituzioni democratiche fondamentali, tra cui il rispetto dei diritti umani, l'equa amministrazione della giustizia per tutte le persone, i diritti dei gruppi minoritari, lo stato di diritto, una stampa libera, una solida società civile».

Come a voler giustificare l’intervento su un conflitto politico interno allo stato ebraico ha aggiunto: «Le nostre democrazie possono anche renderci più forti. Questo è ciò che gli Stati Uniti e Israele hanno fatto l'uno per l'altro nel corso di molti decenni, rispettando gli standard reciproci che abbiamo stabilito. E parlando con franchezza e rispetto, come fanno gli amici, quando siamo d'accordo e quando non lo siamo».

Parole non certo gradite a Netanyahu, che nel suo libro Bibi, la mia storia non manca di lamentarsi delle occasioni in cui la Casa Bianca avrebbe sostenuto parti politiche avverse alla sua, in particolare l’endorsement di Bill Clinton a Shimon Peres nel 1996, quando per pochi voti Bibi diventò per la prima volta primo ministro.

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