Ma siamo sicuri che si possa ancora scrivere Odessa, con due esse? Dopo che in città hanno rimosso la statua di Caterina la Grande, quella doppia esse – la stessa che ritroviamo anche in Donbass – è divenuta sospetta: viene additata come indice di ignoranza o, peggio, di adesione alla colonizzazione russa.

Lo stesso atto di fondazione della città, nella rivisitazione della storia, è presentato come mito che alimenta la narrazione imperiale russa: da una parte il decreto della zarina, che porta alla costruzione di una grande città cosmopolita di stile mediterraneo, poi porto franco; dall’altra, a fare da contraltare, una lunga storia di insediamenti pre-esistenti e di innesti a seguire, che sopravvivono all’impronta russa e conferiscono il carattere peculiare alla città.

Sui social si parla di “linguicidio”, e circolano vademecum per giornalisti che prescrivono la grafia e la pronuncia “dalla parte della vittima”: Ucraìna, e non Ucràina. Kharkiv, e non Karkov, e così via.

Non sorprende, nel montare della pressione sull’invio di carri armati agli ucraini, il fatto che il primo ad essere schernito, accusato di non saper prendere posizioni coerenti, sia stato il Cancelliere tedesco Olaf Scholz, reo di aver espresso la propria solidarietà agli ucraini attraverso la traslitterazione sbagliata, ovvero impiegando il “nome coloniale” di Odessa, con le due esse.

Il nome Odesa, ribattono sui social, «solidifica l’identità ucraina» davanti al tentativo russo di assimilare e cancellare. 

Spirito decolonialista

La vicenda storica è complessa, e merita tutto il rispetto che le gravi circostanze impongono. A queste latitudini, poi, il retaggio imperiale russo incrocia quello degli imperi centrali ma anche l’eredità imperiale ottomana, a sua volta intrecciata con la storia della razzìa e del commercio di schiavi slavi e cristiani, affidato ai mercanti veneziani o genovesi.

Come che sia, la statua della zarina fondatrice di Odesa è stata dapprima agghindata con un cappio e un cappuccio, quindi rimossa dalla piazza centrale dopo un voto del consiglio comunale, destinata a un parco dedicato al "passato imperiale”, e infine sostituita da una grande bandiera ucraina. Odesa è stata così consegnata al ruolo di “capitale del sud” dell’Ucraina.

Le voci della diaspora ucraina nel mondo hanno perentoriamente sottolineato l’importanza della decolonizzazione.

Le immagini riprendono quelle della contestazione delle statue di Leopoldo II, il genocida, o di Cecil Rhodes,  e il dibattito sulla cancel culture, così esplicitamente avversata da Vladimir Putin.

Nel frattempo, i 42 morti dell’assedio e del rogo del 2 maggio 2014 alla Casa dei Sindacati di Odesa sembrano dimenticati senza che sia emersa una verità. Il pessimum facinus pare condonato. Il sindaco della città, uomo forte dai trascorsi controversi e della recente conversione patriottica ucraina, accoglie indisturbato il nuovo ruolo.

Eppure lo standard internazionale pareva essere Odessa. Di Isaak Babel’, che non ricordo nutrire sentimenti di simpatia per il nazionalismo grande-russo, ricordo i Racconti di Odessa, con due esse.

Più vicino a noi, ricordo i lunghi anni di lotta, prima nonviolenta poi armata, per l’indipendenza del Kosovo: io mi ero abituato a scrivere Kosova, all’albanese, ma in seguito ho poi constatato come in effetti nessuno – in italiano o in inglese –  si sia conformato a questo standard.

Soprattutto, dal Kosovo indipendente non è arrivata l’ingiunzione a decolonizzare il nome. Certo è più raro oggi imbattersi nell’italianizzazione in Cossovo, o la sostituzione dell’aggettivo albanese con schipetaro, terminologia che sa molto di colonizzazione fascista dell’Albania e richiama l’occupazione del Kosovo durante la seconda guerra mondiale, quando nei palazzi pubblici di Pristina vennero apposte le targhe che ancor oggi dirigono il visitatore verso i lavamano.

Il fatto è che, comprensibilmente, gli ucraini stanno diventando insofferenti. Una ricercatrice ucraina su Twitter presenta, direttamente dal proprio quotidiano, una scena consueta: “Sei russa o ucraina?” “Sono ucraina”. “Ma ucraina o russo-ucraina?” – insiste l’interlocutore. “Ucraina”, risponde lei. “Ah, e cosa pensi del conflitto?”. “La Russia ci ha invasi, cos’altro serve sapere?”. “Beh, penso che entrambe le parti….”.

E allora, per tagliare la testa al toro e capire chi si ha davanti, la ricercatrice propone di far caso a come l’interlocutore risponde allo slogan che abbiamo imparato a conoscere: “Slava ukraini!” (Gloria all’Ucraina!), alla quale il patriota e il sostenitore della causa ucraina risponderanno immediatamente “Gloria agli eroi!”

Potrà apparire pedante, ma una delle domande che credo valga la pena porre è se, davanti al carico di morte e distruzione di una guerra così estenuante e dolorosa, attorno a una frontiera d’Europa, la giusta causa della difesa ucraina possa permettersi di selezionare il solo sostegno di chi è pronto a dare la risposta giusta, scattando in piedi sul “Gloria agli eroi”.

Ma allora, è possibile essere schierati (non da oggi, peraltro) fervidamente contro il disegno di Putin e l’imperialismo russo, e non rinunciare a chiamare con il proprio nome nazionalismo e militarismo? Le guerre, si sa, polarizzano.

Il richiamo alla responsabilità con cui Jürgen  Habermas, appoggiando le posizioni di Scholz, ha recentemente posto la questione del negoziato e della vittoria hanno provocato fra i ricercatori ucraini lapidari commenti circa «l’urgente bisogno di decolonizzazione del mondo accademico occidentale».

Certo esiste una dimensione postcoloniale nella guerra in Ucraina: si tratta di una questione su cui spesso si glissa, nel nome di una razionalità astratta e oggettiva che fatica a dar conto della carsicità dei processi storici.

Come ogni questione postcoloniale, essa si alimenta anche di identità ibride, che i nazionalismi, aiutati dal potere di plasmare proprio della violenza, si propongono invece di ripristinare in purezza. Come ha scritto International Crisis Group, il conflitto ha turbo-caricato i nazionalismi dell’Est Europa.

È sufficiente vedere quanto il culto che il nazionalismo ucraino fa di Stepan Bandera in realtà divida, a partire dai polacchi, che furono vittime delle sue formazioni armate. Ne sanno qualcosa gli ungheresi della Transcarpazia, o le comunità rom, più volte vittime di veri e propri pogrom negli anni passati.

L’idea che tutto quello che cade sotto il confine ucraino debba essere scritto e parlato in lingua ucraina trova corso nel vivo della guerra di difesa di una nazione minacciata, ma si scontra – come è stato ufficialmente rilevato – con gli standard dell’Osce accettati dalle stesse democrazie che sostengono la difesa ucraina davanti all’aggressione.

Accuse di “westplaining”

Qual è allora l’argine al nazionalismo nelle sue manifestazioni più deteriori e già viste? Sollevare la questione è, a quanto pare, sufficiente per essere accusati di westplaining.

Slava Ukraini!, mi è stato spiegato, è «un saluto popolare inclusivo, che ricorre fra ucraini di diversa fede politica, che gli stranieri confondono come slogan nazionalista». L’uso della traslitterazione dal russo delle due esse in Odessa – mi è stato ulteriormente chiarito – è «ufficialmente scorretto e normativamente problematico, perché ignora le origini coloniali e le voci ucraine».

Veniamo allora a queste ultime, prendendo l’articolo “Ukrainian voices” apparso sulla New Left Review a firma di Volodymyr Ishchenko, ricercatore in scienze sociali a Berlino. Ishchenko ha postato su Twitter un template delle risposte via mail, con le quali gentilmente declina gli inviti a rappresentare la “voce ucraina” nei tanti dibattiti organizzati in questi mesi in Europa, affermando di non voler contribuire ad esotizzare il tema del conflitto.

Forse, per fare un po’ di chiarezza, occorre iniziare a dire che gran parte dei nomi ucraini che troviamo in Italia sono ripresi dalla traslitterazione secondo le regole della fonetica inglese, il che a volerla dire tutta è una forma di imperialismo culturale che difficilmente può essere omessa.

Così, per poter essere letto in modo appropriato, lo stesso Ishchenko dovrebbe essere scritto Iščenko, mentre il presidente ucraino Zelensky dovrebbe essere scritto Zelens’kyj, e Kharkiv diventerebbe Charkiv.

Ciò premesso, credo Iščenko colpisca nel segno quando afferma che l’attenzione alla decolonizzazione dell’Ucraina è portatrice di un eccesso di enfasi su simboli e identità, a scapito dell’attenzione alle dinamiche di trasformazione sociale.

Il collega ricercatore sostiene che la rappresentazione del conflitto lungo linee di cultura politica, fra democrazia e autoritarismo, in chiave anti russa e anti sovietica, si rivela intellettualmente incapace di dialogare con il resto del mondo: il risultato è che diventa difficile comunicare cosa c’è di universalmente rilevante nella lotta ucraina. 

Nello spazio imperiale russo esiste una questione coloniale, che fa sì che molti soggetti coloniali percepiscano ancora oggi lo sguardo dalla metropoli come giudizio sulla loro arretratezza, l’impossibilità di essere riconosciuti come uguali.

Si può dire che se spesso i soggetti del colonialismo russo hanno imparato a conoscere i russi ed empatizzare con le loro sofferenze, essi non hanno incontrato reciprocità, restando figure marginalizzate.

Per molti di loro la resistenza ucraina offre un’immagine di riscatto rispetto a traumi che non guariscono in assenza di riconoscimento. Nelle lotte di coloro ai quali sono stati negate c’è l’affermazione di ideali universali, i quali però rischiano di venire eclissati da un eccesso di enfasi identitaria e “decoloniale”, che magnifica la cultura come la lente attraverso cui capire le differenze sociali.

Occorre chiedersi se ci troviamo nel momento giusto per porre questa questione, nel pieno dell’invasione e della resistenza, avendo di fronte una potenza revisionista, quella russa, che – parlando di trasformazione sociale e dogmi neoliberali non ha nulla da invidiare all’occidente che avversa.

E tuttavia, nel momento in cui l’Ucraina parla di ricostruzione già durante la guerra, sono necessarie scelte che comprometteranno la solidarietà e l’unità della nazione, esponendo le conseguenze di un tessuto sociale lacerato.

La vicenda ucraina si presta a capire molto di più di quanto accade nella sola Ucraina, intercettando processi più ampi che attraversano altri paesi, inclusa l’ascesa di forme di tecno-populismo e di modelli di conservatorismo nazionalista che hanno ampio corso anche in occidente. 

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